SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Risoluzione n. 78/E/2013 – 3. Quadro normativo – 4. Sintesi delle posizioni in dottrina – 5. Considerazioni critiche; 5.1 Il principio di derivazione e l’art. 92 del TUIR; 5.2 La ratio dell’art. 92 del TUIR; 5.3 Conclusioni.
1. Premessa
Con una risoluzione (1) destinata a lasciare il segno l’Agenzia delle entrate ha affermato che la svalutazione dei beni iscritti fra le rimanenze valutati a costi specifici non è riconosciuta ai fini fiscali. Il tema appare di grande importanza in particolare per le imprese immobiliari le quali, soprattutto nell’attuale periodo di crisi del settore, in ossequio alle norme del codice civile possono trovarsi a dover svalutare in bilancio gli immobili iscritti fra le rimanenze. è facile prevedere che la posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria potrà costituire la base per un filone di verifiche fiscali volto a rettificare ai fini fiscali le eventuali svalutazioni dei beni immobili iscritti fra le rimanenze che le imprese immobiliari possono aver dedotto. Parimenti sembra ragionevole attendersi una corrispondente mole di contenzioso tributario.
Il presente articolo, partendo dalla risoluzione dell’Agenzia delle entrate – che, si ricorda, è vincolante solo per il caso sottoposto nell’interpello, ma comunque indicativa dell’orientamento dell’Amministrazione finanziaria – dopo aver passato in rassegna le principali posizioni delineatesi in dottrina, intende ripercorrere l’evoluzione della norma del TUIR che disciplina le rimanenze, al fine di individuarne la ratio e proporre una linea di interpretazione ad essa aderente.
[-protetto-]
2. Risoluzione n. 78/E/2013
Secondo i fatti riportati nella risoluzione in commento, la società interpellante ha acquistato un bene immobile ad un’asta giudiziaria e lo ha iscritto tra le rimanenze, valutandolo al costo specifico, per poi procedere alla successiva vendita. Avendo successivamente scoperto la non conformità dell’immobile rispetto alla licenza edilizia e a seguito di un infruttuoso tentativo volto all’annullamento dell’atto di trasferimento, la società ha stimato, sulla base di una perizia da parte di un esperto, un valore di mercato inferiore a quello di acquisto e intende pertanto iscrivere in bilancio il minor valore. La società ha dunque chiesto all’Agenzia delle entrate se la svalutazione contabile sia rilevante ai fini fiscali ai sensi dell’art. 92 del TUIR.
Al riguardo l’Agenzia osserva, in primo luogo, che già in ambito civilistico si desume un trattamento diverso dei beni sulla base della loro natura: per i beni fungibili è consentita la valutazione in base a «criteri forfetari alternativi al costo (i.e., costo medio ponderato, FIFO, LIFO e relative varianti)», mentre i beni infungibili devono essere valutati al costo specifico (i.e. costo di acquisto o di produzione). Ponendosi in rapporto di dipendenza dalla normativa civilistica, la norma fiscale attribuisce rilevanza fiscale ai criteri adottati in bilancio, salvo il rispetto del valore minimo previsto dalla norma fiscale.
In tale contesto, secondo l’Agenzia delle entrate, poiché il quinto comma dell’art. 92 del TUIR non richiama i beni valutati a costi specifici, si deve ritenere che il legislatore abbia inteso consentire la rilevanza fiscale della svalutazione solo con esclusivo riferimento ai beni valutati con criteri diversi dal costo specifico. Al contrario, la svalutazione dei beni valutati a costi specifici non trova riconoscimento fiscale, con la conseguenza che in sede di dichiarazione deve essere effettuata una variazione in aumento del reddito in misura corrispondente alla svalutazione operata in bilancio. A parere dell’Agenzia un’interpretazione difforme da quella sostenuta non sarebbe in linea con la ratio della norma.
Infine viene rilevato che la conclusione è coerente con la previsione per i soggetti IASadopter di cui all’art. 3, secondo comma, del D.M. 8 giugno 2011.
Per completezza deve essere rilevato che la conclusione della citata risoluzione n. 78/E/2013 contrasta con le affermazioni contenute in una risalente (e mai espressamente revocata) risoluzione del Ministero delle finanze nella quale viene affermato, con riguardo ai fabbricati costruiti e destinati alla vendita, rappresentando beni alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impresa, che «nelle more del possesso anteriore alla cessione essi costituiscono semplicemente beni di magazzino suscettibili di valutazione quali rimanenze al termine di ogni periodo d’imposta» (2).
