1. L’annotata sentenza mette in luce, attraverso numerosi rinvii ai precedenti della Suprema Corte, come il principio del divieto di abuso del diritto rappresenti, nel momento in cui scriviamo (1), nulla più che un “prodotto giurisprudenziale”.
“Prodotto giurisprudenziale” significa che non esiste nell’ordinamento tributario domestico (2) una disposizione volta a definire i contorni dell’abuso. Manca, in altre parole, una regola scritta sulla quale gli operatori economici possano fare affidamento nel momento in cui essi decidano di programmare la propria attività e di porre in essere questa o quella fattispecie.
Il principio del divieto di abuso è nato, dunque, nelle aule di giustizia, non nelle aule del Parlamento o negli uffici dell’Esecutivo. E la genesi del principio è stata fortemente influenzata – noi crediamo – dalla peculiare curvatura dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Infatti, quest’ultima disposizione è stata introdotta nel nostro sistema fiscale soltanto nel 1997 e con evidentissime limitazioni, le quali hanno riguardato sia le materie rientranti nello spettro applicativo della clausola antielusiva sia le operazioni suscettibili di sindacato (3).
Non è casuale, pertanto, che le prime sentenze sull’abuso del diritto si riferiscano a fattispecie le quali, per una ragione o per l’altra, non erano coperte dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. Per rendersi conto di quanto testé osservato è sufficiente soffermarsi sul leading case italiano, vale a dire sulla sentenza della Corte di Cassazione n. 30055/2008 (4), espressamente richiamata nella pronuncia in rassegna. Orbene quest’ultima sentenza riguardava un caso di dividend washing che era stato contrastato dall’Amministrazione finanziaria attraverso la norma sull’interposizione fittizia. Quella controversia non si era pertanto sviluppata lungo il binario dell’elusione fiscale. Ed è per questo che i giudici, resisi conto dell’aggiramento delle disposizioni sul credito d’imposta e resisi conto altresì dell’impossibilità di innestare, in quella causa, l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, hanno utilizzato il principio del divieto di abuso, calandolo dipoi sulla fattispecie concreta. Un prodotto giurisprudenziale, appunto.
2. Ma “il re è nudo”. Questo schema argomentativo, che ricorda da vicino gli ordinamenti di common law, ha in qualche modo esaltato la fragilità delle basi giuridiche del principio.
In un primo momento, la Suprema Corte aveva affermato che il divieto di abuso affondava le propri radici nel comparto del diritto europeo (5) ed era, dunque, espressione dei principi caratterizzanti quell’ordinamento. La Suprema Corte pretendeva, da qui e con evidente forzatura del sistema, di applicare codesto principio anche alle imposte dirette, che certamente rientrano nel comparto dei tributi non armonizzati e che, di conseguenza, non sono direttamente sferzate dal vento del diritto comunitario. Per questo motivo abbiamo duramente reagito a quella giurisprudenza, come risulta dagli scritti che, per non creare intoppi al lettore, richiamiamo in nota (6), in vista di eventuali approfondimenti.
In un secondo tempo, melius re perpensa, la stessa Corte di Cassazione ha effettuato (7) una brusca virata e ha corretto il tiro: riaffermata l’esistenza del principio del divieto di abuso del diritto, ha stabilito che esso si incardina nell’art. 53 Cost. e rappresenta, dunque, una derivazione dei principi di capacità contributiva e di progressività. Ha così trasformato una disposizione costituzionale di garanzia in una disposizione sostanziale direttamente utilizzabile ai fini della tassazione della ricchezza.
[-protetto-]
Con l’espressione «disposizione costituzionale di garanzia» intendiamo fare riferimento al fatto che l’art. 53 Cost. è norma essenzialmente rivolta al legislatore, non all’Amministrazione finanziaria e non ai giudici. È norma che non serve a tassare ma a regolare la potestà impositiva. In termini di massima semplificazione, stiamo dicendo che il legislatore può discrezionalmente scegliere gli indicatori di forza economica che più gli aggradano per far cadere su di essi l’imposta. Nel procedere in questa direzione, tuttavia, deve uniformarsi al principio della capacità contributiva, assumendo quale presupposto, parametro e limite massimo del prelievo situazioni che siano per davvero (vale a dire in concreto) espressione di attitudine alla contribuzione. Ciò stabilito, la scelta dei fatti economici da tassare deve però sottostare al principio della riserva: è necessario, insomma, un passaggio legislativo, una disposizione che assoggetti ad imposta la ricchezza di cui si sta discutendo. L’esistenza di quella disposizione – come rileveremo anche più avanti – è il primo punto di partenza per assicurare la certezza del diritto. Il contribuente, che voglia esercitare il proprio diritto di libertà economica, deve essere posto nella condizione di conoscere ab origine il proprio carico fiscale e deve avere contezza della tipologia e della declinazione del poteri accertativi spettanti all’Agenzia delle entrate. È chiaro che, in siffatto contesto, la tassazione “per principi” non dovrebbe avere diritto di cittadinanza nel nostro sistema impositivo. Ciò, in particolare, quando si tratti di un principio sulla cui origine – lo abbiamo dimostrato sopra – anche la Suprema Corte ha dimostrato incertezza e ha dato origine a sbandamenti.
