5 Gennaio, 2018

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La soggettività giuridica dei fondi comuni d’investimento – 3. La sostituzione di una società di gestione del risparmio ai fini delle imposte dirette – 4. La sostituzione di una società di gestione ai fini della sussistenza di una stabile organizzazione in Italia – 5. Il trasferimento di residenza all’estero di un fondo d’investimento immobiliare – 6. La disciplina dell’exit tax in caso di trasferimento di residenza.

1. Premessa

Tra le prerogative assegnate agli investitori dei fondi comuni d’investimento (1) merita attenzione la decisione in ordine alla sostituzione della SGR con un ente non residente, fattispecie agevolata all’interno dell’Unione europea dall’introduzione del c.d. “passaporto del gestore”, che consente alle società di gestione europee di istituire, gestire e commercializzare organismi di investimento collettivo del risparmio in uno Stato diverso dal proprio Stato di origine (2).
A seguito di tale delibera gli investitori modificano inoltre la legge che governa il fondo, da italiana ad estera, assoggettando quest’ultimo al controllo di un’altra Autorità di vigilanza (3).
Il regime tributario dell’operazione varia in funzione dell’inquadramento della sostituzione quale modifica soggettiva del gestore del fondo oppure quale trasferimento della titolarità dei beni patrimoniali, distinzione che impone una riflessione – soprattutto nei fondi immobiliari (4) – in ordine alla rilevanza di un evento realizzativo, alla sussistenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato e al trasferimento della residenza.

2. La soggettività giuridica dei fondi comuni d’investimento

Come è noto, i fondi comuni d’investimento costituiscono, ai sensi dell’art. 1, lett. j), del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, relativo al Testo unico della finanza (c.d. “TUF”), «un patrimonio autonomo raccolto, mediante una o più emissioni di quote, tra una pluralità di investitori con la finalità di investire lo stesso sulla base di una predeterminata politica di investimento; suddiviso in quote di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte, nell’interesse dei partecipanti e in autonomia dai medesimi».
L’individuazione della natura giuridica dei fondi comuni di investimento non è agevole da un punto di vista civilistico: il legislatore, già a partire dalla legge 23 marzo 1983, n. 77, che ha istituito per la prima volta i fondi comuni di investimento mobiliare aperti, non ha fornito al riguardo indicazioni esplicite (5).
La questione è stata lungamente dibattuta in dottrina senza che la stessa sia pervenuta a soluzioni unanimemente condivise, essendosi nel tempo susseguite interpretazioni alquanto diverse, sussumibili nei seguenti poli teorici: (i) il fondo quale universitas di cui gli investitori hanno la proprietà, in comunione tra loro, e di cui ciascuno singolarmente ha il godimento dei frutti in ragione della quota di pertinenza (6); (ii) il fondo come patrimonio separato e di titolarità della società di gestione, destinato all’attività di investimento prevista nel regolamento per l’esclusivo soddisfacimento dell’interesse dei partecipanti al fondo (7); (iii) il fondo quale soggetto giuridico autonomo (8) ravvedendo nel modello di funzionamento dei fondi, articolato sulle figure della società di gestione e della banca depositaria e sui rapporti intercorrenti tra di esse e i partecipanti, elementi di organizzazione sufficienti per separare il patrimonio del fondo da quello dei suddetti soggetti attraverso la creazione di un autonomo centro di imputazione di rapporti giuridici (9).
Per quanto riguarda il profilo tributario invece il legislatore, con l’art. 96, primo comma, lett. a), del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), ha ampliato l’ambito applicativo dell’art. 73, primo comma, lett. c), del TUIR, inserendo gli organismi di investimento (10) collettivo del risparmio residenti in Italia – sia di tipo mobiliare che immobiliare – tra i soggetti passivi all’imposta sul reddito delle società che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale (11), così dirimendo ogni dubbio in ordine alla possibilità per gli OICR istituiti nel territorio dello Stato di potersi qualificare quali “persone” ai fini dei Trattati contro le doppie imposizioni (12). Conseguentemente, è stato integrato il terzo comma del citato art. 73, stabilendo che «si considerano residenti nel territorio dello Stato gli organismi di investimento collettivo del risparmio istituiti in Italia» (13).
L’intervento normativo risulta conforme alle indicazioni contenute nel Commentario OCSE al Modello di convenzione contro le doppie imposizioni, secondo cui la possibilità di accedere ai benefici pattizi si realizza qualora l’organismo si qualifichi quale soggetto passivo d’imposta secondo la legislazione dello Stato di istituzione (14).
Il legislatore fiscale ha quindi esteso l’area della soggettività tributaria a organismi (15) che, per contro, non sono colti dall’ordinamento primario quale autonomo centro di imputazione di rapporti giuridici (16). Del resto, la capacità giuridica tributaria nel nostro ordinamento non coincide con la capacità giuridica del diritto privato (o di altri rami del diritto) (17), nel senso che, mentre tutte le persone fisiche e collettive, giuridicamente capaci secondo il diritto privato, sono senz’altro tali anche per il diritto tributario, quest’ultimo, invece, attribuisce la capacità di essere soggetti passivi di imposta anche ad unioni di persone o a complessi di beni sforniti, secondo il diritto privato, di capacità giuridica (18).

3. La sostituzione di una società di gestione del risparmio ai fini delle imposte dirette

In qualità di soggetti passivi IRES che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale, i fondi immobiliari sono soggetti alle disposizioni di cui al Capo III del Titolo II del TUIR, aventi ad oggetto la determinazione del reddito degli enti non commerciali residenti. Tutti gli accadimenti fiscalmente rilevanti secondo le regole del TUIR sono riferibili ai fondi, ancorché questi ultimi non siano tenuti al pagamento dell’IRES e dell’IRAP ai sensi dell’art. 6 del D.L. 25 settembre 2001, n. 351 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410) (19).
Per contro, tra le operazioni che non generano un evento realizzativo vi ricade la sostituzione della società di gestione, fattispecie prevista anche da Banca d’Italia nel Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio del 19 gennaio 2015 (20). Trattasi di un accadimento che non perfeziona un trasferimento della titolarità dei beni – giusta la soggettività tributaria del fondo recata dall’art. 73, primo comma, lett. c), del TUIR – bensì un trasferimento del mandato gestorio. Ciò significa che i beni immobili permangono nella proprietà del fondo e non si realizza alcun effetto traslativo in favore di un’altra società di gestione (21).
Peraltro, le disposizioni di cui all’art. 37, comma 2-bis, del TUF, non richiedono, per tale operazione, alcuna delle formalità necessarie per gli atti traslativi di diritti immobiliari, limitandosi a disporre che la sostituzione della società di gestione sia deliberata dall’assemblea dei partecipanti, senza nulla prevedere in merito alla necessità di rispettare determinati adempimenti formali (22).
In tale prospettiva la sostituzione della società di gestione del risparmio è da inquadrarsi come una mera modifica soggettiva concernente il gestore del patrimonio del fondo che ricade nella fattispecie della sostituzione del mandatario, con esclusione della configurabilità di fenomeni traslativi del patrimonio dei fondi e quindi non soggetta a particolari requisiti di forma e di pubblicità, salva l’annotazione nei registri immobiliari della modifica della società di gestione, al fine di rendere la sostituzione opponibile ai terzi (23).
Tale interpretazione trova corrispondenza anche nella giurisprudenza civile, secondo cui la sostituzione della società di gestione del risparmio «è assimilabile al mutamento, per vari motivi (decadenza, dimissioni, revoca), delle persone fisiche o giuridiche che, in un determinato momento, assumono la carica di amministratori di società. Inoltre, né la SGR cessata né la SGR subentrante hanno espresso rispettivamente alcuna volontà di cessione e di acquisto di alcunché, né vi è stato alcun incontro di loro volontà avente una causale di trasferimento di beni inclusi nel fondo» (24).
Per tali ragioni, il subentro della società di gestione non comporta l’emersione di alcuna base imponibile ai fini delle imposte dirette (25).

