1. Le decisioni che si annotano offrono diversi spunti di riflessione. Per quanto consta esse sono le due prime pronunce della Suprema Corte dopo l’entrata in vigore dell’art. 5 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (1).
Come è noto l’art. 5, terzo comma, del decreto citato, ha stabilito che gli artt. 58, 68, 85 e 86 del TUIR e gli artt. 5, 5-bis, 6 e 7 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 446, sull’IRAP, «si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione o il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro … ovvero delle imposte ipotecaria e catastale».
La norma «non interviene sulle disposizioni procedurali in materia di accertamento, ma agisce direttamente in via interpretativa sulle norme sostanziali del TUIR» (2). La novella, proprio perché di interpretazione autentica, sconfessa le decine di sentenze della Suprema Corte che ritenevano invece sufficiente a sorreggere la rettifica del corrispettivo, dichiarato in atti e contabilizzato (se il venditore operava nell’esercizio di attività d’impresa), la semplice definizione di un maggior valore ai fini dell’imposta di registro. La norma fa tornare in auge chi aveva affermato che «nella motivazione dell’accertamento ai fini delle imposte dirette non è sufficiente la sola indicazione dell’importo definito ai fini dell’imposta di registro, senza ulteriori elementi di prova in relazione al maggior prezzo che l’Amministrazione finanziaria assume come conseguito» (3).
La Suprema Corte, invece, perseguendo il favor fisci, aveva introdotto nel nostro ordinamento giuridico una presunzione legale relativa, opinabile se non altro perché non prevista dalla legge. In estrema sintesi aveva conferito de facto i crismi della legittimità alla condotta dell’Ufficio finanziario che, sulla base della definizione del valore dell’immobile o dell’azienda ai fini dell’imposta di registro, assumeva automaticamente tale valore quale (maggiore) corrispettivo per la determinazione della plusvalenza soggetta alle imposte dirette.
Il legislatore è intervenuto drasticamente espungendo dal nostro ordinamento giuridico il binomio maggior valore uguale maggior corrispettivo, che spesso non trova sostegno nella realtà (4).
È intervenuto con un’accetta usata troppo cruentemente per cui non escludo che il suddetto binomio non possa essere utilizzato in determinate circostanze che fondatamente facciano presumere, salvo prova contraria, l’occultamento di parte del corrispettivo.
Si pensi alla definizione di un maggior valore di un bene di largo mercato (un immobile di medio-piccole dimensioni in zona non periferica e non disastrata di una grande città; un esercizio commerciale avviato di vendita al pubblico, anch’esso situato nella medesima zona sopra citata), intervenuta con la partecipazione del venditore nel procedimento amministrativo o giudiziale, allorché tra valore definito e prezzo della compravendita la discrepanza sia rilevante. In questo caso dovrebbe essere lecito presumere, salvo prova contraria, che il corrispettivo realmente convenuto fra le parti sia il valore definito o ad esso si approssimi.
In ogni modo la definizione di un maggior valore opponibile all’acquirente è pur sempre un elemento indiziario di peso rilevante, ancorché da solo non sufficiente, per cui è sufficiente che l’Agenzia delle entrate deduca correttamente un quid pluris per legittimare un accertamento di plusvalenza realizzata.
Merita sul punto rimarcare che alla scissione del binomio maggior valore = maggior corrispettivo è stato riconosciuto effetto retroattivo in quanto la citata novella del 2015 deve classificarsi quale norma di interpretazione autentica ai sensi dell’art. 1, secondo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 2012 (Statuto dei diritti del contribuente), come esplicitamente affermato dalle due annotate pronunce della Corte di Cassazione, nella prima delle quali si ribaltano persino le conclusioni stese dal relatore prima dell’emanazione delle legge innovativa.
