Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Questione rilevabile d’ufficio ma non considerata dalle parti – Rilevazione da parte del giudice dopo l’udienza di trattazione – Obbligo di sottoporre la questione alle parti per consentire l’esercizio del diritto di difesa – Sussiste – Omissione – Nullità della sentenza – Consegue.
Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Questione rilevabile d’ufficio ma non considerata dalle parti – Rilevazione da parte del giudice dopo l’udienza di trattazione – Omessa sottoposizione della questione alle parti – Nullità processuale – Consegue – Diversificazione degli effetti a seconda del grado di giudizio in cui si verifica – Individuazione.
Il giudice che dopo l’udienza di trattazione ritenga di sollevare una questione rilevabile d’ufficio e non considerata dalle parti deve sottoporla ad esse al fine di provocare il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle opportune difese dando spazio alle consequenziali attività, e la mancata segnalazione da parte del giudice comporta la violazione del dovere di collaborazione determinando la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria.
Qualora la violazione del diritto di difesa delle parti del processo che consegue dalla mancata segnalazione ad esse, da parte del giudice, di una questione rilevabile d’ufficio ma non considerata dalle parti stesse, sollevata dopo l’udienza di trattazione, si sia verificata nel giudizio di primo grado, la sua denuncia in appello, accompagnata dall’indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo giudice ma la rimessione in termini per lo svolgimento nel processo d’appello delle attività il cui esercizio non è stato possibile, mentre qualora invece la violazione sia avvenuta nel giudizio di appello la sua deduzione in cassazione determina, se fondata, la cassazione della sentenza con rinvio, affinché in tale sede sia dato spazio alle attività processuali omesse.
[Corte di Cassazione, sez. VI (Pres. Cicala, rel. Di Blasi), 13 novembre 2012, ord. n. 19805]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE– Nel ricorso iscritto a R.G. n. 6999/2011 è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:
1. È chiesta la cassazione della sentenza n. 4/15/2010, pronunziata dalla CTR di Bari Sezione n. 15 il 2.12.2009 e depositata il 14 gennaio 2010.
Con tale decisione, la C.T.R. ha respinto l’appello del contribuente, e confermato l’operato dell’Ufficio, che aveva negato il diritto al rimborso.
2. Il ricorso, che attiene ad impugnazione del silenzio rifiuto sulla istanza, presentata al fine di ottenere il rimborso dell’IRPEF, ritenuta e versata dal datore di lavoro Banco Sanpaolo IMI in sede di liquidazione dell’indennità di incentivo all’esodo, è affidato a più mezzi, con i quali la decisione di appello viene censurata per violazione e falsa applicazione di legge e vizi della motivazione.
[-protetto-]
3. L’intimata Agenzia, giusto controricorso, ha chiesto che l’impugnazione venga dichiarata inammissibile e, comunque, rigettata.
4. La CTR ha negato il diritto al chiesto rimborso, sotto un primo profilo, per insussistenza del requisito dell’età, fissato dalla legge a 55 anni per gli uomini ed a 50 per le donne, e sotto altro aspetto, per non avere il contribuente offerto una prova documentale in merito al fatto che l’erogazione era stata effettuata a titolo di incentivazione all’esodo, risultando in atti solo la certificazione della corresponsione dell’indennità di fine rapporto.
4-bis. Tra le censure prospettate con il ricorso, deve essere esaminata in via preliminare, quella con cui si deduce la violazione dell’art. 101 c.p.c., con violazione del principio del contraddittorio e del fondamentale diritto di difesa, per avere la CTR rilevato d’ufficio e posto a base della decisione la fondamentale e prioritaria questione relativa alla natura dell’erogazione, che, a dire del contribuente, non era stata mai contestata dall’Amministrazione, che anzi con atti e comportamenti concludenti, era stata considerata e qualificata come incentivo all’esodo.