4. La sostituzione di una società di gestione ai fini della sussistenza di una stabile organizzazione in Italia

La circostanza che una società estera gestisca, in luogo di una SGR italiana, il fondo immobiliare sulla base del passaporto del gestore non implica di per sé la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia (26).
D’altronde il passaporto del gestore è stato introdotto al fine di promuovere, senza distorsioni di carattere fiscale, l’operatività transfrontaliera delle società di gestione del risparmio (27), assicurando il riconoscimento in tutta l’Unione europea delle autorizzazioni e dei sistemi di vigilanza prudenziale di ciascun Stato membro (28). Di talché si è proceduto a definire un quadro di riferimento armonizzato per la regolamentazione in materia di autorizzazione, funzionamento e trasparenza di tutti i gestori che gestiscono oppure commercializzano fondi di investimento (29).
Nell’ipotesi in cui la gestione del compendio immobiliare sia interamente localizzata all’estero, non vi potrà inoltre essere una potestà impositiva italiana in relazione ai redditi prodotti dal soggetto che subentra alla SGR italiana (30).

5. Il trasferimento di residenza all’estero di un fondo d’investimento immobiliare

La modifica della legge che governa il fondo d’investimento produce effetti in ordine all’individuazione della residenza fiscale ai sensi dell’art. 73, terzo comma, secondo periodo, del TUIR. Quest’ultima previsione stabilisce che si considerano residenti in Italia, ai fini dell’imposta sul reddito delle società, «gli organismi di investimento collettivo del risparmio istituiti in Italia» e ciò a prescindere dal luogo di direzione effettiva dell’organismo ovvero dal luogo di stabilimento del soggetto gestore (31) che, per effetto del passaporto del gestore, potrebbero essere al di fuori del territorio dello Stato (32).
In merito all’individuazione della legge istitutiva del fondo, alcuni spunti possono essere ritratti dalla normativa europea e, in specie, dalla citata Direttiva 2009/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 luglio 2009 (UCITS IV) secondo cui un fondo d’investimento si considera stabilito nel suo Stato membro di origine, per tale dovendosi intendere «lo Stato membro in cui il fondo è stato autorizzato». Trattasi, in sostanza, dello Stato la cui legislazione ne regolamenta il funzionamento, la vigilanza e l’attività.
Da tali indicazioni discende che, una volta ottenuta l’autorizzazione da parte delle Autorità di vigilanza e individuata la legislazione estera ai fini regolamentari per la maggior parte del periodo d’imposta (33), il fondo d’investimento non sarà considerato soggetto fiscalmente residente in Italia, venendo meno il criterio di collegamento con il territorio dello Stato (34).

6. La disciplina dell’exit tax in caso di trasferimento di residenza

La ridomiciliazione all’estero del fondo d’investimento deve essere analizzata anche alla luce delle disposizioni in tema di exit tax di cui all’art. 166 del TUIR (35). Trattasi di una norma di “chiusura”, posta a garanzia della coerenza e della simmetria dell’ordinamento, a mente della quale «il trasferimento all’estero della residenza dei soggetti che esercitano imprese commerciali che comporti la perdita della residenza in Italia ai fini delle imposte sui redditi, costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale, salvo che gli stessi non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato» (36).
L’assoggettamento a tassazione dei plusvalori latenti dell’azienda opera, infatti, nel momento in cui viene a cessare, con il trasferimento all’estero della residenza, la potestà impositiva dello Stato e, pertanto, deve trovare completamento, dal punto di vista dell’ordinamento interno, il ciclo impositivo dei beni già asserviti al regime d’impresa (37). Sotto il profilo soggettivo la normativa prevede la tassazione in uscita non solo per le società di capitali e gli enti commerciali, ma anche per le persone fisiche, le società di persone, gli enti pubblici e i trust che esercitano imprese commerciali (38).
In tale prospettiva i fondi immobiliari – giusta l’inclusione all’art. 73, primo comma, lett. c), del TUIR (39) – figurano tra i soggetti passivi IRES che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale (40). E ciò in conformità alla definizione di organismo di investimento collettivo del risparmio elaborata dall’European Securities and Markets Authority (c.d. “ESMA”) ai fini delle Direttive e dei regolamenti europei, secondo cui tali soggetti non hanno uno scopo commerciale o industriale generale, vale a dire «il perseguimento di una strategia imprenditoriale caratterizzata da elementi quali lo svolgimento in modo prevalente di (i) un’attività commerciale, che comprenda l’acquisto, la vendita e/o lo scambio di beni e merci e/o la fornitura di servizi non finanziari; ovvero (ii) un’attività industriale, che comprenda la produzione di beni o la costruzione di proprietà; (iii) oppure una combinazione delle due attività summenzionate» (41).
Ne deriva che i fondi immobiliari, poiché non esercitano attività commerciale (42), non sono soggetti ad alcuna imposizione in occasione del trasferimento all’estero della residenza (43).