2. Come si è accennato, dalla lettura delle due decisioni si possono trarre ulteriori spunti di riflessione.
Nell’arresto n. 6135/2016 si legge che la Commissione regionale del Lazio, nel vigore della «presunzione di corrispondenza del prezzo incassato a quello coincidente con il valore di mercato accertato» e quindi ante novella del settembre 2015, aveva implicitamente ritenuto «inidonea a superare detta presunzione la documentazione versata in atti dalla contribuente circa l’entità del prezzo effettivamente incassato». La stessa contribuente aveva impugnato la sentenza per omessa motivazione in relazione all’art. 360, n. 5), c.p.c., non contenendo alcuna espressa valutazione sulla prova offerta circa il prezzo effettivamente riscosso.
Rebus sic stantibus, il gravame doveva essere accolto in quanto il nuovo art. 360, n. 5), c.p.c., che riformula radicalmente il vizio di omessa motivazione, censura la sentenza che abbia omesso di esaminare un motivo di doglianza decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti. L’accoglimento della doglianza avrebbe comportato il rinvio al giudice di merito affinché si pronunciasse sulla validità o no della prova offerta dalla contribuente, salvo rilevare l’inammissibilità del motivo del ricorso per cassazione ex art. 360, n. 5), c.p.c., ai sensi dell’art. 348, ultimo comma, c.p.c. (a causa della c.d. doppia conforme).
S’impone tuttavia a monte una diversa osservazione. Se, come appare dalla descrizione del fatto contenuto nella sentenza della Suprema Corte, l’Agenzia delle entrate aveva emesso avviso di accertamento rettificando la dichiarazione presentata sulla base di un solo rilievo – ovvero quello della diversità del prezzo per il calcolo della plusvalenza rispetto al valore dichiarato o definito ai fini dell’imposta sui trasferimenti, quindi senz’altro addurre – il ricorso doveva essere accolto senza rinvio, riconoscendo la sua illegittimità. Si tenga presente, a riprova dell’assunto, che al giudice del rinvio, constatata l’unicità e l’illegittimità del motivo dell’accertamento e quindi essendo ben delineata la materia del contendere e in nessun modo ampliabile (art. 7, primo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), ed essendo precluso all’Amministrazione finanziaria integrare l’avviso di accertamento (salva l’eccezionale applicazione dell’art. 43, ultimo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), altro non resterebbe che annullare l’avviso stesso (5).
Infatti, pur nell’osservanza della natura del processo tributario annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, caratterizzati dall’obbligo del giudice di compiere una “motivata valutazione sostitutiva” dell’atto amministrativo annullato, nel caso in cui l’accertamento, attraverso la motivazione, fondi la pretesa erariale su un fatto che non possa costituire unico perno di una presunzione relativa abrogata ab origine e non fornisca altro elemento di prova a sostegno della propria domanda, delimita la materia del contendere e quindi lo spettro cognitivo del giudice. Questi, preso atto dei fatti dedotti dalle parti, delle eccezioni del contribuente e della presa di posizione che su di esse ha o avrebbe dovuto assumere l’Agenzia delle entrate ai sensi dell’art. 23, terzo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, deve emettere una decisione in base allo stato degli atti, siccome privo del potere di riaprire l’istruttoria e rimettere in termine l’Agenzia medesima (6).
3. Sia consentito allo scrivente commentatore di non comprendere, forse a causa dell’insufficienza di bagaglio cognitivo, come possa censurarsi ai sensi dell’art. 360, n. 4), c.p.c. (error in procedendo), l’omessa deduzione dall’ipotetica plusvalenza di costi inerenti il bene compravenduto quale l’imposta di successione. Quanto meno riguardo a quest’ultima, atteso che la posta è chiaramente delineata, si profila una violazione di legge (art. 68, primo e secondo comma, del TUIR, che riconosce in deduzione dalla differenza tassabile «ogni altro costo inerente al bene» ceduto), deducibile quindi ex art. 360, n. 3), c.p.c.; la ripresa di tale deduzione, tuttavia, rimane assorbita dall’illegittimità della rettifica, basata solo sul maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro, per cui non dovrebbe influenzare la pronuncia dell’investito giudice di rinvio.
4. La seconda massima evidenziata si pone su un solco oramai consolidato dalla Suprema Corte, di talché non merita speciali annotazioni.