3. La Corte di Cassazione ha, in più occasioni, affermato che il principio del divieto di abuso sovrasta il nostro sistema fiscale e che esso si applica anche nei casi non riconducibili all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.
Nella prospettiva della giurisprudenza, dunque, quest’ultima disposizione non sarebbe affatto riconducibile al raggruppamento delle c.d. “clausole generali”, essendo per contro dotata di una funzione meramente ricognitiva della più vasta – e, come detto, immanente – regola ordinamentale. In sostanza, la giurisprudenza ha portato a termine una vera e propria opera di demolizione dell’art. 37-bis citato (8) e, con essa, ha spazzato via anche le garanzie procedimentali che in quella disposizione erano contenute.
Nel procedere in questa direzione e nel tracciare il perimetro del principio del divieto di abuso, la giurisprudenza ha tuttavia recuperato, tra le macerie dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, gli elementi costitutivi di quest’ultima disposizione. E li ha riutilizzati o, se si vuole, “riciclati”.
Per rendersi conto di quanto testé affermato è sufficiente riflettere sulla definizione di abuso del diritto contenuta nella citata sentenza n. 30055/2008, che riportiamo di seguito per la comodità dei nostri lettori. Afferma in effetti la Suprema Corte che «il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale» (9).
Le parti in carattere tondo sono nostre e hanno la funzione di segnalare come, nella nozione sopra riprodotta, siano presenti tutti gli elementi costitutivi dell’art. 37-bis. Troviamo infatti il riferimento al “vantaggio fiscale”. È presente il richiamo al carattere “indebito” di codesto vantaggio. Va poi rammentato il ruolo di esimente assegnato alle ragioni economiche, qualificate, nel testo della sentenza, con l’aggettivo “apprezzabili”.
Segnaliamo infine il riferimento, peraltro non direttamente desumibile dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, all’“uso distorto” di strumenti giuridici, il quale costituisce – a nostro modo di vedere – un corpo estraneo alla nozione di elusione. Il nostro convincimento dispone di solide basi. La nozione di elusione e quella di abuso ruotano intorno alla connotazione “indebita” del vantaggio fiscale conseguito dal contribuente. Quelli di elusione e di abuso sono pertanto concetti incentrati sul risultato, non sul mezzo impiegato per il raggiungimento di un determinato obiettivo. Insomma: altro è il punto di arrivo dell’operazione economica, altro è il percorso seguito per il suo raggiungimento. Passano così in secondo piano gli schemi negoziali che lo stesso contribuente ha utilizzato per assicurarsi quel vantaggio. Può trattarsi di schemi negoziali diretti o indiretti, normali o abnormi, lineari o arzigogolati. Ciò che conta, tuttavia, è il risparmio fiscale, non il modo in cui lo si è generato.
4. Con riferimento al vantaggio fiscale, la sentenza in rassegna contiene un’affermazione che è pienamente condivisibile. Ci riferiamo al passaggio nel quale i giudici lombardi puntualizzano che, «nel caso di specie, non soltanto l’Ufficio non ha in alcun modo dimostrato quale avrebbe dovuto essere l’operazione “fiscalmente virtuosa” da porsi in essere in alternativa a quella concretamente effettuata, ma risulta documentato agli atti che la cessione del marchio … rispondeva … all’esigenza di razionalizzare, nazionalizzare e concentrare in un unico soggetto d’imposta totalmente italiano un marchio in precedenza diviso in due zone di utilizzo …».
Soffermiamoci sulla prima parte del passo sopra richiamato, nella quale la Commissione lombarda coglie il punto essenziale della questione che ad essa è stata sottoposta.
In effetti, affinché si possa configurare un “vantaggio” fiscale, è necessario che lo schema argomentativo dell’Agenzia delle entrate non trascuri la dimensione comparativa tra l’operazione effettuata e quella che si sarebbe potuta effettuare. Il riferimento alla “dimensione comparativa” è un modo per affermare che l’elusione tributaria (e anche l’abuso del diritto) veicola uno schema di tassazione differenziale. “Differenziale” nel senso che (riferendoci all’elusione), l’Agenzia ha il potere, mediante il provvedimento impositivo, di applicare l’imposta sull’operazione elusa mentre essa è tenuta a detassare, come vuole il secondo comma dell’art. 37-bis, l’operazione elusiva. Il fisco incamera, dunque, soltanto “la differenza” tra i tributi dovuti sulla prima operazione (quella aggirata) e la seconda (quella posta in essere dal contribuente).