3. Quadro normativo
Sotto il profilo civilistico, a norma dell’art. 2426, primo comma, n. 9), c.c., le rimanenze sono iscritte al costo di acquisto o di produzione ovvero, se minore, al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato; tale minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se ne sono venuti meno i motivi. Inoltre, ai sensi del successivo n. 10) del primo comma del richiamato art. 2426, con riguardo ai beni fungibili il costo può essere calcolato col metodo della media ponderata, con quello “primo entrato, primo uscito” (FIFO) o “ultimo entrato, primo uscito” (LIFO).
Per quanto concerne le imposte sui redditi, la valutazione delle rimanenze del magazzino è espressamente regolata dall’art. 92 del TUIR. Ai sensi del primo comma del richiamato art. 92, le variazioni delle rimanenze finali dei beni rispetto alle esistenze iniziali concorrono a formare il reddito dell’esercizio. Al fine della determinazione delle variazioni, il secondo periodo del primo comma dell’art. 92 dispone che le rimanenze finali, la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici (nonché le opere, forniture e servizi di durata ultrannuale di cui all’art. 93 del TUIR), sono assunte per un valore non inferiore (c.d. valore minimo) a quello determinato, per categorie omogenee, a norma dei successivi commi del medesimo articolo.
A tale riguardo, per quanto di interesse ai presenti fini, l’art. 92 del TUIR prevede i seguenti criteri per la valutazione delle rimanenze diverse da quelle valutate a costi specifici e dalle opere di durata ultrannuale di cui all’art. 93 del TUIR:
– nel primo esercizio, le rimanenze sono valutate attribuendo a ciascuna unità il valore risultante dalla divisione del costo complessivo dei beni prodotti o acquistati nel corso dello stesso esercizio per la loro quantità (secondo comma);
– negli esercizi successivi, se la quantità delle rimanenze è aumentata, le maggiori quantità costituiscono voci distinte per esercizi di formazione. Se, invece, la quantità è diminuita, la diminuzione si imputa agli incrementi formanti nei precedenti esercizi, a partire dal più recente, c.d. metodo “LIFO” (terzo comma);
– è tuttavia consentita la valutazione delle rimanenze con il metodo della media ponderata ovvero con il metodo “FIFO” nonché con varianti del “LIFO” (quarto comma);
– se in un esercizio il valore unitario medio dei beni è superiore al valore normale degli stessi nell’ultimo mese dell’esercizio, il valore minimo sopra citato di cui al primo comma dell’art. 92 è determinato moltiplicando l’intera quantità dei beni per il valore normale (quinto comma).
Deve inoltre essere menzionata la disposizione – citata nella risoluzione in esame come elemento a supporto – di cui all’art. 3, secondo comma, del D.M. 8 giugno 2011, secondo cui è esclusa la rilevanza fiscale dei maggiori o minori valori da valutazione degli immobili classificati ai sensi dello IAS 2, IAS 16, IAS 40 o dell’IFRS 5 in base alla corretta applicazione degli IAS/IFRS.
4. Sintesi delle posizioni in dottrina
Va anticipato fin d’ora che il tema è tutt’altro che pacifico in dottrina. Possono al riguardo essere individuate due posizioni contrapposte con riguardo alla materia in argomento:
– secondo una prima lettura, la svalutazione ai fini fiscali dei beni valutati a costi specifici (come, di regola, gli immobili) non sarebbe consentita;
– secondo l’opposta interpretazione, invece, anche la svalutazione dei beni valutati a costi specifici sarebbe riconosciuta ai fini fiscali.
La prima posizione – alla quale, in sostanza, aderisce l’Agenzia delle entrate con la citata risoluzione n. 78/E/2013 – si fonda sul presupposto che la possibilità di svalutare fiscalmente le rimanenze sarebbe rinvenibile esclusivamente nel quinto comma dell’art. 92 del TUIR secondo cui, se in un dato esercizio il valore unitario dei beni è superiore al valore normale, il valore minimo da assumere è determinato in base al valore normale. Poiché, in virtù del rinvio espresso operato dal primo comma dell’art. 92, il suddetto quinto comma si applica esclusivamente con riguardo alle valutazioni effettuate in base ai criteri del “LIFO” o sue varianti, della media ponderata ovvero del “FIFO” e non trova invece applicazione nei confronti dei beni valutati secondo il criterio del costo specifico, ne deriverebbe che per questi ultimi (e quindi anche nel caso di specie) la svalutazione non sarebbe riconosciuta ai fini fiscali (3).