Infine, l’ultima statuizione della medesima sentenza n. 6135/2016 (settimo motivo di ricorso della ricorrente) impone a chi predilige un processo che sia veramente giusto che del principio della pronuncia implicita di rigetto, su una domanda o eccezione di parte, se ne faccia uso parsimonioso e oculato.
Dott. Giuseppe Verna
(1) Ved. al riguardo G. VERNA, Cade la presunzione che il maggior valore di un bene immobile accertato o definito ai fini delle imposte indirette provi l’occultamento di un maggior corrispettivo della relativa cessione ai fini delle imposte dirette, in Boll. Trib., 2016, 483 ss.
(2) Cfr. A. TRABUCCHI – L. TRINCHERA, Stop ai riflessi automatici sulle imposte dirette degli accertamenti di valore ai fini del registro, in Corr. trib., 2015, 1838.
(3) Associazione Dottori Commercialisti di Milano, Norma di comportamento n. 171, Rilevanza ai fini delle imposte dirette del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro in caso di cessione d’azienda, in Boll. Trib., 2008, 1501.
(4) Come ho dimostrato nell’articolo citato alla nota 1, al par. 3
(5) Come deciso da Comm. trib. prov. di Caserta, sez. II, 28 settembre 2015, n. 6578, in Not., 2016, 66, secondo cui la chiarezza lessicale e logica del ricorso ne impone l’accoglimento.
(6) Rinvio per un caso analogo a G. VERNA, Un accertamento immotivato e in subordine non provato va rinviato a nuovo esame o annullato?, in nota a Cass., sez. VI, 15 aprile 2013, ord. n. 9032, in Boll. Trib., 2013, 1424.
Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Plusvalenze patrimoniali – Cessione di terreno edificabile – Presunzione di corrispondenza del prezzo di trasferimento del bene col suo valore di mercato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro – Illegittimità – Art. 5 del D.Lgs. n. 147/2015 – Applicabilità retroattiva – Sussiste.
IRPEF – Redditi diversi – Plusvalenze sulle cessioni di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria – Definizione del concetto di area fabbricabile – Art. 36 del D.L. n. 223/2006.
In tema di accertamento delle imposte sui redditi ed ai fini della determinazione in via induttiva del reddito da plusvalenza patrimoniale derivante dalla cessione di un terreno edificabile, la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato al valore di mercato accertato in via definitiva ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro non può essere più legittimata, solo sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, alla stregua dello ius superveniens di cui all’art. 5, terzo comma, del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, che ponendosi espressamente quale norma d’interpretazione autentica, ai sensi dell’art. 1, secondo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212, è applicabile retroattivamente, con conseguente piena operatività dell’art. 68 del TUIR, che prevede al primo comma, in relazione al precedente art. 67, che le plusvalenze realizzate mediante cessione di terreni sono costituite dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo d’imposta e il prezzo di acquisto del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
Ai fini delle imposte sui redditi, a norma del secondo comma dell’art. 36 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248), un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo.
[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Chindemi, rel. Napolitano), 30 marzo 2016, sent. n. 6135]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – L’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Albano Laziale – notificò alla sig.ra G.P. il 7 dicembre 2006 avviso di accertamento, con il quale – in ragione di previo accertamento in rettifica di valore ai fini dell’imposta di registro, divenuto definitivo, che aveva elevato il valore di un terreno sottoposto a vincoli, oggetto di cessione da parte della P. a terzi con atto registrato il 9 luglio 2001, a lire 689.500.000 rispetto a quello dichiarato di lire 355.000.000 – sulla base del predetto maggior valore di lire 689.500.000, l’Ufficio assoggettava a tassazione la plusvalenza di cui all’art. 81 comma 1 lett. b) del D.P.R. n. 917 del 1986, come modificato dall’art. 11, comma 1, lett. f) della L. 30 dicembre 1991, n. 413 (ora art. 67 comma 1, lett. b del citato D.P.R. n. 917/1986).