Dott. Luca Vitale

(1) Il fondamento normativo è da rinvenire nelle disposizioni di cui all’art. 37, comma 2-bis, del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. “TUF”), e del Regolamento di Banca d’Italia del 19 gennaio 2015, Titolo V, Capitolo I, Sezione II, par. 4, Parte C, Modalità di Funzionamento, sub 4.1.1.
(2) La Direttiva 2009/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 luglio 2009 (UCITS IV) assicura il riconoscimento in tutta l’Unione europea delle autorizzazioni e dei sistemi di vigilanza prudenziale di ciascun Stato membro. Ciò significa che, per istituire e gestire un OICVM armonizzato in uno Stato membro è sufficiente il rilascio dell’autorizzazione e l’esercizio della vigilanza da parte del solo Stato membro di origine della SGR (c.d. “home country control”). La normativa comunitaria rileva che «un coordinamento delle legislazioni nazionali che disciplinano gli organismi d’investimento collettivo appare opportuno, per ravvicinare le condizioni di concorrenza tra questi organismi a livello comunitario, garantendo nel contempo una tutela più efficace e più uniforme dei detentori di quote. Un simile coordinamento agevola l’abolizione delle restrizioni alla libera circolazione di quote di OICVM nella Comunità». In merito a questi obiettivi «è auspicabile prevedere norme minime comuni per quanto riguarda l’autorizzazione, la vigilanza, la struttura e l’attività degli OICVM stabiliti negli Stati membri, nonché le informazioni che sono tenuti a pubblicare». La creazione del passaporto europeo per i gestori offre l’opportunità di accrescere il numero di investitori potenzialmente destinatari di un’offerta, residenti in uno o più Stati membri, diversi da quello “di origine”, presso il quale è stata ottenuta l’autorizzazione alla prestazione del servizio. Tale opportunità rappresenta un incentivo ad accrescere la concorrenza interna al settore su base europea, realizzando un livellamento del campo da gioco e stimolando la qualità dell’offerta e una pressione al ribasso delle commissioni applicate alla clientela.
(3) Come rilevano A. IMMACOLATO – F. MORETTI, La tassazione degli OICVM di diritto italiano dopo la direttiva UCITIS IV, in Corr. trib., 2013, 2231, «prima dell’attuazione della direttiva UCITS IV, una SGR stabilita in uno Stato membro dell’Unione europea non poteva istituire e gestire un OICVM in uno Stato membro diverso da quello di origine. Le SGR, infatti, potevano prestare all’estero (con o senza stabilimento di una succursale) solo servizi di investimento e attività diverse dal servizio di gestione collettiva del risparmio». Secondo E. MIGNARRI, Modifiche al regime dei fondi comuni mobiliari italiani ed esteri, in il fisco, 2012, 4234, «mediante il passaporto del gestore gli OICVM autorizzati in uno Stato membro possono essere gestiti da una società di gestione insediata in un altro Stato membro e da questo autorizzata nel rispetto dei requisiti richiesti nella direttiva. In tal caso, le società di gestione vengono assoggettate alla vigilanza prudenziale nel proprio Stato membro di origine. Pertanto, per esercitare la propria attività un OICVM deve essere autorizzato, conformemente alla direttiva, nel suo Stato membro di origine. Tale autorizzazione è valida in tutti gli Stati membri. L’impostazione adottata nella direttiva e nella normativa comunitaria attuativa mira in tal modo ad assicurare l’armonizzazione necessaria ad assicurare il riconoscimento reciproco delle autorizzazioni e dei sistemi di vigilanza prudenziale degli Stati membri, rendendo possibile il rilascio di un’unica autorizzazione valida in tutta la comunità e l’applicazione del principio di vigilanza da parte dello Stato membro d’origine».
(4) Le disposizioni riguardanti il passaporto del gestore sono state estese anche ai gestori dei fondi immobiliari per effetto della Direttiva 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2011 sui gestori di fondi di investimento alternativi (la c.d. “Direttiva AIFMD”). La Direttiva AIFMD si applica ai gestori di fondi di investimento che gestiscono e/o commercializzano fondi di investimento alternativi (“FIA”), ossia fondi di investimento diversi dai fondi UCITS, nell’Unione europea fissando regole comuni in materia di autorizzazione, funzionamento e trasparenza. I gestori di fondi immobiliari, di fondi di private equity, di fondi di venture capital, di fondi infrastrutturali e di fondi speculativi rientrano tra i soggetti a cui si applicano le previsioni della Direttiva AIFM. Per “FIA” si intendono tutti quei tipi di fondi che raccolgono capitale da una pluralità di investitori allo scopo di investirlo a vantaggio di tali investitori e in autonomia dai medesimi, in base a una determinata politica d’investimento, ma che non necessitano di un’autorizzazione ai sensi dell’art. 5 della citata Direttiva 2009/65/CE del 13 luglio 2009 (UCITS IV). Pertanto, si tratta dei fondi diversi dagli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) ricompresi in quest’ultima Direttiva. La scelta di adottare una disciplina sui gestori e non sui fondi discende dalla difficoltà di armonizzare una così grande varietà di tipologie di FIA qual è quella presente in Europa.
(5) Sulle origini dell’istituto di gestione collettiva del risparmio da parte di soggetti specificamente dotati di poteri gestori e sul collegamento con le figure del trust e della fiducia romanistica, T. ASCARELLI, Investment trust, in Banca borsa tit. cred., 1951, I, 178 ss.; R. COSTI, La struttura dei fondi comuni d’investimento nell’ordinamento giuridico italiano e nello schema di riforma delle società commerciali, in Riv. soc., 1968, 299 ss.; G. COTTINO, Diritto commerciale, 2, I, Padova, 1992, 153, che definisce la società di gestione “fiduciaria ex lege”; A. NIGRO, voce Investment trust, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 691; G.P. SAVI, voce Società finanziaria (“Holding”) e società d’investimento (“Investment trust”), in Nov. dig. it., XVII, Torino, 1970, 718 ss.; e P. SPADA, Persona giuridica e articolazione del patrimonio, in Riv. dir. civ., 2002, 837.
(6) Il primo orientamento dottrinale, sul presupposto che la proprietà del fondo spetterebbe non alla società che ne ha l’amministrazione, bensì, pro quota, ai singoli sottoscrittori, ha ricondotto l’istituto in esame a quello della comunione a scopo di godimento di cui all’art. 2248 c.c. Sul punto si richiamano T. ASCARELLI, op. cit., 178 ss.; L. BIGLIAZZI GERI, voce Patrimonio autonomo e separato, in Enc. dir., 1982, 280; R. CORRADO, L’investment trust nell’ordinamento italiano, in Studi in onore di P. Greco, Padova, 1965, 143; L. SALAMONE, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, 29; F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, 85; e G. VISENTINI, Riflessioni in tema di fondi comuni d’investimento con riferimento al disegno di legge governativo, in Riv. soc., 1969, 1194.
(7) Il secondo approccio interpretativo, sul presupposto che la titolarità dei beni del fondo sia da attribuire alla società di gestione, ha qualificato il fondo come un patrimonio “separato” della società di gestione “destinato” all’attività di investimento prevista nel regolamento per l’esclusivo soddisfacimento dell’interesse unitario dei partecipanti al fondo. Si vedano P.G. JAEGER, Sui fondi comuni di investimento, in Riv. soc., 1969, 1142; F. ASCARELLI, I fondi comuni di investimento, in P. RESCIGNO (a cura di), Trattato di diritto privato, 2, 1985, 741; S. BARTOLI, Trust e fondi comuni di investimento nella cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, in Trust, 2005, 47; F. BRIOLINI, Art. 36 del D.Lgs. n. 58 del 1998, in G. CAMPOBASSO (a cura di), Testo Unico della Finanza, 2002, 331; A. LENER, Sub art. 3 della legge n. 77 del 1983, in Nuove leggi civili commentate, 1984, 399; E. TONELLI, Le società di gestione del risparmio, in A. PATRONI GRIFFI – M. SANDULLI – v. SANTORO (a cura di), Intermediari finanziari, mercati e società quotate, 1999, 26; e M. LUPOI, Trusts, Milano, 2001, 687 ss.