Quanto alla tesi opposta, sostenuta da autorevole dottrina (4), essa si basa essenzialmente sulla constatazione che, non essendo prevista ai fini fiscali una specifica regola per la valutazione delle rimanenze iscritte al costo specifico, si ritiene che le relative svalutazioni operate ai fini civilistici assumano diretta rilevanza anche in ambito fiscale.
È degna di particolare nota la decisa presa di posizione da parte dell’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti di Milano (5) in cui viene enunciata la seguente massima: «L’art. 92 del TUIR nulla dispone in tema di valutazione delle rimanenze di magazzino trattate a costi specifici. Di conseguenza, anche alle rimanenze valutate con il criterio del costo specifico sirende applicabile, ai sensi dell’art. 83, comma 1, del TUIR, il principio civilistico dell’art. 2426, n. 9, cod. civ., che prevede il confronto con il valore normale, come definito dall’art. 9 del TUIR». In particolare, secondo la citata Associazione, il mancato richiamo nell’ambito dell’art. 92, quinto comma, primo periodo, del TUIR, ai beni valutati a costo specifico non preclude che, ai fini della valutazione, il loro valore debba essere confrontato con il rispettivo valore normale, applicando in sede di determinazione del reddito il minore fra i due importi.
La tesi dell’Associazione è stata specificamente confutata sulla base della tesi secondo cui dall’impianto normativo in tema di valutazione delle rimanenze discende un sistema costituito da due metodi di valutazione alternativi: (i) da una parte il meccanismo previsto dai commi 1-5 dell’art. 92 del TUIR e (ii) dall’altra parte il criterio puntuale del costo specifico. Secondo tale interpretazione, la valutazione al valore normale sarebbe possibile soltanto nel primo caso, mentre nel secondo caso ai fini fiscali ci si deve attenere al costo specifico, con la conseguenza che eventuali svalutazioni civilistiche non sarebbero fiscalmente rilevanti (6).
5. Considerazioni critiche
5.1 Il principio di derivazione e l’art. 92 del TUIR
Ad avviso di chi scrive, ai fini del corretto inquadramento dell’argomento in commento non può prescindersi dai principi generali che governano il reddito d’impresa e dai quali, pertanto, deve prendere le mosse l’analisi dell’interprete.
Al riguardo, come è noto, l’art. 83, primo comma, del TUIR, esprime il principio generale secondo cui il reddito complessivo è determinato apportando all’utile od alla perdita risultante dal conto economico le variazioni in aumento o in diminuzione derivanti dall’applicazione dei criteri stabiliti dalle successive disposizioni del TUIR (c.d. principio di derivazione). Come osservato nella nota illustrativa alla bozza del TUIR, le variazioni fiscali non sono dirette a disciplinare la formazione del bilancio «bensì a disciplinarne la lettura ai fini delle determinazione del reddito imponibile e cioè a stabilire se, a quali condizioni ed in quali limiti minimi e massimi, i componenti dell’utile di esercizio presi in considerazione giocano il ruolo di componenti del reddito d’impresa imponibile». Merita inoltre di essere osservato che l’orientamento costante del legislatore è quello di rafforzare il principio di derivazione del reddito imponibile dal risultato di esercizio, come risulta dalle modifiche alle disposizioni del TUIR adottate negli ultimi anni (quali, ad esempio, l’eliminazione delle deduzioni extracontabili ovvero, per i soggetti IAS, la validità, anche in deroga alle disposizioni del TUIR, dei criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai principi contabili internazionali).
In sintesi, dunque, il punto di partenza è il risultato di esercizio al quale si apportano le variazioni (in aumento o in diminuzione) espressamente previste dalle disposizioni del TUIR per giungere alla determinazione del reddito imponibile. Il corollario naturale che ne deriva è che non devono apportarsi variazioni all’utile di esercizio ove non siano espressamente previste dalle norme del TUIR.
Ciò detto sul piano generale, come già notato, ai sensi del primo periodo del primo comma dell’art. 92 del TUIR, le variazioni delle rimanenze finali rispetto alle esistenze iniziali concorrono a formare il reddito dell’esercizio. La norma non opera alcun distinguo tra i beni sulla base del criterio di valutazione ed è quindi applicabile a tutte le categorie di beni iscritte tra le rimanenze, inclusi naturalmente i beni immobili.