Per questo motivo la Commissione lombarda punta il dito sulla mancata dimostrazione, da parte dell’Ufficio impositore, dell’operazione “fiscalmente virtuosa”, vale a dire l’operazione che non è stata realizzata dal contribuente, ma che, nella prospettiva del fisco, egli (contribuente) avrebbe dovuto perfezionare.
In tale ottica (e per quanto ci è possibile desumere dal testo della sentenza), la posizione processuale dell’Agenzia delle entrate appare delicata, per non dire imbarazzante. Sembra infatti che l’avviso di accertamento sia stato costruito su di una fattispecie di pura evasione fiscale, perché si discuteva della corretta deduzione di quote di ammortamento (ex art. 103, primo comma, del TUIR) a fronte di un marchio acquistato nel contesto di un’operazione asseritamente antieconomica. In sintesi, secondo l’Agenzia delle entrate il contribuente avrebbe “pagato troppo” e, per questo, innestato nel proprio bilancio e nella propria dichiarazione costi abnormi.
Ma quale sarebbe dovuta essere l’operazione alternativa all’acquisto di un marchio? Forse non acquistare quel bene, in modo tale da non portare in deduzione le quote di ammortamento? Oppure acquistarlo ad un prezzo inferiore, così da stanziare soltanto quote di ammortamento in linea rispetto al valore del marchio siccome promanante dalle indicazioni del mercato? Ed ancora: perché scomodare, su queste basi, l’abuso del diritto? Non bastava far leva sul principio di inerenza per sostenere l’indeducibilità della parte del costo non rispondente al valore corrente del bene?
È questo, a nostro avviso, il punto di snodo della sentenza in rassegna. L’operazione “virtuosa”, quell’operazione che il contribuente avrebbe dovuto realizzare ma non ha realizzato, non può essere un’operazione qualsiasi. Deve trattarsi di un’operazione o di una sequenza di operazioni possibile, vale a dire un’operazione che può stare “nelle corde” di quell’imprenditore. Non deve trattarsi di un’operazione puramente teorica, bensì fattibile o, se si vuole, realizzabile. Inoltre – e su codesto aspetto vorremmo porre la nostra sottolineatura – l’operazione “aggirata” o “virtuosa” deve permettere al contribuente di conseguire un risultato analogo, sul piano economico-giuridico, a quello in concreto raggiunto attraverso l’operazione elusiva o abusiva. L’individuazione di un risultato analogo rappresenta la condizione a partire dalla quale – lo si capisce – la comparazione può essere effettuata. Si ripropone, dunque, il quesito iniziale: qual era l’operazione alternativa all’acquisto del marchio?
L’Agenzia delle entrate non ha offerto la ben che minima risposta al quesito e ha ritenuto, pur in presenza di una fattispecie riconducibile alla semplice evasione, di abbracciare quell’ambiguo indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’abuso del diritto rappresenta una sorta di entità mitologica capace di fagocitare non soltanto le fattispecie elusive che, per qualche ragione, non ricadano nello spettro applicativo dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, ma anche di ingurgitare fattispecie che con l’abuso non hanno nulla a che vedere (10).
Ci riferiamo, senza pretesa di esaustività, a quelle sentenze che, dopo il pronunciamento delle Sezioni Unite di fine 2008, hanno dato il via ad un fenomeno di vera e propria “tracimazione” del concetto di abuso, suscettibile di estendersi anche a situazioni inequivocabilmente riconducibili all’evasione fiscale (11).
Tali sentenze hanno a nostro avviso posto le basi per la genesi di un’imperiale confusione tra evasione, elusione e abuso. In breve esse hanno gettato le fondamenta di una vera e propria “Babele giuridica”. E codesto stato confusionale, dopo aver assunto consistenza, è dipoi dilagato sul versante sanzionatorio. In quest’ultimo comparto, infatti, è tuttora indefinita la distinzione tra “dolo di evasione” e “dolo di elusione”, mentre appare oltremodo difficile spiegare, in vista dell’irrogazione della sanzione amministrativa, che la maggiore imposta dovuta a fronte di ricchezza (vera) nascosta al fisco è diversa dalla maggiore imposta dovuta su ricchezza che si riferisce, come nel caso dell’elusione o dell’abuso, ad operazioni che il contribuente non ha mai posto in essere (ma che avrebbe dovuto porre in essere nella prospettiva accusatoria del fisco).
Non vogliamo tediare il cortese lettore soffermandoci in modo eccessivo su questi aspetti, per i quali rimandiamo agli scritti indicati in nota (12). Desideriamo tuttavia sottolineare che, quando l’Amministrazione finanziaria sceglie il proprio percorso di accertamento, essa è tenuta a sostenerlo attraverso l’atto d’imposizione. Stiamo dicendo che a quel percorso l’Agenzia delle entrate deve adeguare sia il contenuto della motivazione, sia la declinazione delle prove. Su questo punto, la sentenza della commissione lombarda è ineccepibile.