(8) La tesi in parola è stata avallata anche dal parere del Consiglio di Stato n. 108/1999 che, facendo riferimento ai fondi comuni di investimento immobiliari istituiti a norma della legge 23 dicembre 1996, n. 662, per la dismissione del patrimonio statale, aveva ritenuto che la legge «pur non prevedendo l’attribuzione in maniera esplicita dei fondi … riconosce a tale istituenda attività il grado massimo di autonomia patrimoniale, come di norma riconosciuto soltanto ad organismi dotati di una propria specifica soggettività» e dunque «la titolarità dei beni facenti parte dei fondi dovrebbe essere correttamente riferita agli stessi fondi, quali centri autonomi di imputazione di interessi». Tale impostazione è stata declinata da taluno prospettando un’assimilazione del soggetto fondo alla fondazione non riconosciuta e da altri all’associazione atipica. Secondo R. COSTI, op. cit., 276, il fondo rappresenterebbe una “istituzione a carattere fondazionale”, con ciò spiegandosi l’esclusione dei partecipanti sulla gestione che, in quanto squisitamente tecnica è demandata ad un’apposita struttura insensibile alle indicazioni dei partecipanti il fondo. Si richiama inoltre A. NIGRO, I fondi comuni di investimento mobiliare: struttura e natura giuridica, in Riv. trim. proc. civ., 1969, 1522 ss.
(9) Sullo sfondo di tali approcci interpretativi si staglia un rilevante pronunciamento della Suprema Corte, quale quello reso da Cass., sez. I, 15 luglio 2010, n. 16605, in Mass. foro it., 2010, 776, che ha individuato nella tecnica della separazione patrimoniale quella propriamente rispondente alla preoccupazione preminente del legislatore, ossia l’esigenza di tutelare gli investitori precludendo azioni da parte di terzi sui beni del fondo, così aderendo alla seconda tesi dottrinale che ravvisa nel fondo un “patrimonio separato” della società di gestione. Il fondo quale patrimonio separato rappresenta, ad avviso della Corte di legittimità, la ricostruzione maggiormente rispondente alla definizione normativa di fondo in termini di “patrimonio autonomo” offerta dall’art. 1, primo comma, lett. j), del TUF, in uno con la previsione legislativa che preclude ai creditori della società di gestione di aggredire il patrimonio del fondo di cui all’art. 36, sesto comma, del TUF. Per un commento alla sentenza si rinvia ad A. LAMORGESE, I fondi comuni di investimento non hanno soggettività giuridica autonoma, in I contratti, 2011, 31 ss.; L. BOGGIO, Fondi comuni di investimento: oggetto o soggetto di diritto?, in Le Società, 2011, 46 ss.; F.R. FANTETTI, Separazione e titolarità del patrimonio nei fondi comuni di investimento, in La resp. civ., 2011, 124 ss.; e S. PELLEGATTA, Fondi comuni di investimento e acquisti di immobili: la Cassazione propende per l’intestazione alla società di gestione del risparmio, in Foro it., 2011, 1858 ss.
(10) Si ricorda che, ai sensi dell’art. 1, primo comma, lett. m), del D.Lgs. n. 58/1998, gli organismi di investimento collettivo del risparmio (i.e. gli “OICR”) sono i fondi comuni di investimento e le SICAV.
(11) Condivisibile, a riguardo, l’osservazione di A. GIOVANNINI, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 77, secondo cui «se ben si riflette, non si tratta di un vero e proprio “nuovo” soggetto passivo. Più semplicemente, prima del D.L. n. 1/2012, gli OICR residenti erano soggetti passivi dell’imposta sostitutiva, che si applicava, appunto, nei loro confronti, mentre oggi essi sono a tutti gli effetti soggetti passivi dell’IRES, anche se i redditi da loro prodotti sono esenti e tassati in capo ai sottoscrittori come redditi personali».
(12) Prima della modifica normativa, la questione circa l’applicabilità ai fondi d’investimento delle Convenzioni internazionali era stata risolta in via di prassi, essendosi l’Amministrazione finanziaria espressa in termini positivi e dando seguito a tale impostazione su un piano strettamente operativo con il rilascio dei certificati di residenza al fine dell’applicazione dei Trattati. Sul punto si richiamano la circ. 20 marzo 2001, n. 29/E, in Boll. Trib., 2001, 500; e la ris. 23 aprile 2003, n. 92/E, in Boll. Trib. On-line, in materia di fondi pensione. Nello stesso senso si era espressa anche Assogestioni nella circ. 24 gennaio 1995, prot. 165/95/G; e nella circ. 18 dicembre 2000, prot. 2855/00/C.
(13) Ne consegue, come precisato dalla stessa Agenzia delle entrate nella circ. 28 marzo 2012, n. 11/E, in Boll. Trib., 2012, 509, che «gli Uffici finanziari sono tenuti a rilasciare – su richiesta della società di gestione del risparmio (SGR) – i certificati di residenza per l’applicazione delle Convenzioni relativamente agli OICR istituiti in Italia». Tuttavia, considerato che le Convenzioni contro le doppie imposizioni sono generalmente applicate a condizioni di reciprocità, le Autorità estere potrebbero subordinare l’applicazione del trattamento convenzionale agli OICR istituiti in Italia al riconoscimento dello stesso trattamento ai propri organismi di investimento.
(14) Come evidenziato da A. BALLANCIN, Riflessioni sull’acquisita soggettività tributaria degli OICR, in Dir. prat. trib. intern., 2013, 707, «l’OCSE, nel contesto della raccomandazione sugli organismi di investimento collettivo (i.e. il report denominato “The Granting of Treaty Benefits with respect to the Income of Collective Investiment Vehicles” adottato dal Comitato Affari Fiscali il 23 aprile 2010) e nelle conseguenti modifiche introdotte al Commentario all’articolo 1, ha specificato che l’eventuale applicazione delle Convenzioni bilaterali a veicoli di investimento collettivi muove anzitutto dalla forma giuridica adottata in sede di istituzione, avendo di poi premura di evidenziare che, nella necessità di fornire un’interpretazione estensiva al termine “person” di cui all’art. 1 del Modello OCSE attesa la molteplicità delle impostazioni accolte nei vari Paesi, il requisito soggettivo in esame risulta integrato qualora l’organismo si qualifichi quale soggetto passivo d’imposta secondo la legislazione dello Stato di istituzione. Tuttavia, ai fini del Trattato, alcuni Stati considerano che un soggetto possa essere considerato liable to tax anche qualora lo Stato di istituzione, nell’esercizio della propria potestà impositiva, rinunci ad applicare l’imposta che sarebbe altrimenti dovuta. In tal caso la qualità di residente ai fini convenzionali è riconosciuta solo a condizione che tale esenzione sia applicata esclusivamente al ricorrere di specifici requisiti sufficientemente stringenti previsti dall’ordinamento interno e che, nel caso in cui tali requisiti non sussistano, ricorra l’imposizione ordinaria». Tale impostazione era stata avvallata anche dall’Amministrazione finanziaria nella ris. 21 aprile 2008, n. 167/E, in Boll. Trib. On-line, in relazione alla fattispecie dei fondi pensione. Per un commento del testo di prassi si confrontino G. CORASANITI, L’Amministrazione finanziaria italiana riconosce l’applicabilità delle Convenzioni contro le doppie imposizioni anche ai fondi pensione, in Dir. prat. trib. intern., 2008, 936-938; e A. TOMASSINI, Alcuni recenti sviluppi interpretativi sulla nozione di beneficiario effettivo e di residenza ai fini convenzionali, in Rass. trib., 2008, 1383 ss.