Tale questione sembra doversi definire sulla base del principio secondo cui “Il giudice che ritenga, dopo l’udienza di trattazione, di sollevare una questione rilevabile d’ufficio e non considerata dalle parti, deve sottoporla ad esse al fine di provocare il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle opportune difese, dando spazio alle consequenziali attività”. La mancata segnalazione da parte del giudice comporta la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell’esercizio del contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria. Qualora la violazione, nei termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di primo grado, la sua denuncia in appello, accompagnata dalla indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo giudice, ma, in forza del disposto dell’art. 354, comma 4, c.p.c., la rimessione in termini per lo svolgimento nel processo d’appello delle attività il cui esercizio non è stato possibile. Ove invece la violazione sia avvenuta nel giudizio di appello, la sua deduzione in cassazione determina, se fondata, la cassazione della sentenza con rinvio, affinché in tale sede, in applicazione dell’art. 394, comma 3, c.p.c., sia dato spazio alle attività processuali omesse.
Eguale soluzione va adottata nel caso di sentenza non soggetta ad appello e come tale ricorribile per cassazione (Cass. n. 21108/2005, n. 16577/2005, n. 14637/2001).
Nel caso, i Giudici di appello sembra abbiano fatto malgoverno del trascritto principio, non avendo posto la parte nelle condizioni di interloquire e di svolgere le proprie difese sulla questione rilevata d’ufficio.
5. Si propone di procedere alla trattazione del ricorso in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c., e di accoglierlo, per manifesta fondatezza, nei sensi e nei limiti indicati, dichiarando assorbite le altre censure.
Il Relatore Cons. Antonino Di Blasi”.
La Corte:
Vista la relazione, il ricorso, il controricorso e gli altri atti di causa;
Considerato che il Collegio condivide le argomentazioni, in fatto ed in diritto, svolte nella relazione;
Considerato che alla stregua delle svolte considerazioni e del richiamato principio, il ricorso va accolto, nei termini e nei limiti evidenziati in relazione, per manifesta fondatezza, e conseguentemente, che, assorbite le altre doglianze, va cassata con rinvio l’impugnata decisione;
Considerato, altresì, che il Giudice del rinvio, che si designa in altra sezione della CTR della Puglia, procederà al riesame e deciderà nel merito e sulle spese del giudizio di legittimità, offrendo congrua motivazione;
Visti gli artt. 375 e 380-bis c.p.c.
P.Q.M. – Accoglie, nei limiti indicati, il ricorso dell’Agenzia Entrate, cassa l’impugnata decisione e rinvia ad altra sezione della CTR della Puglia.
Le questioni rilevate d’ufficio dal giudice devono essere preventivamente enunciate e sottoposte alle parti, pena la nullità della sentenza
La decisione si uniforma a un risalente e persuasivo percorso giurisprudenziale (di radicamento quanto meno pluridecennale, ma non immune da solenni battute d’arresto) (1) che conferma come la pienezza e la libertà del contraddittorio debbano essere suprema premura dapprima di chi, in via generale e astratta, disciplina le regole del processo (il legislatore) e, più tardi, di chi il processo amministra (il giudice). Un canone anteposto a qualunque concomitante valore, a quella stessa celerità del procedimento che pure, con le cruente condanne subite in sede comunitaria dallo Stato italiano, ha finito per rappresentare una preoccupazione e insieme un caposaldo del sistema di giustizia interno.
La pronuncia coglie infatti un cardine strutturale, corollario del paradigma del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., al quale tutti – in primis il giudice – soggiacciono, espresso com’è proprio sotto la forma (di stampo kelseniano) di ordine rivolto dal legislatore all’organo decidente. Come statuisce l’art. 183 c.p.c. al terzo comma «il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari ed indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione»; prescrizione non solo programmatica, anzi a tal punto ferrea che all’occorrenza, in forza dell’art. 101, secondo comma, c.p.c., il giudice (civile come tributario) deve «riserva[re] la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria [leggi: segreteria] di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione» (2).
Con la conseguenza che l’omessa ottemperanza al precetto, sposandosi con il requisito fattuale della rilevanza (ché utile per inutile non vitiatur), corrompe nell’irreparabilità il verdetto finale, monco dell’indispensabile (benché solo virtuale) contributo dei litiganti: una facoltà che in costoro germina dal loro diritto ad aggiustare il tiro in qualunque momento della dinamica processuale, là dove prende vita quel sistema nervoso del processo che ha nome dialettica (3).