5. Del pari condivisibili sono le osservazioni contenute nella sentenza in rassegna a proposito della necessità di individuare una netta linea di separazione tra la libertà di scelta delle forme giuridiche e la pianificazione fiscale aggressiva.
La posizione assunta dai giudici lombardi è chiara. Esiste invero una differenza tra la pianificazione che è espressione della libertà di iniziativa economica e la pianificazione che, per le modalità di attuazione e per la tipologia dei risultati conseguiti, può definirsi “aggressiva”. Per conseguenza, il principio del divieto di abuso non può essere utilizzato – rimanendo ancora sul testo della pronuncia in commento – per «affermare l’illiceità di qualsiasi risparmio d’imposta». Possono prefigurarsi risparmi “in armonia” con il sistema e, pertanto, non sindacabili da parte del fisco. Possono inoltre esistere risparmi distonici rispetto al citato sistema, sui quali l’Amministrazione finanziaria può innestare l’effetto di inopponibilità.
Orbene, la linea di demarcazione tra la pianificazione accettata dal sistema e la pianificazione che il sistema ripudia non può che essere rinvenuta nella connotazione indebita del risparmio conseguito. Ribadiamo il concetto: ci sono risparmi che sono metabolizzati dall’ordinamento giuridico, se non addirittura incentivati dal medesimo ordinamento (13). Altri risparmi, per contro, sono disapprovatati, perché contrastano con i principi dominanti il settore impositivo di riferimento (14).
Ma qual è il risparmio ascrivibile ad una società che, come nel caso in esame, abbia calcolato le quote di ammortamento sul costo effettivamente sostenuto per l’acquisto del marchio? Fino a quando il fisco non dimostri che l’acquisto è fasullo o che il prezzo abnorme nasconde una liberalità, non sembra esserci spazio per alcuna contestazione di carattere tributario. Infatti, la società ha dedotto, in sede di determinazione del reddito d’impresa, soltanto ciò che ha speso. Certamente: essa (società) ha beneficiato di costi e ha così potuto ridurre il proprio carico impositivo sul versante dell’IRES. Ma codesta riduzione non è il risultato di un’alchimia negoziale, bensì la conseguenza dell’esborso di denaro sopportato per l’acquisto del bene.
Concludiamo il nostro ragionamento con un’ulteriore sintetica osservazione.
L’altra faccia della libertà di iniziativa economica è rappresentata dalla certezza del diritto. L’imprenditore che organizzi la propria attività desidera sapere sin dall’inizio se le operazioni che egli sta per concludere siano suscettibili di sindacato dal punto di vista elusivo o abusivo. Vuole conoscere, in altre parole, quali rischi potrà correre dal momento che abbraccerà un dato percorso operativo.
In questa prospettiva, e in un ordinamento tributario che è ancora fondamentalmente costruito sull’idea della “regola scritta” (vale a dire sulla riserva di legge ex art. 23 Cost.), la tassazione attraverso principi rischia di rappresentare un salto nel vuoto quando il principio sia utilizzato per ottenere effetti di inopponibilità dei contratti. L’inopponibilità, come tutti sanno, è la diretta conseguenza della qualificazione di una determinata operazione quale operazione elusiva o abusiva.
Sia chiaro il nostro punto di vista.
I principi fondamentali dell’ordinamento tributario, tra l’altro richiamati nell’art. 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), svolgono un ruolo fondamentale nel sistema impositivo, per ragioni sulle quali non possiamo soffermarci in modo approfondito adesso. Si pensi, per esempio, al rapporto intercorrente tra i citati principi e l’esercizio della potestà impositiva (la creazione delle leggi d’imposta) oppure a quello intercorrente tra principi e interpretazione del diritto. Ma il principio del divieto di abuso presenta una declinazione affatto particolare: attraverso l’inopponibilità, esso pone nel nulla contratti voluti tra le parti, vanificandone gli effetti e minando dunque alle sue fondamenta l’idea dell’autonomia negoziale.
In questa prospettiva (che è una prospettiva di netta interferenza rispetto alle scelte privatistiche degli imprenditori) l’effetto d’inopponibilità non può essere il frutto di una maldestra interpretazione dell’art. 53 Cost. e deve, per contro, trovare un chiaro appiglio in un articolo di legge. Sappiamo che, spesso, la legge può essere foriera di incertezze. Sappiamo anche, però, che la regola scritta è il primo punto di partenza per conferire un minimo di serietà alle pianificazioni imprenditoriali.
I “fulmini a ciel sereno” e, in genere, le sorprese giurisprudenziali non vanno certamente nella direzione da noi auspicata. Tassare sulla base di principi “immanenti” significa, invero, iniettare nel tessuto economico i virus dell’incertezza e del dubbio, con effetti che, nel medio periodo, non mancheranno di farsi sentire sul piano macroeconomico (15).