(15) Ad avviso di E BELLI CONTARINI, Fondi comuni di investimento mobiliari nazionali, società di investimento a capitale variabile (Sicav) e soggettività tributaria, in Riv. dir. trib., 1994, I, 1121 ss., «il fondo, nonostante la rimborsabilità ad libitum delle quote riconosciuta ai singoli partecipanti, è pur sempre dotato di autonomia patrimoniale (cfr. art. 3, secondo comma, legge n. 77/1983); lo stesso è munito, altresì, di autonomia gestionale, ovverosia decisionale, sebbene gli organi che pongono in essere gli atti a lui (al fondo) riferibili siano gli stessi della società di gestione; circostanze queste, che, entrambe, inducono a ritenere che il fondo sia elevato a centro autonomo di imputazione giuridica; il fondo sarebbe in grado quindi di adempiere al dovere di contribuzione, e ben potrebbe soggiacere agli effetti reattivi predisposti dall’ordinamento per l’eventualità dell’inadempimento, in quanto dallo stesso patrimonio dovrebbero prelevarsi le sanzioni irrogate dalla finanza». Ad avviso di G. FALSITTA, Lineamenti del regime fiscale dei fondi comuni di investimento mobiliare aperti, in Rass. trib., 1984, 1, «i fondi si configurano come dei patrimoni separati e personificati, destinati in via esclusiva all’esercizio di attività commerciali, in quanto tali ricadenti puntualmente nell’ampia previsione contenuta nella lettera b) dell’art. 2 del D.P.R. n. 598/1973; tant’è che può affermarsi che, nell’assenza di una espressa presa di posizione a questo riguardo, in sede di elaborazione della normativa, in un sistema quale quello italiano, sarebbe fuori discussione l’applicabilità, ai fondi, della disciplina prevista dall’art. 2 del decreto IRPEG». Si vedano infine A. AMATUCCI, Il regime tributario dei fondi comuni di investimento mobiliare, in Boll. Trib., 1984, 421; e F. BOSELLO, Aspetti fiscali dei fondi comuni di investimento, in Dir. prat. trib., 1984, 73.
(16) Secondo A. BALLANCIN, op. cit., 707 ss., «l’evoluzione della disciplina interna si presenta quale epilogo di un percorso di convergenza della normativa interna alle indicazioni emerse in ambito OCSE. Il che si è tradotto in un’estensione dell’area della soggettività tributaria a organismi che, per contro, non sono colti dall’ordinamento primario quale autonomo centro di imputazione di rapporti giuridici. E ciò, prima facie, in apparente deroga al consolidato principio della sostanziale coincidenza tra soggettività tributaria e quella di diritto comune».
(17) In tal senso, si segnala la posizione di R. SCHIAVOLIN, Il collegamento soggettivo, in F. MOSCHETTI (a cura di), La capacità contributiva, Padova, 1993, che lascia aperta la possibilità alla legge fiscale di attribuire la soggettività passiva a entità non riconosciute come “soggetti” di diritto civile se ravvisa in tali entità una specifica capacità contributiva, derivante dal “potere di fatto” su certe manifestazioni di ricchezza. Sempre nel senso del ruolo secondario dell’imputazione soggettiva rispetto agli elementi oggettivi della fattispecie, si confronti L. FERLAZZO NATOLI, Riflessioni in tema di capacità giuridica tributaria, in Riv. dir. trib., 1998, I, 10, il quale ritiene la capacità tributaria, intesa quale «attitudine ad essere titolari di rapporti giuridici tributari, come tale qualità del soggetto tributario (persona o ente), in quanto esso pone in essere il presupposto di fatto previsto dalla legge come condizione legittimante del (o causa del) tributo», indissolubilmente connessa alla sussistenza di capacità contributiva, che «costituisce il presupposto fondamentale per il sorgere di capacità tributaria».
(18) Tale riflessione è attribuibile ad A.D. GIANNINI, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1972, 109, per il quale «la capacità giuridica tributaria nel nostro ordinamento, come in quello di altri Stati, non coincide con la capacità giuridica del diritto privato (o di altri rami del diritto), e ciò nel senso che, mentre tutte le persone fisiche e collettive, giuridicamente capaci secondo il diritto privato, sono, senz’altro, tali anche per il diritto tributario, quest’ultimo, invece, attribuisce la capacità di essere soggetti passivi di imposta anche ad unioni di persone o a complessi di beni sforniti, secondo il diritto privato, di capacità giuridica”. In particolare secondo detto Autore la configurabilità di una soggettività tributaria svincolata dai canoni di diritto comune – che, vale ricordare, all’epoca riferiva la capacità giuridica alle sole persone fisiche e giuridiche – discendeva dai peculiari scopi della normativa fiscale volta a garantire l’imposizione di qualsivoglia situazione economica espressiva di capacità contributiva e la centralità dalla stessa accordata al presupposto oggettivo rispetto a quello soggettivo». Anche G. INGROSSO, Istituzioni di diritto finanziario, II, Le entrate dello Stato, imposte e tasse, entrate patrimoniali, Napoli, 1937, 17, teorizzava una possibile divergenza tra l’area dei soggetti di diritto civile e quella dei soggetti di diritto tributario, in quanto l’idoneità ad essere soggetti di rapporti di diritto tributario risultava essere «più lata della capacità giuridica generale».
(19) In tema di soggettività passiva IRES, circ. 15 febbraio 2012, n. 2/E, in Boll. Trib., 2012, 273, precisa che, qualora un fondo (mobiliare o immobiliare) non possieda i requisiti previsti dall’art. 1, lett. j), del TUF (i.e. pluralità dei partecipanti e autonomia della SGR), allo stesso non si applicherà la disciplina fiscale prevista dall’art. 73, comma 5-quinquies, del TUIR, ovvero dal D.L. n. 351/2001, mentre si applicheranno le disposizioni ordinarie in materia di IRES.
(20) Cfr. Regolamento di Banca d’Italia 19 gennaio 2015, Titolo V, Capitolo I, Sezione II, par. 4, Parte C, Modalità di Funzionamento, sub 4.1.1.
(21) In tale ottica, la SGR subentrante accetta solo di divenire titolare dell’ampio potere di gestione che la legge e il regolamento del fondo le attribuiscono, potere da esercitare su un patrimonio che è, e rimane, altrui. Inoltre, la mancata manifestazione di un evento realizzativo si riscontra anche nel regime di continuità giuridica dei soggetti investitori, i quali non intendono trasferire le quote del fondo in occasione della sostituzione della società di gestione, mantenendo inalterati i propri diritti partecipativi (i.e. non vi sarà annullamento e sostituzione delle quote del fondo). Nel medesimo senso si esprime anche il Notariato nella studio n. 90/2012 denominato Fondi comuni immobiliari, SGR e trascrizione, secondo cui «il mero mutamento della SGR, gestore o promotore, non può essere ritenuto fenomeno idoneo a produrre effetti traslativi (né è ritenuto tale dal legislatore); di conseguenza risulta incongruente affermare che la proprietà dei fondi sarebbe in capo alla SGR, ove una modificazione del soggetto apparentemente proprietario non sia fenomeno idoneo a determinare un mutamento di titolarità».