Va notato come la portata effettiva di tale disposizione non risulti di immediata comprensione. Da un lato, infatti, potrebbe sostenersi che senza tale norma le variazioni civilistiche (in aumento o in diminuzione) delle rimanenze non avrebbero rilevanza fiscale. Tale conclusione, tuttavia, sarebbe in contrasto con il richiamato principio di derivazione. Sembra dunque più coerente che la norma costituisca una mera applicazione concreta del suddetto principio e svolga pertanto la funzione di rafforzare il principio stesso con specifico riguardo alla valutazione delle rimanenze. Ciò trova peraltro conferma nella volontà del legislatore espressa nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto legge che ha introdotto l’inciso in discorso (7), nella quale si legge che «le modifiche apportate alle disposizioni che disciplinano la valutazione del “magazzino” si muovono nella direzione dell’armonizzazione del regime tributario con le regole dettate dalla normativa civilistica sul bilancio d’esercizio, in quanto tendono ad eliminare, ove possibile, o comunque a limitare sensibilmente gli scostamenti delle risultanze di bilancio che possono derivare da esigenze di certezza e cautela per l’Amministrazione finanziaria».
In ogni caso sembra indiscutibile che tanto la lettera della norma quanto la ratio della stessa vadano nel senso che le variazioni (positive o negative) delle rimanenze (indipendentemente dal criterio di valutazione) risultanti dal Conto Economico concorranoa formare il reddito dell’esercizio. Alla luce di tale principio, va dunque smentito l’argomento principale sul quale si basa la tesi che nega il riconoscimento fiscale dei minori valori in relazione ai beni valutati a costi specifici, secondo cui la possibilità di svalutare le rimanenze ai fini fiscali sarebbe prevista esclusivamente dal quinto comma dell’art. 92 del TUIR (dal quale, come detto, sono esclusi i beni valutati a costi specifici), posto che il riconoscimento ai fini fiscali delle svalutazioni delle rimanenze troverebbe sede, come regola generale, nel richiamato primo periodo del primo comma dell’art. 92, oltre che nel più volte menzionato principio di derivazione. Dovrebbe conseguentemente essere riconosciuta la rilevanza fiscale della svalutazione delle rimanenze valutate a costi specifici.
Una conferma di quanto appena notato deriva dal confronto con il regime applicabile ai beni c.d. patrimoniali e strumentali. Come noto, infatti, ai sensi dell’art. 101, primo comma, del TUIR, le minusvalenze relative ai beni patrimoniali e strumentali (8) sono deducibili ai fini fiscali solo se realizzate mediante cessione a titolo oneroso, con la conseguenza che eventuali svalutazioni non assumono rilevanza ai fini fiscali. Questa regola conferma il principio sopra enunciato secondo cui si apportano al risultato d’esercizio le variazioni (in aumento o in diminuzione) espressamente previste. Infatti, il legislatore si è premurato di prevedere una norma specifica che vieti il riconoscimento fiscale delle svalutazioni dei beni patrimoniali o strumentali. Senza tale espressa deroga, in virtù del principio di derivazione, i minori valori dei beni strumentali e patrimoniali iscritti in bilancio avrebbero dovuto ricevere riconoscimento fiscale. È, invece, del tutto assente analoga norma di deroga al principio di derivazione per le rimanenze (valutate a costi specifici).
Nello stesso senso deve essere considerata la disposizione concernente i soggetti IAS di cui all’art. 3, secondo comma, del D.M. 8 giugno 2011, che esclude la rilevanza fiscale dei maggiori o minori valori da valutazione degli immobili classificati, inter alia, tra le rimanenze. Infatti, contrariamente a quanto affermato dall’Agenzia delle entrate nella più volte citata risoluzione n. 78/E/2013, l’espressa previsione della irrilevanza fiscale delle svalutazioni degli immobili iscritti fra le rimanenze per i soggetti IAS deve essere letta come una conferma che il regime naturale è quello della piena legittimità della deduzione di tali svalutazioni, salvo che le norme tributarie dispongano diversamente.