Prof. avv. Mauro Beghin
Università di Padova
(1) La legge 11 marzo 2014, n. 23, contiene la delega al Governo per la revisione del sistema fiscale. L’art. 5 di quest’ultima legge è così rubricato: «Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale». Esso prevede la revisione delle vigenti disposizioni antielusive «al fine di unificarle al principio generale del divieto di abuso del diritto». Il citato art. 5, dunque, a) riconosce l’esistenza del principio di divieto di abuso; b) riconosce che si tratta di un principio non scritto.
(2) Per l’abuso del diritto quale principio del diritto comunitario cfr., senza pretesa di esaustività, M. Basilavecchia, Norma antielusione e “relatività” delle operazioni imponibili IVA, in Corr. trib., 2006, 1466 ss.; P. Pistone, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia Europea in tema di IVA, in Riv. dir. trib., 2007, IV, 17 ss.; A. Lovisolo, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, ivi, 2009, I, 49 ss.; M. Poggioli, La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, ivi, 2006, III, 122 ss.; e L. Salvini, L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. trib., 2006, 3097 ss.
(3) Per un esame di questi aspetti, ci sia consentito di rinviare a M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013, passim.
(4) Cfr. Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Boll. Trib., 2009, 484.
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 4 aprile 2008, n. 8772, in Boll. Trib., 2008, 1027, e anche in Riv. dir. trib., 2008, II, 465 ss., con nota di M. Beghin, Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione in campo domestico, nel comparto delle imposte sul reddito, del principio comunitario del divieto di abuso del diritto.
(6) Vedi alla nota precedente.
(7) Cfr. Cass. n. 30055/2008, cit.
(8) Tale opera di demolizione tocca il punto più alto con Cass., sez. trib., 5 novembre 2013, ord. n. 24739, in Boll. Trib., 2013, 1684, con nota di V. Azzoni, Brevi riflessioni immediate intorno a uno spiazzante “revirement” concettuale della Suprema Corte, con la quale la Corte di Cassazione ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale del quarto comma dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, nella parte in cui sanziona con la nullità l’avviso di accertamento emesso sulla base della citata norma antielusiva qualora l’atto non sia preceduto dalla richiesta di chiarimenti nelle forme e nei tempi ivi previsti.
(9) Così Cass. n. 30055/2008, cit., che afferma al riguardo che «nel merito, ritengono le Sezioni Unite di questa Corte di dover aderire all’indirizzo di recente affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria (si veda, da ultimo, Cass. 10257/08, 25374/08), fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo; con la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano. Ed in effetti, i principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi».
(10) Sul punto, per tutti, G. Falsitta, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell`onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, II, 349 ss.
(11) Si veda, al riguardo, Cass., sez. trib., 13 maggio 2009, n. 10981, in Boll. Trib., 2009, 1066, la quale, nell’affrontare la questione riguardante la deducibilità di quote d’ammortamento, risolve il caso facendo leva sul principio del divieto di abuso. Vedi anche Cass., sez. trib., 30 novembre 2009, n. 25127, in Boll. Trib., 2010, 570, con note di D. Conte, Imposta comunale sugli immobili, pertinenze e abuso del diritto, e di V. Ficari, Il pandemico principio dell’abuso del diritto raggiunge anche l’ICI!, la quale, con riferimento ad una fattispecie di evasione dell’ICI (il contribuente sosteneva la non tassabilità di un terreno in quanto pertinenza del fabbricato), ha parimenti fatto leva sull’abuso del diritto. Si legga altresì Cass., sez. trib., 26 febbraio 2010, n. 4737, in Boll. Trib., 2010, 990, che tratta quale fattispecie di abuso un caso di interposizione fittizia nel comparto dell’imposta sul reddito. Sulle sentenze citate, vedi ancora G. Falsitta, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione, cit.
(12) Cfr. M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit.
(13) Si rifletta sulle disposizioni che, allo scopo di realizzare effetti immediati dal punto di vista del gettito, permettono di affrancare i valori fiscali di taluni beni (immobili, partecipazioni), mediante pagamento di un’imposta sostitutiva inferiore all’aliquota dell’imposta ordinaria.
(14) Si pensi, per esempio, al principio secondo il quale le perdite fiscali si utilizzano di regola nel comparto delle imposte sul reddito, in capo al soggetto che le ha realizzate; oppure al principio secondo il quale i beni dovrebbero circolare sul mercato senza consentire salti o duplicazioni d’imposta.