Venendo meno al dovere, il giudice compromette il suo ruolo di «collaborazione con le parti nella formazione della materia del giudizio», secondo una spartizione dei compiti che lo deve portare a segnalare ai contendenti «le questioni suscettive di rilievo officioso, onde consentire che su di esse si apra la discussione e sia consentito alle parti di precisare domande ed eccezioni, allegare altri elementi di fatto e richiedere nuove prove» (4). Gli è in buona sostanza proibito di emettere le cosiddette decisioni a sorpresa, che finirebbero per piombare sulle parti (e ovviamente su una in particolare con effetti assai più devastanti) fra capo e collo, frutto di una “terza via solitariamente prescelta” (questa la denominazione assunta in gergo) rispetto a quelle rispettivamente sostenute.
Come detto, al principio va assegnata una collocazione di “centralità nell’intero processo”, in nome della quale occorre prescindere dalle modalità particolari di questa o quella situazione processuale (5). L’affermazione ha tanto più pregio in quanto sortita dal giudice della legittimità ben prima che il legislatore mettesse mano, con una serie di interventi adeguativi, all’esternazione del precetto. Ciò che questi ha fatto modificando nell’ordine – ma secondo un unicum improntato a coerenza – alcune disposizioni del codice di rito civile, e cioè l’art. 384, terzo comma, per il giudizio promosso con ricorso per cassazione (con l’art. 12 del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) (6) nonché, nel giugno 2009, l’art. 101, secondo comma, già riportato integralmente sopra (7) (cui si aggiunge, rimasto inalterato nel tempo, l’art. 354, primo comma, per il giudizio di appello) (8).
Va da sé che gli operatori devono prestare profonda attenzione al problema, atteso che è a rischio l’integrità della sentenza, cioè il frutto del loro sforzo complessivo. Tanto più il monito vale per gli operatori del processo tributario, essendo un dato di fatto che quest’ultimo brulica di cause di inammissibilità – soprattutto con riferimento alla fase di instaurazione del contraddittorio (artt. 18 e segg. del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) o alla fase della sua riproposizione in secondo grado (artt. 52 e segg.) – che le Corti territoriali tendono a tenere per sé (complice anche l’abitudine di certi relatori di arrivare impreparati all’udienza di trattazione e di scoprire solo più tardi, talora molto più tardi, uno o più presunti vizi passibili di inammissibilità). Cause di inammissibilità che, stando all’insegnamento impartito dalla Suprema Corte, amputano il giudizio del vaglio del merito.
L’imperativo, come interpretato dall’indirizzo più rigoroso, vige qualunque sia la forma di trattazione di fatto adottata, si tratti cioè di discussione celebrata in pubblica udienza (art. 34 del D.Lgs. n. 546/1992) o, qualora essa non sia stata esplicitamente richiesta, in camera di consiglio (art. 33). In ogni caso il giudice è tenuto a disporre: nella prima ipotesi, l’apertura (ovvero, se ancora possibile, la riapertura) della discussione sul punto; nella seconda, l’integrazione del contraddittorio con provvedimento fuori udienza (senza con ciò – è bene precisare – incidere sul tipo di rito: potrà ognuna delle parti in causa ripensarci e decidere se la successiva udienza, in cui la causa sarà chiamata e per cui dovrà ricevere una convocazione ad hoc, dovrà anch’essa avvenire a porte chiuse o meno) (9).