La contribuente, che aveva nelle more definito ai fini INVIM i valori dichiarati nel predetto atto di cessione, ai sensi dell’art. 11 della L. n. 289/2002 con l’incremento del 25%, impugnò l’atto dinanzi alla CTP di Roma, eccependone l’illegittimità per carenza di motivazione, per violazione degli artt. 81 e 82 1° comma del D.P.R. n. 917/1986 (di seguito TUIR) essendo erroneo il presupposto della ritenuta natura edificatoria del terreno e per non avere tenuto conto d’istanza di condono presentata dalla contribuente medesima in data 21 maggio 2004.
Il ricorso fu rigettato e la sentenza di primo grado confermata, con sentenza della CTR del Lazio n. 36/9/09, depositata il 31 marzo 2009, a seguito del rigetto dell’appello proposto dalla contribuente.
La CTR ritenne che il valore del bene compravenduto fosse stato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro, ciò dispiegando i suoi effetti anche ai fini delle imposte dirette e che la definitività dell’accertamento escludeva altresì l’applicabilità della normativa del condono.
Avverso detta pronuncia la contribuente ricorre per cassazione; affidando il ricorso a sette motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
La ricorrente ha altresì depositato memoria, insistendo per l’accoglimento del ricorso relativamente alla parte di debito residua a seguito della parziale definizione, ai sensi dell’art. 1, comma 622, della L. n. 147/2013, delle cartelle recanti la provvisoria iscrizione a ruolo in pendenza del giudizio.
MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Con il primo motivo la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 82 comma 1 del D.P.R. 22 dicembre 1986 (art. 68, comma 1 del nuovo TUIR), in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3. Diversità dei criteri di tassazione tra imposta di registro ed imposta indiretta”.
La ricorrente lamenta l’erroneità in diritto della decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto vincolante, ai fini dell’accertamento quanto all’imposta sui redditi della contribuente, l’accertamento definitivo circa la determinazione del valore ai fini dell’imposta di registro, così annullando la diversità dei presupposti impositivi tra imposta sui redditi, la tassazione dei quali è legata a redditi effettivamente percepiti ed imposta d’atto (l’imposta di registro) la cui base imponibile è legata al valore venale del bene in comune commercio.
2. In subordine, con il secondo motivo, la ricorrente rileva che, ove mai dovesse comunque accedersi alla tesi secondo la quale si debba ritenere operante la presunzione che il corrispettivo percepito dalla cessione sia pari al valore in comune commercio dell’immobile ceduto, ponendo a carico della contribuente l’onere di dimostrare il contrario, detta presunzione si porrebbe in violazione sia del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., sia del principio della contribuzione alle spese in ragione della capacità contributiva, posto dall’art. 53 Cost.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia “omessa motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 5) circa la prova fornita dalla contribuente in relazione alle somme effettivamente percepite a titolo di corrispettivo per la vendita”, per avere la sentenza impugnata omesso di fornire alcuna valutazione della prova documentale offerta mediante gli assegni bancari ricevuti dall’acquirente nell’importo corrispondente al prezzo di cessione dichiarato in atto.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce ancora “insufficiente motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 5) con riguardo al rilievo concernente l’errata valutazione della presenza della dichiarazione per la definizione degli anni pregressi”, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto priva di efficacia la dichiarazione di condono per gli anni 1997 – 2002 presentata dalla contribuente ai sensi dell’art. 9 della L. n. 289/2002, con conseguente versamento di quanto dovuto a tale titolo, unicamente in forza del rilievo che l’applicabilità della normativa di condono era esclusa, trattandosi di accertamento definitivo.
5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 81, comma 1, lettera b), del D.P.R. 22 dicembre 1986”, n. 917 “(art. 67, comma 1, lettera b del nuovo TUIR) in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3”, per non avere tenuto conto la sentenza impugnata, con riferimento al valore del terreno oggetto di cessione, del fatto che si trattava di terreno sottoposto ad una serie di vincoli, come individuati in atto particella per particella e riportati in ricorso, che ne precludevano l’utilizzazione edificatoria.
6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia “omessa pronuncia della sentenza (in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 4) sotto il profilo dell’illegittimità dell’avviso di accertamento nella parte in cui, contravvenendo alle disposizioni dell’art. 82, comma 1, del D.P.R. 22 ottobre (recte dicembre) 1986”, n. 917 “(art. 68, comma 1 del nuovo TUIR), non riconosce l’esistenza di costi inerenti al bene compravenduto”.