(15) Rimane sullo sfondo il problema della reazione nei casi in cui la fattispecie elusiva non sia riconducibile alla elencazione di cui all’art. 37-bis, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973. Coloro i quali manifestano maggiore sensibilità per il principio di uguaglianza saranno portati a dire che in questi casi al divieto di abuso è assegnato il compito di riportare la giustizia sul terreno dell’imposizione. Coloro i quali, per contro, manifestano maggiore attaccamento al principio della riserva di legge saranno portati a dire che l’integrazione analogica deve essere presa con le pinze e che i casi “non normati” non sono riconducibili all’elusione. La legge delega recentemente approvata (vedi alla nota 1) va in questa precisa direzione. Essa punta ad una revisione delle disposizioni esistenti in vista dell’unificazione con il concetto di abuso. L’idea sottostante, dunque, è nel senso di assicurare quella copertura normativa che fino ad oggi, per quanto abbiamo riferito, è mancata al principio del divieto di abuso.
Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Abuso del diritto – Costituisce un principio da usare con cautela per reprimere comportamenti capziosi, dilatori o tesi ad eludere una giusta pretesa tributaria – Generico risparmio di imposta – Non costituisce necessariamente un comportamento abusivo.
Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Abuso del diritto – Scelta dell’operazione fiscalmente meno onerosa da parte del contribuente – Legittimità – Prova dell’elusività dell’operazione posta in essere – Incombe sull’Amministrazione finanziaria – Omessa prova – Invalidità dell’accertamento – Consegue.
In materia tributaria l’applicazione dei principi in tema di abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forma giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività di impresa, e tale cautela deve essere massima quando non si tratti di operazioni finanziarie ma di ristrutturazioni societarie, specialmente quando le stesse avvengano nell’ambito di grandi gruppi di imprese, di talché il principio dell’abuso di diritto va applicato ai comportamenti del contribuente capziosi, dilatori o tesi ad eludere una giusta pretesa tributaria, ma non può certo essere utilizzato al fine di affermare l’illiceità di qualsiasi risparmio di imposta.
Nell’impostare la propria attività economica il contribuente non è obbligato a scegliere la forma negoziale più onerosa dal punto di vista fiscale e la figura dell’abuso del diritto viene in considerazione soltanto quando la forma adottata abbia l’unico scopo di eludere la normativa fiscale di riferimento, circostanza la cui prova è posta a carico dell’Ufficio finanziario, e non già allorquando un’operazione risulti più vantaggiosa fiscalmente rispetto ad altre operazioni affini.
[Commissione trib. regionale della Lombardia, sez. XXVIII (Pres. Malaspina, rel. Ingino), 21 novembre 2013, sent. n. 149, ric. Agenzia delle entrate]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con tempestivo ricorso la società … S.p.A. proponeva impugnazione avverso l’avviso di accertamento n. … – con cui l’…, a seguito di processo verbale di constatazione del 27/10/08 a carico della società … s.r.l., società incorporata, relativamente agli anni di imposta 2003 e 2004, riprendeva a tassazione ai fini Irap per l’anno 2006 l’importo di Euro 10.117.687,00 (quale parte della quota di ammortamento relativa al costo del marchio “…” trasferito congiuntamente alla società … s.r.l. dalla stessa … S.p.A. e dalla società lussemburghese … s.a. anteriormente alla fusione, quota dedotta dalla ricorrente senza tenere conto dell’abbattimento del valore iniziale all’anno 2003 da Euro 245.000.000 ad Euro 62.881.630, in violazione dell’art. 103, comma 1 TUIR), contestando altresì la violazione dell’art. 32, comma 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997 n. 446, con conseguente irrogazione delle relative sanzioni – e adiva la Commissione Tributaria Provinciale di Milano per ivi sentirne pronunciare l’annullamento.
Sosteneva altresì l’Ufficio l’indeducibilità degli ammortamenti in considerazione della antieconomicità dell’intera operazione di cessione, integrante una ipotesi di abuso del diritto, posto che la ripartizione del prezzo di cessione del marchio (per totali Euro 245.000.000) da … S.p.A. e … S.p.A. ad … s.r.l. non riproduce la ripartizione dei volumi dei ricavi di vendita derivanti dallo sfruttamento del marchio per area geografica di interesse, individuato in un rapporto di 49% a 51% tra Italia/Nord America e Resto del Mondo, posto che l’acquisto del marchio per la zone Italia e Nord America, ceduto dalla … S.p.A. è stato valorizzato per Euro 90.000.000 e l’acquisto del marchio da sfruttare per il resto del mondo è stato ceduto dalla … per Euro 155.000.000.