5.2 La ratio dell’art. 92 del TUIR
L’inquadramento sistematico presentato nel precedente paragrafo dovrebbe, di per sé, bastare per il riconoscimento ai fini fiscali delle svalutazioni dei beni valutati a costi specifici. Non può tuttavia sottacersi che, pur concedendo credito alla posizione in favore della deducibilità, è stato autorevolmente sostenuto – ancorché in termini dubitativi – che forse la tesi più in linea con le intenzioni del legislatore sarebbe quella di ritenere che l’art. 92 del TUIR non consenta la svalutazione per i beni non fungibili (9). La stessa Agenzia delle entrate sostiene, nella risoluzione in esame, che eventuali interpretazioni che consentissero la deducibilità fiscale delle riduzioni di valore dei beni valutati al costo non sarebbe in linea con la ratio della norma, senza tuttavia offrire particolari ragguagli sulla ratio medesima (ma finendo per farla coincidere con la conclusione).
Un completo esame dell’argomento in discorso non può dunque prescindere dall’indagine sulla ratio dell’art. 92 del TUIR e, in particolare, sulle ragioni del legislatore volte (asseritamente) a trattare in modo differenziato, ai fini della rilevanza fiscale delle svalutazioni, i beni fungibili e i beni infungibili. Sotto il profilo dell’analisi normativa, ciò significa domandarsi quali siano le motivazioni della esclusione dei beni valutati a costi specifici dal secondo periodo del primo comma dell’art. 92 del TUIR.
A tale riguardo, appare utile ripercorrere in sintesi le principali modifiche di rilievo che hanno interessato la norma sul punto in argomento.
Fino alle modifiche introdotte nel 1984, l’art. 62 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, al tempo in vigore, riconosceva quale unico criterio di valutazione quello del costo medio ponderato, con effetto LIFO nel caso di riduzione di quantità (10). Inoltre, il quarto comma del richiamato art. 62 consentiva la svalutazione delle rimanenze (senza distinzioni e, quindi, anche per i beni valutati a costi specifici), prevedendo che, in caso di valore unitario dei beni inferiore al valore normale, la valutazione potesse essere fatta per il valore normale (11).
Con l’art. 3, sesto comma, del D.L. 19 dicembre 1984, n. 853 (convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17), sono state introdotte due importanti modifiche al trattamento fiscale delle rimanenze. Innanzitutto, in base alla motivazione che la norma tributaria non può vietare o consentire uno o più metodi di valutazione delle rimanenze, viene riconosciuta la validità ai fini fiscali del metodo (qualunque esso sia) applicato in sede di bilancio. Inoltre, sono stati fissati i parametri per la determinazione del valore minimo ai fini fiscali. Occorre al riguardo precisare che la norma in discorso ha introdotto l’esclusione (presente tuttora) per i beni valutati a costi specifici dalla regola del valore minimo. Al riguardo – tenendo presente che, come già osservato, la norma consente la valutazione al valore normale in deroga ai criteri diversi dal costo specifico – il motivo di tale esclusione è esplicitato nella relazione governativa al disegno di legge di conversione del D.L. n. 853/1984 in cui si afferma in modo netto che «la regola del valore minimo può essere derogata, con il conseguente riconoscimento fiscale di un eventuale minor valore, soltanto in due casi fissati: quando sia stato adottato contabilmente il metodo di valutazione a costi specifici, come già implicitamente riconosciuto nel vigente testo dell’art. 14, lettera d), del decreto sull’accertamento, e quando sia stato adottato il metodo del prezzo al dettaglio». In altri termini, con riguardo ai beni valutati a costi specifici il legislatore non ha previsto il criterio del valore minimo (12) presumendo che la svalutazione degli stessi, date le loro peculiarità (si tratta in genere di beni non fungibili), venga fatta sulla base di canoni oggettivi (13), mentre la valutazione dei beni (fungibili) in base agli altri criteri si presta più agevolmente a manovre arbitrarie e necessita di essere sottoposta a limiti rigorosi.
Per mera completezza si osserva che la norma di cui trattasi è stata successivamente incorporata con il nuovo TUIR nel 1986 (art. 59) ed è rimasta sostanzialmente invariata nell’ultima versione attualmente in vigore a seguito della riforma del 2003 (art. 92, primo comma, secondo periodo).
In base alla ricostruzione operata deve concludersi che l’esclusione dalla regola del valore minimo per i beni valutati a costi specifici, prevista dall’art. 92, primo comma, secondo periodo, del TUIR, non significhi che la svalutazione di tali beni non sia riconosciuta ai fini fiscali, ma anzi costituisca una deroga alla regola del valore minimo (14). Non vi sarebbe dunque alcun intento del legislatore di non riconoscere ai fini fiscali la svalutazione delle rimanenze valutate a costi specifici.