La ricorrente si duole del fatto che la decisione impugnata abbia omesso di pronunciare sulla specifica eccezione, dedotta come motivo a fondamento del ricorso di primo grado e riproposta in appello, con la quale si evidenziava l’illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato nella parte in cui aveva omesso di riconoscere, tra i costi inerenti al bene compravenduto, quello relativo al pagamento dell’imposta di successione, trattandosi di bene pervenuto alla ricorrente per successione mortis causa.
7. Infine, con il settimo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per “omessa pronuncia (in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 4) circa il mancato riconoscimento della nullità dell’avviso di accertamento per carenza assoluta di motivazione e violazione degli artt. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 7 della legge 2000, n. 212 (cd. statuto del contribuente)” eccepita in primo grado e riproposta in appello con riferimento alla mancata allegazione all’avviso di accertamento impugnato di “certificazione”, rilasciata dall’Ufficio delle Entrate di Avellino, dalla quale avrebbe dovuto desumersi la definitività dell’accertamento quanto al valore attribuito al terreno ai fini dell’imposta di registro.
8. In relazione al primo motivo deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia fatto applicazione del principio di diritto più volte affermato da questa Corte, secondo cui l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, ciò comportando che incombe al contribuente, al fine di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato a quello coincidente con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrare di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore (tra le molte Cass. civ. sez. V 19 giugno 2009, n. 14485 (1), oltre ad altre pronunce citate nel controricorso dell’Amministrazione finanziaria), implicitamente quindi la sentenza impugnata ritenendo inidonea a superare detta presunzione la documentazione versata in atti dalla contribuente circa l’entità del prezzo effettivamente incassato.
8.1. Sennonché detto principio deve ritenersi ormai superato alla stregua dello ius superveniens di cui all’art. 5, 3° comma del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 che così testualmente recita: “Gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5-bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347”.
L’attuale art. 68 TUIR (corrispondente all’art. 82 della vecchia numerazione) prevede al 1° comma, in relazione al precedente art. 67, limitatamente a quanto qui rileva, che le plusvalenze realizzate mediante cessione di terreni sono costituite dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
La presunzione sin qui affermata in via giurisprudenziale circa la corrispondenza del corrispettivo incassato al valore venale in comune commercio del bene compravenduto quale accertato ai fini dell’imposta di registro non è più sostenibile alla stregua della nuova disposizione normativa come sopra trascritta, che, ponendosi espressamente quale norma d’interpretazione autentica, ai sensi dell’art. 1 comma 2° della L. n. 212/2000, è applicabile retroattivamente.
La presunzione di cui sopra non può essere, infatti, più legittimata, secondo il disposto del succitato art. 5, 3° comma, del D.Lgs. n. 147/2015, solo sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro.
Risulta, invece, ad ogni evidenza, che la sentenza impugnata ha ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento relativo ai redditi dell’anno 2001 della contribuente, con il quale l’Amministrazione ha contestato l’omessa dichiarazione della plusvalenza che sarebbe stata conseguita dalla contribuente sul prezzo dell’atto di cessione del terreno per cui è causa, unicamente in base alla presunzione della corrispondenza del prezzo effettivamente incassato a quello assunto come valore di mercato nell’accertamento definitivo ai fini dell’imposta di registro.
8.2. Il primo motivo va dunque accolto e la sentenza cassata affinché il giudice di rinvio, adeguandosi al principio di diritto come ormai normativamente stabilito dalla succitata norma d’interpretazione autentica, proceda a nuovo accertamento in ordine al quantum del prezzo di cessione percepito dalla contribuente per la verifica della sussistenza o meno di plusvalenza soggetta a tassazione ai sensi delle richiamate disposizioni del TUIR.