Deduceva la ricorrente in via preliminare la nullità dell’atto impugnato per violazione dell’art. 12, comma 7, L. n. 212 del 2000 essendo state del tutto ignorate le osservazioni formulate dal contribuente sul contenuto del processo verbale di constatazione nel rispetto del termine di sessanta giorni dalla redazione del verbale di chiusura delle operazioni, nonché, nel merito, in principalità, l’illegittimità dell’avviso di accertamento per incongruità della motivazione, omessa considerazione delle risultanze istruttorie e sussistenza di gravi errori metodologici e di calcolo e, in subordine, l’illegittimità della indeducibilità della parte di ammortamenti riferibili al marchio acquistato dalla società italiana dal momento che la ripresa a tassazione avrebbe potuto porsi soltanto limitatamente al trasferimento proveniente dalla partecipata estera, ai sensi dell’art. 110, comma 7, del TUIR. La ricorrente lamentava altresì l’autonoma illegittimità delle sanzioni, in quanto irrogate senza specifica motivazione in contrasto con gli artt. 16 e 17 del D.Lgs. n. 472 del 1997 e senza dimostrazione della sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito previsto dall’art. 5 D.Lgs. n. 472 del 1997, ovvero, in subordine, la non punibilità della condotta ai sensi dell’art. 6 D.Lgs. n. 472 del 1997 e dell’art. 8 D.Lgs. n. 542 del 1992, ovvero, in ulteriore subordine l’inapplicabilità delle sanzioni ai sensi dell’art 1, comma 2-ter D.Lgs. n. 471 del 1997 per avere consegnato ai verificatori tutta la documentazione diretta a consentire il riscontro della conformità del valore dichiarato al valore normale dei prezzi di trasferimento.
Con sentenza n. 241/8/12, depositata in data 3/9/12, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano accoglieva il ricorso, condannando l’Ufficio al pagamento delle spese di lite.
Avverso tale sentenza proponeva tempestivo appello l’Ufficio, deducendo distinti motivi di impugnazione: a) illegittimità della pronuncia nella parte in cui ha respinto l’istanza di sospensione del processo per pregiudizialità rispetto ai giudizi per cassazione pendenti avverso le sentenze n. 27/24/11 della Commissione Tributaria Regionale di Venezia Mestre e n. 82/33/12 della Commissione Tributaria Regionale di Milano sulla legittima determinazione del valore iniziale del marchio trasferito alla … s.r.l.; b) contraddittorietà della motivazione nella parte in cui considera congruo il valore di cessione del marchio “…” alla … s.r.l. in relazione al prezzo di acquisto del gruppo societario …, facente capo alla società …, da parte della … S.p.A. nell’anno 2002, nonché al successivo collocamento in borsa della S.p.A. …; c) erroneità delle perizie di stima sul valore del marchio acriticamente prese in considerazione dalla Commissione Tributaria Provinciale; d) mancata considerazione della natura elusiva della sopravvalutazione del marchio, in assenza di obiettive giustificazioni dell’operazione di cessione.
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L’appellante concludeva quindi, in via pregiudiziale, per la sospensione del processo in attesa della pronuncia della Suprema Corte sui ricorsi avverso le predette sentenze delle Commissioni Regionali e, nel merito per la riforma della sentenza appellata e la conferma dell’avviso di accertamento impugnato.
Si costituiva in giudizio il contribuente, depositando le proprie controdeduzioni in data 2/5/2013, chiedendo il rigetto del proposto gravame e la conferma della sentenza di primo grado.
All’udienza pubblica del 25/10/13 l’appello veniva deciso come da dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE – L’appello non è fondato.
Va preliminarmente disattesa l’eccezione, riproposta dall’Ufficio anche in questo grado di giudizio, di sospensione del processo per pregiudizialità rispetto a quello pendente davanti alla Suprema Corte di Cassazione ed avente per oggetto l’impugnazione delle sentenze n. 27/24/11 della Commissione Tributaria Regionale di Venezia e n. 82/33/12 della Commissione Tributaria Regionale di Milano. Invero, anche senza volere considerare il fatto che la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Venezia (che aveva deciso l’avviso di accertamento relativo alla medesima questione in capo alla società … per l’annualità 2003) ha accolto l’appello del contribuente in ragione del mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni previsto a pena di nullità per l’emissione dell’avviso di accertamento dall’art. 12, comma 7, L. n. 212 del 2000 – sicché nessuna rilevanza può esplicare l’esito del giudizio di legittimità sulla presente causa – va rilevato che neppure la controversia decisa con sentenza della Commissione Regionale di Milano, relativa all’anno 2005, può ritenersi pregiudiziale rispetto a quella oggi oggetto di giudizio, posto che la decisione sul ricorso presentato dal contribuente può essere assunta indipendentemente dalle sorti dell’atto impositivo riguardante altra annualità, sussistendo agli atti tutti gli elementi per una corretta valutazione del marchio acquisito dalla società appellata.
Passando al merito del gravame, questa Commissione ritiene che non vi siano motivate ragioni per discostarsi dalla misura del prezzo iniziale dichiarata dal contribuente e già correttamente avallata dai giudici di primo grado. Invero, la congruità del prezzo originariamente pagato da … per l’acquisto del marchio …, in data 29/7/03, risulta confermata da numerosi elementi forniti dalla parte oggi appellata, e, in particolare, dalle diverse operazioni aventi ad oggetto il gruppo …, precedentemente intercorse tra soggetti terzi, che costituiscono l’ineludibile parametro di riferimento per l’individuazione del “prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione”, secondo quanto disposto dall’art. 9, comma 3, TUIR.