5.3 Conclusioni
Il tema del riconoscimento fiscale della svalutazione dei beni immobili iscritti fra le rimanenze presenta senz’altro un certo margine di incertezza, oltre ad essere poco esplorato nella sua effettiva dimensione. Ne è dimostrazione la diversità di vedute in dottrina e la posizione da ultimo assunta dall’Amministrazione finanziaria con la risoluzione n. 78/E/2013 in commento.
Volendo riepilogare gli esiti dell’analisi svolta, in base ad un’interpretazione letterale e logica dell’art. 92 del TUIR si possono trarre le seguenti conclusioni:
– ai sensi dell’art. 83, primo comma, del TUIR, il reddito complessivo è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal Conto Economico le variazioni in aumento o in diminuzione previste dalle norme del TUIR. In altri termini, il risultato d’esercizio è rilevante ai fini fiscali (ivi compresa la eventuale svalutazione di beni immobili iscritti fra le rimanenze), salvo che le norme del TUIR dispongano diversamente;
– a norma del primo periodo del primo comma dell’art. 92, le variazioni (positive o negative) delle rimanenze concorrono a formare il reddito imponibile. La svalutazione delle rimanenze valutate a costi specifici rientra in questa regola generale, con conseguente riconoscimento ai fini fiscali. Diversamente da quanto espressamente previsto dall’art. 101, primo comma, del TUIR, per i beni strumentali e patrimoniali, non è previsto il divieto di deduzione delle svalutazioni delle rimanenze valutate a costi specifici;
– il secondo periodo del primo comma dell’art. 92 impone un valore minimo per le rimanenze la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici. Da ciò non sembra tuttavia discendere che la svalutazione di tali ultimi beni non debba essere riconosciuta ai fini fiscali, come peraltro confermato nella relazione governativa (sopra citata) illustrativa del disegno di legge di conversione del D.L. n. 853/1984 con il quale è stata introdotta la regola del valore minimo;
– in base alla ratio dell’art. 92 del TUIR, non sembra dunque condivisibile la tesi secondo cui la svalutazione delle rimanenze valutate a costi specifici non sia riconosciuta ai fini fiscali.
Avv. Francesco Capitta
(1) Cfr. ris. 12 novembre 2013, n. 78/E, in questo stesso fascicolo a pag. 1734.
(2) Ris. 23 giugno 1977, n. 9/1050, in Boll. Trib., 1977, 1544.
(3) Si veda al riguardo A. Gentile, Contabilità di magazzino e valutazione delle rimanenze, in Boll. Trib., 1990, 100, il quale – dopo aver illustrato che la disposizione di cui trattasi interviene quale correttivo del sistema nelle fasi deflazionistiche poiché autorizza, in sostanza, la svalutazione delle rimanenze per adeguarle al valore corrente – rileva che «poiché il comma 4 dell’art. 59 [ora comma 5 dell’art. 92, n.d.a.] fa riferimento ai valori unitari dei beni determinati a norma dei commi 2 e 3, la riduzione al valore normale sarà circoscritta solo ai soggetti che hanno adottato il lifo rimanendo preclusa ai soggetti che hanno fruito delle disposizioni del comma 1 [incluso il caso della iscrizione secondo il criterio del costo specifico, n.d.a.] e quindi hanno proceduto ad una libera rivalutazione».
(4) Cfr. G. Vasapolli – A. Vasapolli, Interessi passivi e costi di produzione nella valutazione delle rimanenze, in Corr. trib., 1995, 790; e D. Stevanato, Svalutazione a «valore normale» per immobili merce ed altri beni valutati «a costi specifici», in Dial. trib., 2013, 40, che sottolinea l’inesistenza di ragioni sistematiche idonee ad escludere i beni valutati a costi specifici dal procedimento di adeguamento al valore di mercato.
(5) Cfr. Norma di comportamento n. 168 dell’Associazione Dottori Commercialisti di Milano, Rimanenze valutate a costi specifici: confronto con il valore normale, in Boll. Trib., 2008, 985.