(22) Ad avviso di P. ANELLO – L. ORLANDO, Esclusa la soggettività giuridica dei fondi comuni di investimento?, in Corr. trib., 2016, 1023, «non sono richieste forme particolari per l’adozione del cambiamento di SGR, che potrebbe risultare anche da una mera scrittura privata non suscettibile, di per sé, di pubblicità (e per le quali dunque l’autonomia privata dovrebbe adoperarsi per individuare possibili forme di pubblicità). Qualora si identificasse nella sostituzione della SGR un fenomeno idoneo a produrre effetti traslativi dei beni del fondo, d’altra parte, si determinerebbe un impatto notevole, anche dal punto di vista fiscale, soprattutto per i fondi immobiliari titolari di rilevanti “pacchetti” di immobili. È di tutta evidenza come ciò contrasti con lo spirito delle norme che è appunto quello di permettere un mero avvicendamento nella gestione».
(23) In tal senso anche M. DE PAOLI – A.M. SCHIRRU – G. TONINI, La vexata quaestio della soggettività dei Fondi comuni di investimento immobiliare: evoluzione giurisprudenziale e riflessi operativi, in Federnotizie, n. 4/2014, secondo cui un’interpretazione contraria – volta a considerare l’operazione in oggetto come un evento realizzativo – «rischierebbe in tal modo di ingessare il mercato e limitare fortemente il fenomeno della sostituzione (in contrasto con lo spirito della legge e con il ruolo assolto dalla SGR di garante della corretta amministrazione del fondo nell’interesse dei partecipanti), imponendo un’indebita restrizione alla concorrenza nel mercato nazionale dei fondi immobiliari e, quindi, una restrizione competitiva a carico delle SGR nazionali o che comunque gestiscano fondi con immobili situati nel territorio nazionale».
(24) Cfr., ex multis, Trib. Milano, sez. VIII, 2 aprile 2011, ord. n. 73921, e Trib. Milano, sez. VIII, 30 maggio 2012, ord. n. 23918, entrambe in Boll. Trib. On-line.
(25) Le medesime conclusioni valgono, mutatis mutandis, anche ai fini delle imposte indirette.
(26) Tale conclusione è conforme all’interpretazione della circ. 10 luglio 2014, n. 21/E, in Boll. Trib., 2014, 1090. In proposito, si sottolinea che tale orientamento risulta allineato – rilevano L. ROSSI – A. PRIVITERA, La residenza fiscale degli organismi di investimento collettivo, in il fisco, 2015, 2340 – «con quanto espresso dalla Commissione europea nel documento Impact assessment of the legislative proposal amending the UCITS Directive che accompagnava la proposta di direttiva in materia di OICVM del 2008, ove la medesima Commissione aveva, tra l’altro, rilevato che l’implementazione della disciplina del passaporto del gestore avrebbe potuto indurre le autorità fiscali dello Stato membro di origine della SGR a rivendicare la loro giurisdizione anche relativamente ai redditi e ai proventi degli OICVM stabiliti in un altro Stato membro, con la conseguenza che tali redditi e proventi sarebbero stati potenzialmente soggetti a tassazione sia nello Stato membro di origine dell’OICVM sia nello Stato membro di origine della SGR. A quest’ultimo riguardo, la Commissione aveva, tuttavia, sostenuto che sarebbe spettato alle autorità fiscali di tutti gli Stati membri allineare il loro orientamento al nuovo approccio seguito in ambito regolamentare e che, nel caso in cui le medesime autorità fiscali non avessero proceduto in tal senso, avrebbero privato l’industria del risparmio gestito di cogliere le opportunità offerte dall’implementazione del passaporto del gestore».
(27) Per creare un mercato effettivamente integrato e concorrenziale all’interno dell’Unione europea dei fondi alternativi, la Direttiva AIFM ha introdotto norme volte a favorire la prestazione transfrontaliera dei servizi di gestione collettiva di FIA e la distribuzione cross-border dei FIA. A tal fine essa ha istituito: (i) il “passaporto europeo” del gestore di fondi alternativi, in base al quale i gestori possono gestire FIA in Paesi diversi dal proprio; ii) un regime semplificato di commercializzazione dei FIA, basato sullo scambio di notifiche tra le Autorità dei paesi home e host.
(28) Un coordinamento delle legislazioni nazionali che disciplinano gli organismi d’investimento collettivo appare opportuno, per ravvicinare le condizioni di concorrenza tra questi organismi a livello comunitario, garantendo nel contempo una tutela più efficace e più uniforme dei detentori di quote. Un simile coordinamento agevola l’abolizione delle restrizioni alla libera circolazione di quote di OICVM e FIA all’interno dell’Unione europea.
(29) In particolare, per istituire e gestire un fondo d’investimento in uno Stato membro è ora sufficiente il rilascio dell’autorizzazione e l’esercizio della vigilanza da parte del solo Stato membro di origine del gestore. E ciò senza ripercussioni in ambito tributario in grado di alterare il funzionamento del mercato europeo.
(30) Come ricordato anche dall’Amministrazione finanziaria nella circ. n. 21/E/2014, cit., «è principio generale che qualora la sede dell’amministrazione di una società sia all’estero in quanto ivi sono stabiliti gli uffici e prestano la propria opera dipendenti e collaboratori e sono assunte le decisioni riguardanti l’organizzazione ed il funzionamento della società (riunioni e deliberazioni del consiglio di amministrazione, decisioni della direzione generale, ecc.), la residenza fiscale della società o ente, ai sensi dell’art. 73, comma 3, del TUIR, non può che essere stabilita al di fuori del territorio dello Stato. Naturalmente, nel caso in cui risulti, invece, che una società di gestione estera operi nel territorio dello Stato avvalendosi di una stabile organizzazione, la ritenuta sui redditi derivanti dalla partecipazione a OICR dalla stessa istituiti in Italia deve essere applicata dalla stabile ivi situata».
(31) Interessante la tesi di L. ROSSI – A. PRIVITERA, op. cit., 2340, secondo cui «nell’ipotesi in cui un gestore (SGR/GEFIA) comunitario, residente ai fini fiscali in uno Stato membro diverso dall’Italia, conformemente alla disciplina regolamentare comunitaria attualmente in vigore, (i) localizzi in tale Stato membro sia la sua sede statutaria sia la sua amministrazione centrale e (ii) deleghi lo svolgimento di una parte delle sue funzioni ad un soggetto terzo fiscalmente residente in Italia (per il tramite di una delega transfrontaliera), si dovrebbe poter sostenere che, pur non dovendo essere possibile per l’Amministrazione finanziaria italiana contestare l’esterovestizione del gestore (SGR/GEFIA) comunitario delegante (agendo, quest’ultimo, in aderenza alle disposizioni regolamentari attualmente in vigore), ove l’Amministrazione finanziaria italiana, in ragione dell’ampiezza e della complessità dei servizi prestati dal soggetto italiano in favore del gestore (SGR/GEFIA) comunitario, ritenesse che la quest’ultimo sia un soggetto “esterovestito” e, pertanto, residente ai fini fiscali in Italia, tale esterovestizione, ove fattualmente dimostrata, dovrebbe comportare conseguenze tributarie unicamente in capo al medesimo gestore (SGR/GEFIA) comunitario (eventualmente tenuto ad adempiere in Italia agli obblighi tributari per i propri redditi), senza coinvolgere, in alcun modo, anche l’OICVM/FIA estero, che, invece, dovrebbe essere considerato legittimamente residente, anche ai fini fiscali, all’estero, in quanto “stabilito” (i.e. istituito) nello Stato membro in cui è stato autorizzato (i.e. istituito) dalle locali autorità competenti».
(32) Come ricordato dall’Agenzia delle entrate nella circ. n. 21/E/2014, cit., ai fini dell’individuazione dello Stato di residenza occorre quindi fare riferimento non allo Stato in cui è situata la sede legale della società di gestione che ha istituito l’organismo, ma a quello ove lo stesso è stato istituito.