In particolare, il valore normale del marchio conferito può essere desunto da due specifiche operazioni: a) il prezzo di acquisto del gruppo societario …, ceduto nell’anno 2002 dalla società quotata … S.p.A. al gruppo quotato … S.p.A., con l’attribuzione di un valore al marchio pari ad Euro 240.000.000 (cfr. doc. 5 fascicolo di primo grado di parte ricorrente) e b) il collocamento in borsa della … S.p.A. – a seguito della scissione della … S.p.A. nell’anno 2005 – il cui bilancio consolidato continuava a riportare per il marchio il valore di Euro 220.000.000 (al netto degli ammortamenti intercorsi), pari al costo di acquisizione originario.
A fronte di tali elementi, dai quali risulta una valorizzazione del marchio prossima ai Euro 245.000.000 dichiarati, l’Ufficio non ha saputo giustificare il minore valore accertato, se non attribuendo al marchio una durata di sfruttamento limitata (5 anni), correlata al tempo per il quale il medesimo viene normalmente concesso in licenza a terzi. Sennonché, in disparte il rilievo che la concessione di un diritto di utilizzazione temporalmente limitato risponde ad una logica imprenditoriale di favore per il licenziante e non per il licenziatario, sì che non può costituire un dato rilevante ai fini della determinazione del valore intrinseco del bene oggetto di licenza, il contribuente ha sufficientemente dimostrato l’errore metodologico nel quale è intercorso l’Ufficio, che non ha tenuto conto del fatto che nello specifico settore di appartenenza (quello della moda) i marchi sono caratterizzati dalla possibilità di utilizzazione lungo un arco di tempo indefinito, che spesso va addirittura oltre la morte del fondatore. Per quanto attiene, poi, alla sussistenza di un presunto abuso del diritto – contestazione, questa, che non risulta nell’avviso di accertamento impugnato – il richiamo operato dall’Ufficio a tale categoria generale (elaborata dalla giurisprudenza dapprima in sede civilistica, e nell’ultimo decennio anche in sede tributaria) non appare pertinente nella fattispecie in esame.
È noto, infatti che l’applicazione dei principi in tema di abuso del diritto, come riconosciuto dalla Suprema Corte, “deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forma giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività di impresa. La cautela, poi, deve essere massima quando non si tratti di operazioni finanziarie, ma di ristrutturazioni societarie, soprattutto quando le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi di imprese” (Cass. 1372/11(1)). Il principio dell’abuso di diritto viene così applicato ai comportamenti del contribuente capziosi, dilatori, tesi ad eludere una giusta pretesa tributaria (Cass. 17576/02; Cass. 30005/08(3)), ma non può certo essere utilizzato al fine di affermare l’illiceità di qualsiasi risparmio di imposta.
Accade infatti di frequente che un medesimo risultato possa essere raggiunto attraverso strumenti giuridici diversi, tutti egualmente leciti, senza che sussista un generale dovere del contribuente di scegliere necessariamente la forma più onerosa dal punto di vista fiscale. La figura dell’abuso del diritto viene in considerazione soltanto quando la forma adottata abbia l’unico scopo di eludere la normativa fiscale di riferimento (prova questa che è posta a carico dell’Ufficio) e non tutte le volte che una operazione sia risultata più vantaggiosa fiscalmente rispetto ad altre operazioni affini (cfr. Comm. Trib. Provinciale di Milano, sezione 2, sent. n. 88 depositata il 14/3/12(4)).
Ora, nel caso di specie, non soltanto l’Ufficio non ha in alcun modo dimostrato quale avrebbe dovuto essere l’operazione “fiscalmente virtuosa” da porsi in essere in alternativa a quella concretamente effettuata, ma risulta documentato agli atti che la cessione del marchio, da parte della … e della … s.a. ad … prima, e la successiva ulteriore cessione da quest’ultima a …, poi, rispondeva soprattutto all’esigenza di razionalizzare, nazionalizzare e concentrare in un unico soggetto di imposta totalmente italiano un marchio in precedenza diviso in due zone di utilizzo (Italia e Nord America – Resto del mondo). Poiché, dunque, appare sufficientemente provata da parte della contribuente la sussistenza di valide ragioni economiche a sostegno della operazione, l’avviso di accertamento va annullato. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate, a carico dell’appellante, in complessivi Euro 17.000,00.
P.Q.M. – La Commissione rigetta l’appello e conferma la sentenza impugnata, condannando l’appellante alla rifusione delle spese di lite, liquidate in Euro 17.000,00.
(1) Cass. 21 gennaio 2011, n. 1372, in Boll. Trib., 2011, 301.
(2) Cass. 10 dicembre 2002, n. 17576, in Boll. Trib., 2003, 778.
(3) Cass. 23 dicembre 2008, n. 30055, in Boll. Trib., 2009, 484.
(4) In Boll. Trib. On-line.