L’ordinanza in commento è inoltre puntuale nel descrivere la sorte dell’eventuale violazione del dovere, in capo al giudice, di segnalare l’esistenza di una questione che sia rilevabile d’ufficio (10) e si riveli decisiva ai fini del giudizio (11). Al riguardo si uniforma, una volta di più, al dictum delle precedenti pronunce di identico segno (12), sulla scorta delle quali va operato un preciso distinguo a seconda che la violazione sia commessa in primo grado oppure nel corso del giudizio di appello, nel senso che: a) nel primo caso, «la sua denuncia inappello, accompagnata dalla indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere se fosse stata provocata a discutere sulla questione, determina, se fondata, non già la regressione al primo giudice, non vertendosi in una delle ipotesi previste dall’art. 354 c.p.c., bensì la rimessione in termini per lo svolgimento, nel processo di appello, delle attività il cui esercizio non è stato possibile, come è dato desumere dal comma 4 del citato art. 354»; b) nel secondo caso, «la sua deduzione in cassazione determina, se fondata, la cassazione della sentenza con rinvio, affinché in tale sede, in applicazione dell’art. 394, terzo comma, c.p.c., sia dato spazio alle attività processuali che la parte abbia lamentato di non avere potuto svolgere a causa della decisione solitariamente adottata dal giudice». Non è chi non veda come in ambedue i casi: 1) la violazione debba essere dedotta dal soggetto interessato nell’atto di impugnazione quale specifico motivo di doglianza, altrimenti il profilo finirebbe coperto dal giudicato interno; 2) la deduzione debba essere sorretta dalla scrupolosa indicazione delle potestà processuali consequenzialmente impedite; e 3) spetti al giudice ad quem di valutarne la rilevanza ai fini decisori.
Il discorso, a questo punto, si amplia e induce a interrogarsi sulla piena compatibilità dell’analisi svolta con l’articolato del D.Lgs. n. 546/1992. Che ne sarà, ad esempio, dell’art. 27, che recita «il presidente della sezione, scaduti i termini per la costituzione in giudizio delle parti, esamina preliminarmente il ricorso e ne dichiara l’inammissibilità nei casi espressamente previsti, se manifesta»? Gli è davvero ancora permesso un provvedimento simile (decreto monocratico fuori udienza, appellabile alla Sezione alla stregua dell’articolo successivo), adottabile allo scadere dei «sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale», termine (meramente ordinatorio) concesso alla parte resistente per costituirsi in giudizio (art. 23, primo comma)? La possibilità di un siffatto provvedimento appare di fatto disinnescata perché: o la parte resistente (sempre la pubblica Amministrazione, in primo grado) non si è ancora costituita tramite deposito delle proprie controdeduzioni (e allora la questione è ancora in pectore al giudice) o il vizio è stato dedotto, ma il ricorrente, a sua volta, non ha ancora avuto modo di interloquire. Insomma comunque sia, sul nervo scoperto il contraddittorio non ha ancora avuto modo di completarsi, ergo il giudice deve attendere l’evoluzione della fase istruttoria.
Avv. Valdo Azzoni
(1) Tra le voci contrarie, cfr. Cass., sez. II, 27 luglio 2005, n. 15705, in Giur. it., 2006, 1457, che motiva in ragione della mancanza di un’espressa comminazione ope legis della nullità, e Cass., sez. un., 30 settembre 2009, n. 20935, in Corr. giur., 2010, 352, che – pur smentendo la precedente in quanto «il principio di tassatività delle nullità non trova applicazione per le nullità extra-formali, qual è appunto quella derivante dalla violazione del principio del contraddittorio» – nondimeno circoscrive l’ambito d’azione del principio evidenziato (di doverosa, preventiva segnalazione alle parti, a cura del giudice, delle questioni rilevabili d’ufficio e al momento non emerse) alle «sole questioni di fatto ovvero miste, di fatto e di diritto», le uniche, a suo dire, idonee «a legittimare la parte soccombente (a prescindere dalla censura di erroneità della soluzione) a dolersi del decisum sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove».
(2) Il capoverso è stato aggiunto dall’art. 45, comma 13, della legge 18 giugno 2009, n. 69. Il rinvio operato dall’art. 1, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, apre pacificamente all’estensione in parte qua della disciplina processualcivilistica.
(3) Secondo Cass., sez. I, 21 novembre 2001, n. 14637, in Giust. civ., 2002, I, 1611, «la dialettica è travolta se si consente una decisione sulla base di questioni che ne sono state estranee, ancorché un tale effetto risalga all’esercizio dei poteri del giudice». Nella vicenda trattata dall’ordinanzain rassegna, il giudice non aveva rappresentato alle parti una «fondamentale e prioritaria questione», quella relativa alla natura dell’erogazione oggetto di contesa (fondata sulla rivendicazione dell’IRPEF trattenuta e versata dall’istituto di credito datore di lavoro in sede di liquidazione dell’indennità di incentivo all’esodo), natura che «a dire del contribuente [tesi fatta propria dal Collegio giudicante], non era mai stata contestata dall’Amministrazione, [e] che anzi, con atti e comportamenti concludenti, era stata considerata e qualificata come incentivo all’esodo».