(33) Invero l’art. 73, terzo comma, secondo periodo, del TUIR, non menziona alcun vincolo temporale ai fini della residenza in Italia degli organismi di investimento collettivo, come avviene ad esempio nel periodo precedente in relazione a società e enti, che «per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato». Tuttavia, poiché il periodo d’imposta costituisce un orizzonte temporale unitario – giusta l’applicazione dell’art. 76, secondo comma, che ne preclude il frazionamento in più periodi – si ritiene che il requisito della «maggior parte del periodo d’imposta» debba applicarsi anche alla disposizione in esame. Ciò risulta, tra l’altro, in linea con l’interpretazione resa dall’Amministrazione finanziaria nella ris. 17 gennaio 2006, n. 9/E, in Boll. Trib., 2006, 681, ove è stata affermata l’unitarietà del periodo d’imposta nei casi di trasferimento di sede sociale in regime di continuità giuridica dell’ente non residente. In tal senso, si registra anche la pronuncia resa dalla Comm. trib. reg. del Veneto, sez. VI, 29 maggio 2008, n. 17, in Boll. Trib. On-line, secondo cui il principio di continuità giuridica postula che «nei trasferimenti di sede di società estere in Italia il periodo d’imposta (costituito dall’esercizio sociale) non si interrompe e l’attribuzione della residenza fiscale avviene ex articolo 73, comma 3, del TUIR ossia in base alle ordinarie regole (sede nel territorio della maggioranza del periodo d’imposta) ed ha effetto per tutto il periodo d’imposta».
(34) L’elemento temporale suindicato è richiesto al fine di individuare il presupposto di un’obbligazione di periodo ed è perciò necessario accertare per quanta parte del periodo il fondo risulti autorizzato ad operare all’estero dall’Autorità di vigilanza di riferimento. Poiché il periodo d’imposta costituisce un orizzonte temporale unitario – giusta l’applicazione dell’art. 76, secondo comma, che ne preclude il frazionamento in più periodi – la soggezione alla normativa estera da parte del fondo immobiliare nei primi 183 giorni dell’anno, comporterà la perdita della residenza in Italia fin dall’inizio del periodo di imposta e, di conseguenza, la rilevanza fiscale per l’ordinamento estero degli accadimenti di gestione intervenuti a partire da tale momento.
(35) La ratio sottesa all’introduzione di una tale previsione consiste nel fatto che il momento in cui si perde la residenza fiscale costituisce l’ultimo momento utile per assoggettare ad imposizione i redditi fino ad allora maturati nel territorio dello Stato. Al fine di evitare la perdita di base imponibile che deriva dalla perdita dello status di residente fiscale, pertanto, molti ordinamenti nazionali hanno previsto un’imposizione sui plusvalori maturati fino al momento del trasferimento, sortendo il duplice effetto di garantire l’esercizio della propria pretesa e di ripartire, in forza del quando della maturazione del reddito, la potestà impositiva fra gli Stati interessati.
(36) In ordine al trasferimento di residenza all’estero, l’art. 1, terzo comma, del D.M. 2 luglio 2014, individua, come data rilevante per la valorizzazione delle attività che si considerano realizzate ai sensi dell’art. 166 del TUIR, «la fine dell’ultimo periodo di imposta di residenza in Italia». La normativa non è di semplificazione, non avendo introdotto alcuna previsione di frazionamento del periodo di imposta per effetto del trasferimento di sede all’estero o dall’estero (c.d. split year). Sul tema, tra gli altri, cfr. R. MICHELUTTI – A. PRAMPOLINI, Oggetto, presupposto e momento impositivo della “exit tax”, in Corr. trib., 2013, 3559; circ. Assonime 20 febbraio 2014, n. 5; R. MICHELUTTI, Exit tax con il buco per il fisco, in Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2014; S. MAYR, Il trasferimento della sede (residenza) delle imprese commerciali dall’estero in Italia: alcune considerazioni, in Boll. Trib., 2016, 254; I. SANTI, Exit taxes: esperienze comparate nel panorama europeo, ibidem, 981; e L. VITALE, Trasferimento di residenza inbound: la valorizzazione dei titoli quotati in entrata e l’accreditamento dell’exit tax assolta all’estero, ibidem, 1001.
(37) Trattasi di un’ipotesi di “realizzo assimilato”, pur in assenza di corrispettivo. In sostanza l’exit tax integra le altre ipotesi, fiscalmente rilevanti, di estromissione di beni dal complesso aziendale, a seguito di dismissione, autoconsumo, assegnazione ai soci, destinazione a finalità estranee o liquidazione dell’impresa, nonché le ipotesi di trasformazione da società di capitali in altro soggetto non commerciale, che parimenti comportano l’imponibilità dei maggiori valori dei beni presso l’ente trasformato in soggetto non svolgente attività d’impresa. Ai fini tributari, tale operazione realizza quindi una fictio iuris per cui viene effettuato un prelievo su una plusvalenza maturata alla data del trasferimento di residenza, senza che la società trasferita abbia effettivamente ceduto i propri beni, permettendo in tal modo di ancorare il plusvalore latente, afferente il compendio trasferito, all’ordinamento nella cui giurisdizione fiscale è maturato.
(38) Ed è a questi medesimi soggetti, pertanto, che si rende applicabile la disposizione in esame, rimanendo invece esclusi dal perimetro della norma tutti i soggetti che non esercitano un’attività commerciale ai sensi dell’art. 55 del TUIR. Secondo circ. Assonime n. 5/2014, cit., per le società di persone appare logico che la plusvalenza da exit tax vada determinata in capo alla società stessa, ma che l’eventuale regime di differimento, di seguito descritto, riguardi i soci (soggetti in capo ai quali grava effettivamente l’imposta, sia pure in modo differito). Tale impostazione ha trovato accoglimento nei modelli di dichiarazione Unico 2014.
(39) Come rilevato da M. PIAZZA – G. BARBAGELATA, La leva fiscale per i fondi immobiliari, in Corr. trib., 2012, 893 ss., «atteso peraltro che la sussunzione dei “fondi di investimento” tra gli enti di cui all’art. 73, lett. c), sembra valere solo per gli organismi che si qualificano come tali (e quindi in possesso dei requisiti civilistici), tale riqualificazione finirebbe per collocare i predetti organismi (qualora costituiti in forma non societaria) nell’ambito della disposizione di cui all’art. 73, secondo comma, del TUIR ovvero tra “le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti dei quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario ed autonomo”, senza specificare se le regole per la determinazione del reddito imponibile siano quelle applicabili agli enti commerciali o non commerciali (come sembra invece per i fondi dotati dei requisiti civilistici, salva la norma di esenzione ove, in alternativa, il fondo o il gestore sia soggetto a forme di vigilanza). Indirettamente la stessa circolare [i.e., n. 2/E/2012] in esame sembra peraltro riconoscere in senso generale la natura di “ente non commerciale” ai fondi di investimento. Invero, ai fini dell’applicazione della PEX in caso di cessione di quote “qualificate” da parte di investitori “non istituzionali”, la circolare precisa che non trova applicazione il regime di cui all’art. 87 del TUIR per difetto del requisito previsto dal comma 1, lett. d), del medesimo articolo (esercizio di impresa commerciale)».