(6) Cfr. S.M. Messina, Valutazione a costo specifico delle rimanenze di magazzino, in Corr. trib., 2007, 2913, secondo il quale, in estrema sintesi, in tema di valutazione delle rimanenze il legislatore fiscale non ha inteso rinviare al bilancio di esercizio. Ciò, secondo l’Autore, sulla base di due motivi: (i) in base alla lettera della norma i beni valutati a costi specifici sono espressamente esclusi dall’applicazione del valore normale; (ii) secondo l’interpretazione logica della stessa norma, l’intento del legislatore è quello di creare una disciplina fiscale autonoma (dai valori di bilancio) con la fissazione dei criteri per determinare un valore fiscalmente rilevante e appare dunque più coerente intendere il riferimento al valore normale come criterio minimo valido solo per i beni raggruppabili per categorie omogenee e non per quelli da valutare a costo specifico.
(7) D.L. 28 febbraio 1994, n. 139 (non convertito), reiterato da ultimo dal D.L. 29 giugno 1994, n. 416 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1994, n. 503).
(8) In particolare l’art. 101, comma 1, del TUIR, fa riferimento ai beni diversi da quelli di cui all’art. 85, comma 1, del TUIR (beni suscettibili di produrre ricavi tra i quali rientrano, tra l’altro, i beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa, quali – tipicamente – i beni merce), e all’art. 87 del TUIR.
(9) Cfr. Assonime, Guida all’applicazione dell’IRES e dell’IRAP per le imprese IAS adopter, Documento 1,maggio 2011, a cura di I. Vacca – A. Carcea. Tale conclusione si basa sulla motivazione che «… è difficile pensare ad un assetto normativo che, in presenza di una disciplina che circoscrive il riconoscimento delle svalutazioni dei beni fungibili di magazzino, per gli altri beni consenta la deduzione delle rettifiche di valore senza alcun limite fiscale». La posizione di Assonime è criticata da D. Stevanato, Svalutazione a «valore normale» per immobili merce ed altri beni valutati «a costi specifici», cit., 45, secondo il quale il limite è pur sempre costituito dal valore normale.
(10) Ai sensi dell’art. 75, comma 2, del D.P.R. n. 597/1973 (successivamente abrogato), l’Amministrazione finanziaria poteva autorizzare l’adozione di criteri diversi.
(11) Cfr. al riguardo G. Giunta, La valutazione delle rimanenze nello schema di testo unico IRPEF, in Corr. trib., 1986, 943, il quale, a commento dell’art. 59, comma 4, dello schema del TUIR (che riproduceva l’art. 59 del D.P.R. n. 597/1973), notava che «il quarto comma consente la svalutazione delle rimanenze se il valore normale dei beni scende, nell’ultimo trimestre dell’esercizio, al di sotto dei valori contabilizzati “a norma dei commi precedenti”. Poiché tra i commi precedenti al quarto vi è anche il primo che consente libertà di valutazione e, quindi, di rivalutazione, la svalutazione in parola deve ritenersi consentita a tutti i soggetti e non solo a coloro che hanno adottato il LIFO». Dello stesso parere S. Leardini – S. Domenichini, Svalutazione delle rimanenze e mutamento dei criteri di valutazione, in Corr. trib., 1991, 3626.
(12) In questo senso M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2010, 1595. Si veda anche M. Vantaggio, Valutazione libera per le rimanenze? Non esageriamo, in Riv. dir. trib., 1994, I, 231. Entrambi gli Autori però non si pronunciano sul tema se le eventuali svalutazioni dei beni valutati a costi specifici siano deducibili ai fini fiscali.
(13) Cfr. al riguardo S. Lattanzi, La valutazione fiscale delle rimanenze, Milano, 1986, 60, secondo cui «la deroga al criterio del limite minimo, infatti, può legittimamente tornare operante in entrambe le ipotesi [valutazione a costi specifici ed al dettaglio, n.d.a.] posto che la sottovalutazione “a dettaglio” ovvero “a costi specifici” discende da una diminuzione, rispettivamente, dei prezzi di vendita e dei costi di produzione e, pertanto, si palesa quale sottovalutazione effettiva e congrua».
(14) Va al riguardo osservato che, ancorché con riguardo alle rimanenze valutate a costi specifici non risulti previsto dalle norme un limite minimo, prudenzialmente sembra comunque ragionevole che ai fini fiscali il valore delle rimanenze non venga ridotto in misura inferiore al valore normale determinato ai sensi dell’art. 9, comma 3, del TUIR.
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