(4) Cass., sez. III, 5 agosto 2005, n. 16577; e Cass., sez. III, 31 ottobre 2005, n. 21108, entrambe in Giur. it., 2006, 1456, identiche nel tenore. Entrambe le decisioni ritengono di attingere, come a una conferma, al dettato dell’art. 184-bis c.p.c. (nella seconda si legge 194-bis, ma si tratta di un palmare refuso), per cui «la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini». Un’identica logica presiede infatti alle due fattispecie processuali.
(5) Cfr. Cass. n. 14637/2001, cit., che, prima delle riforme di cui do subito conto nel testo, ebbe ad applicare il principio alla prima udienza di trattazione, per cui «il giudice che ritenga dopo tale udienza di far rilevare un fatto o una questione non considerati dalle parti, deve segnalarli alle medesime e consentire che prendano posizione». Indiretta conferma, secondo la Corte regolatrice, si sarebbe ricavata dal già evocato art. 184-bis c.p.c., espressione dello stesso crisma basilare del contraddittorio «perché, rimettendo in termini la parte che senza colpa non ha potuto giovarsi delle facoltà che la legge prevede sia nella fase di trattazione che in quella dedicata alle deduzioni istruttorie, consente di strutturare un contraddittorio altrimenti carente. Pertanto, in base a tale norma, se il giudice si avvede tardivamente di una questione rilevabile d’ufficio, e la indica alle parti dopo l’udienza di trattazione, deve consentire ad esse di eccepire ed argomentare, con analoga tardività».
(6) Attuale tenore dell’art. 384, terzo comma, c.p.c.: «se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte [di Cassazione] riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione». Ai sensi dell’art. 27 del D.Lgs. n. 40/2006, la norma si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.
(7) Ved. circ. 31 marzo 2010, n. 17/E, in Boll. Trib., 2010, 527, la quale, fra gli archetipi delle questioni rilevabili d’ufficio, pone «il difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992»; opinione confutata da U. Perrucci, I rapporti tra processo civile e processo tributario, ibidem, 1440, nella convinzione che la regola di cui all’art. 101, secondo comma, c.p.c., «è stata creata su misura per un processo che abbia una fase giudiziale istruttoria e termini in qualche misura elastici, come avviene nel processo civile, mentre il processo tributario si celebra ed esaurisce in una sola udienza di trattazione».
(8) Art. 354, primo comma, c.p.c.: «fuori dei casi previsti nell’articolo precedente, il giudice di appello non può rimettere la causa al primo giudice, tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, ovvero dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell’articolo 161 secondo comma».
(9) Contra U. Perrucci, Il rapporti tra processo civile e processo tributario, cit., 1441, in forza delle ragioni già riportate nella nota 7.
(10) La rilevabilità d’ufficio integra un requisito indispensabile. Circa la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio del potere di accertamento, cfr., ex pluribus, Cass., sez. trib., 11 gennaio 2008, n. 478, in Boll. Trib., 2009, 974, con nota redazionale perplessa. La decisione afferma che la decadenza, «in quanto stabilita in favore e nell’interesse esclusivo del contribuente in materia di diritti da esso disponibili, configura una eccezione in senso proprio che deve essere dedotta [da quegli], non potendo essere rilevata d’ufficio dal giudice».
(11) Altro requisito “indefettibile” è la rilevanza concreta dell’omissione nell’economia complessiva della vicenda processuale sub iudice, rilevanza da valutare secondo il principio di salvezza fissato dall’art. 159 c.p.c.: «la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli successivi che ne sono indipendenti. La nullità di una parte dell’atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti. Se il vizio impedisce un determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo».
(12) Cfr. Cass. n. 16577/2005, cit.; e Cass. n. 21108/2005, cit.