(40) Ricorda G. FRANSONI, La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, 244, come al fine di stabilire la commercialità di un ente, occorre prendere le mosse dall’individuazione del suo oggetto. Con riferimento ai trust – ma la riflessione potrebbe valere, mutatis mutandis, anche per gli organismi d’investimento collettivo – l’Autore afferma che «se si escludono le ipotesi (invero, almeno nel nostro ordinamento, piuttosto rare) in cui al trustee è demandato il più complesso compito di realizzare direttamente, attraverso i beni costituiti in patrimonio separato, una modificazione degli assetti sociali, nella maggioranza dei casi il trust non è caratterizzato da uno scopo giuridicamente rilevante. … In questa prospettiva, si dovrebbe ritenere che i trust siano strutturalmente privi di “scopo” (eccezion fatta per quelli che sono appunto denominati di “scopo” per evidenziarne la peculiarità rispetto alla categoria generale) con la conseguenza che, mancando il termine di raffronto al fine di determinare quale attività, fra le molteplici eventualmente esercitate, costituisca l’oggetto principale, tutti i trust devono essere considerati naturaliter “non commerciali”». Sulla soggettività tributaria dei trust – in un’ottica di parallelismo con gli OICR – si segnala P. COPPOLA, La disciplina fiscale del trust in materia di imposte dirette, in Rass. trib., 2009, 656, secondo cui «va notato che il legislatore non ha “aggiunto” i trust alla generale categoria delle “altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi” di cui al comma 2 dell’art. 73 del TUIR, ma agli enti commerciali e non commerciali, di cui rispettivamente alle lett. b) e c) del comma 1 dell’art. 73 (usando infatti la congiunzione nonché); il che conferma, da un lato, che il criterio “dell’organizzazione” benché da molti utilizzato in passato per individuare la soggettività del trust, non può ritenersi sufficiente, risultando pacifico che l’organizzazione esiste anche laddove siano individuati i beneficiari che risultano, invece, espressamente indicati come soggetti passivi del tributo se titolari del diritto a conseguire i proventi del trust e dall’altro, che l’organizzazione tributaria ai sensi del citato comma 2 dell’art. 73 non si esaurisce in un mero patrimonio dotato di autonomia, ma necessita di persone, beni ed organi capaci di manifestare interessi rilevanti ai fini dell’attitudine al concorso alle spese pubbliche». Dello stesso avviso anche M. LUPOI, Imposte dirette e trust dopo la Legge finanziaria, in Trusts e attività fiduciarie, 2007, 5, secondo il quale la scelta del legislatore di classificare i trust fra gli enti commerciali e non commerciali ha fatto venire meno «il difficile percorso argomentativo che, muovendo dall’art. 73, comma 2, riscontrava nel trust una “organizzazione”, la sua non appartenenza ad altri soggetti passivi d’imposta e l’unicità e autonomia del verificarsi del presupposto d’imposta». Si veda anche A. DE NIGRIS – F. DI CESARE, La disciplina del trust ai fini delle imposte dirette alla luce della nuova chiave interpretativa dell’Amministrazione finanziaria, in Boll. Trib., 2011, 1757.
(41) Trattasi della definizione contenuta nel documento ESMA/2013/611 del 13 agosto 2013, recepita nel Regolamento di Banca d’Italia del 19 gennaio 2015, secondo il quale «il patrimonio dell’OICR non può essere utilizzato per perseguire una strategia di tipo imprenditoriale, sia essa commerciale o industriale ovvero una combinazione delle stesse». Banca d’Italia ha inoltre precisato – nel Resoconto della consultazione al Regolamento – che «per strategia imprenditoriale» si intende una finalità “industriale” – ossia, di produzione professionale di beni e servizi – o “commerciale” – ossia di intermediazione in via professionale nella circolazione di beni e servizi. Gli OICR hanno, invece, una diversa finalità: essi sono gestiti con il fine di generare un rendimento finanziario per gli investitori derivante dall’attività di acquisto, detenzione, ottimizzazione, vendita degli assets, coerente con una politica di investimento determinata. In altri termini, il servizio di gestione si connota principalmente per la finalità di valorizzare un dato patrimonio, perseguita mediante il compimento di una serie di atti unitariamente volti al conseguimento di un risultato utile dall’attività di investimento e disinvestimento dei beni in cui è investito il patrimonio.
(42) In relazione all’individuazione della ratio sottesa all’inclusione degli organismi d’investimento collettivo tra gli enti non commerciali, risulta interessante quanto affermato da G. SANDRELLI, Raccolta di capitali e attività di investimento. Note sulla nozione di «organismo di investimento collettivo del risparmio» a seguito dell’attuazione della direttiva sui fondi alternativi, in Riv. soc., 2015, 387 ss., il quale sottolinea «la differenza tra l’utile percepito dall’azionista di una società che svolge una comune attività di produzione di beni o servizi e il rendimento percepito dall’azionista di una “società di investimento” (entrambi gli azionisti, infatti, potrebbero, in termini generali, qualificarsi come “investitori”). Per il primo, l’utile è il frutto della propria partecipazione allo svolgimento di un’attività di impresa rivolta al mercato esterno; per il secondo, il rendimento è l’esito, in un’ottica puramente interna (in cui, cioè, gli azionisti sono anche i fruitori dei servizi prestati dalla società), della movimentazione di un patrimonio collettivamente affidato a una gestione professionale. La società compie i propri investimenti e disinvestimenti attraverso l’acquisto e la vendita di beni sul mercato, ma, a differenza di quanto avviene rispetto ad un’impresa industriale o commerciale, non è su tale mercato che la società incontra la propria clientela, la quale è invece rappresentata dai propri azionisti, unici ed effettivi destinatari del servizio di gestione offerto dalla società».
(43) Il riferimento operato dall’art. 166 del TUIR ai «soggetti che esercitano imprese commerciali» dipana il dubbio – sorto con riferimento al previgente art. 20-bis – se una tale disciplina dovesse applicarsi anche gli enti non commerciali svolgenti un’attività commerciale. Sul punto si vedano S. MAYR, Effetti del trasferimento della sede all’estero, in Corr. trib., 1995, 2707; M. LEO – F. MONACCHI – M. SCHIAVO, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 1999, 388; e N. SACCARDO, Le proposte di modifica al regime del trasferimento all’estero della residenza, in Riv. dir. trib., 2003, IV, 172. Ad avviso di L. MIELE, Trasferimento di residenza all’estero di un’impresa, in Corr. trib., 2005, 2209, l’esclusione degli enti non commerciali operata dal legislatore nella previgente disciplina non era stata intenzionale, ma «la lacuna era stata meramente frutto dell’iter di approvazione del decreto legislativo di introduzione dell’imposta sulle società; infatti, nello schema originario dello stesso gli enti non commerciali, in aderenza ad uno dei princìpi direttivi della legge delega, erano compresi tra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito di cui all’art. 2 del TUIR (e, conseguentemente, assoggettati alla disciplina in materia di trasferimento all’estero della residenza in virtù del riferimento, ivi contenuto, ai soggetti di cui all’art. 2), mentre nel testo definitivamente approvato tali soggetti sono stati espunti dal richiamato art. 2 del TUIR ed inseriti nell’art. 73, comma 1, lett. c), del TUIR, senza procedere ad un corrispondente adeguamento dell’art. 166 del TUIR».

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