9. Per effetto dell’accoglimento del primo motivo, restano assorbiti il secondo, il terzo ed il sesto come dinanzi trascritti, dovendosi riguardo a quest’ultimo unicamente osservare che il giudice di rinvio, solo ove accerti la sussistenza della pretesa impositiva dell’Amministrazione finanziaria contestata in toto dalla contribuente, dovrà considerare tra i costi inerenti al bene compravenduto, oltre a quelli legittimante riportati nell’avviso di accertamento, il pagamento dell’imposta di successione.
10. Il quarto motivo è infondato.
Premesso che la contribuente ha impropriamente censurato sotto la specie del vizio di motivazione, ex art. 360, 1° comma n. 5 c.p.c., che attiene all’accertamento in fatto del giudice di merito, quella che, in parte qua, è propriamente motivazione in diritto (potendo, come è noto, l’erronea motivazione in diritto essere corretta a norma dell’art. 384 ultimo comma c.p.c. allorché il dispositivo sia conforme al diritto), deve in ogni caso rilevarsi l’infondatezza della relativa censura.
Per espressa previsione dell’art. 9 della L. n. 289/2002, nell’ambito di detta norma non poteva trovare fondamento l’ipotesi di condono richiesta dalla contribuente volta alla definizione proprio delle imposte richieste per maggiori redditi soggetti a tassazione separata.
Essendo incontroverso in fatto che la contribuente nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2001 non aveva indicato alcuna plusvalenza, ove essa risulti dimostrata da parte dell’Ufficio, essa non potrà rientrare nel condono di cui all’art. 9 della L. n. 289/2002 richiesto dalla contribuente.
11. Ugualmente infondato è il quinto motivo nei termini in cui è posto.
Questa Corte ha affermato il principio – ormai consolidato a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite 30 novembre 2006, n. 25505 (2), e in forza della normativa d’interpretazione autentica dapprima dettata in tema di ICI (art. 11-quaterdecies, comma 16 del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni in L. 2 dicembre 2005, n. 248) e poi estesa anche ai fini, per quanto rileva, delle imposte sui redditi, dall’art. 36, 2° comma del D.L. [4 giugno, n.d.r.] 2006, n. 223, convertito con modificazioni, in L. 4 agosto 2006, n. 248, con disposizione che ha superato lo scrutinio di legittimità costituzionale, essendo stata la relativa questione dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale con ordinanza 27 febbraio 2008, n. 41 (3) – che un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo. Altro rilievo avrebbe viceversa avuto la censura ove la parte si fosse doluta, nell’ambito dell’acquisita suscettibilità di utilizzazione edificatoria, sotto il profilo dell’illogicità dell’accertamento in fatto compiuto dalla sentenza impugnata per omessa considerazione della concreta incidenza dei suddetti vincoli sulla stessa (cfr. Cass. civ. Sez. V 21 maggio 2014, n. 11182 (4)).
12. Infine è infondato il settimo motivo, con il quale la ricorrente si duole della omessa pronuncia sull’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento impugnato per difetto di motivazione dello stesso.
È sufficiente, in proposito osservare, in adesione a costante indirizzo espresso in materia dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, Cass. civ. sez. I 28 marzo 2014, n. 7406 (5); Cass. civ. sez. I 9 maggio 2007, n. 10636 (6); Cass. civ. sez. I 19 maggio 2006, n. 11844 (7)) che non è sufficiente a far ritenere sussistente la lamentata violazione il fatto che la sentenza non sia espressamente pronunciata su una domanda o eccezione proposta. Di modo che la sussistenza del vizio va esclusa allorché, come nella fattispecie in esame, sia comunque ravvisabile una pronuncia implicita di rigetto, desumibile dall’avere la CTR giudicato nel merito della pretesa impositiva.
13. La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione al primo motivo accolto e la causa rinviata per nuovo esame a diversa sezione della CTR del Lazio che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M. – La Corte accoglie il ricorso in relazione al primo motivo, assorbiti il secondo, terzo e sesto motivo e rigettati il quarto, quinto e settimo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa a diversa sezione della CTR del Lazio anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
(1) In Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib., 2008, 1204.
(4) In Boll. Trib. On-line.
(5) In Boll. Trib. On-line.
(6) In Mass. Foro it., 2007, 955.
(7) In Mass. Foro it., 2006, 937.