SOMMARIO: Premessa – 1. Excursus delle principali fattispecie a rilevanza penale tributaria; 1.1 Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 74/2000); 1.2 Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000); 1.3 Dichiarazione infedele (art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000); 1.4 Dichiarazione omessa (art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000); 1.5 Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 del D.Lgs. n. 74/2000); 1.6 Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000); 1.7 Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000); 1.8 Omesso versamento di IVA (art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000); 1.9 Indebita compensazione (art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000); 1.10 Pagamenti parziali (art. 11, comma 1, del D.Lgs. n. 74/2000)
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; 1.11 Pagamenti parziali (art. 11, comma 2, del D.Lgs. n. 74/2000) – 2. Il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali asseritamene subiti dal contribuente in conseguenza della comunicazione di notizia di reato a suo carico, rivelatasi infondata – 3. L’infondatezza della pretesa attorea in ordine alle singole voci di danno lamentate – 4. Conclusioni.
Premessa
Nell’esercizio delle proprie attività e compiti istituzionali è, come ben si comprende, possibile che l’Agenzia delle entrate, come ciascuna delle c.d. Agenzie fiscali, si imbatta, per il tramite di suoi funzionari e/o dipendenti, in fattispecie a rilevanza penale: basti, infatti, pensare, ad esempio, al caso di una verifica fiscale ad un contribuente che – a seguito della disamina della contabilità o della documentazione in suo possesso – risulta avere (almeno prima facie) omesso i versamenti delle ritenute IIRPEF operate o, ancora, che non abbia effettuato il versamento dell’IVA dovuta, per richiamare solo due delle più frequenti ipotesi che in concreto si verificano e che, almeno astrattamente, concretizzano, rispettivamente, le (ben note) fattispecie di reato punite dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, di “omesso versamento dell’IVA” o di “omesso versamento ritenute certificate”.
Ma cosa accade se, una volta concretizzatasi la notitia criminis, l’Agenzia fiscale dà necessario seguito alla medesima, fornendone debita comunicazione alla Procura della repubblica che, a sua volta, a seguito dell’iscrizione del contribuente nel registro degli indagati inizia l’attività di accertamento e indagine per valutare la (possibile) responsabilità penale del medesimo e, infine, tale attività si conclude (come pure ben può accadere) in un “nulla di fatto” (mi sia consentita l’atecnica espressione) con la richiesta di archiviazione del fascicolo da parte del pubblico ministero e la conseguente emanazione del decreto di archiviazione da parte del giudice delle indagini preliminari (1)?
1. Excursus delle principali fattispecie a rilevanza penale tributaria
Orbene, prima di procedere a tale disamina – per meglio inquadrare l’ambito di operatività del fenomeno e individuare le concrete ipotesi in cui lo stesso va circoscritto – appare utile un breve excursus delle principali fattispecie a rilevanza penale tributaria, disciplinate dal D.Lgs. n. 74/2000.
1.1 Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 74/2000)
Commette tale reato, punito con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni, chiunque, al fine di evadere imposte sui redditi o l’IVA, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a queste imposte elementi passivi fittizi, a prescindere se egli sia o meno il soggetto passivo d’imposta o il titolare dei redditi o l’intestatario dei beni. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti al fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
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1.2 Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000)
Fuori dei casi previsti dall’ipotesi sopra esaminata commette tale tipologia di reato, punito con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni, chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti (2) idonei a ostacolarne l’accertamento, indica in una delle dichiarazioni annuali elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente:
– l’imposta evasa è superiore a 30.000 euro (con riferimento a ciascuna delle singole imposte);
l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante l’indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque è superiore a 1 milione di euro.
1.3 Dichiarazione infedele (art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000)
Fuori dei casi previsti dai precedenti artt. 2 e 3 in tema di dichiarazioni fraudolente, commette questo reato, punito con la reclusione da 1 a 3 anni, chiunque, al fine di evadere le imposte dirette o l’IVA (senza un intento fraudolento, ma comunque consapevolmente e volontariamente), indica in una delle dichiarazioni annuali relative a queste imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi quando congiuntamente:
a) l’imposta evasa è superiore a 50.000 euro con riferimento a ciascuna delle singole imposte;
b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a 2 milioni di euro (3).
1.4 Dichiarazione omessa (art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000)
Commette tale ipotesi di reato, in relazione al quale è prevista la pena della reclusione da 1 a 3 anni, chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA (con necessità di dolo specifico), non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a queste imposte, quando l’imposta evasa è superiore a 30.000 euro, con riferimento a ciascuna delle singole imposte (4).
1.5 Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 del D.Lgs. n. 74/2000)
Commette tale reato chiunque, al fine di consentire a terzi (anche per tale ipotesi occorre il dolo specifico) l’evasione dell’imposta sui redditi o dell’IVA, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Per tale ipotesi la sanzione prevista è la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni (5).
1.6 Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000)
Salvo che il fatto non costituisca reato più grave, incorre nella violazione della norma de qua chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari. Tale comportamento penalmente rilevante è punibile con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.
1.7 Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000)
Il reato è commesso da chiunque non versi ritenute, il cui ammontare supera i 50.000 euro per periodo d’imposta, risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro il termine previsto per la dichiarazione annuale dei sostituti di imposta. Per tale reato è prevista la reclusione da 6 mesi a 2 anni.
1.8 Omesso versamento di IVA (art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000)
Il reato, punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni, è commesso da chiunque non versi l’IVA, di importo superiore ai 50.000 euro per periodo d’imposta, dovuta sulla base della dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo (vale a dire il 27 dicembre). Si tratta, in buona sostanza, di quei contribuenti che, pur avendo puntualmente presentato al fisco la dichiarazione IVA, non hanno eseguito i conseguenti pagamenti.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (6) hanno chiarito che «Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. … Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta … di non far debitamente fronte alla esigenza predetta».
I medesimi principi sono stati ribaditi dalla sezione penale della Corte di Cassazione: ne deriva che la generica deduzione in ordine alla crisi economica non esclude l’elemento psicologico e, quindi, la responsabilità penale dell’imputato accusato del delitto di omesso versamento di IVA, occorre, invece, che ricorra una «reale impossibilità incolpevole all’adempimento» (7).
Sul punto si segnala che nella legge di delega fiscale (legge 11 marzo 2014, n. 23) è stato previsto, all’art. 8, una “Revisione del sistema sanzionatorio penale tributario” secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, stabilendo, tra l’altro, la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità. In relazione a tali principi è ben possibile, pertanto, che nell’ambito dei decreti attuativi che verranno emanati dal governo, potrebbe trovare spazio anche la depenalizzazione della fattispecie riguardante l’omesso versamento dell’IVA (8).
1.9 Indebita compensazione (art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000)
Il reato è commesso da chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti o inesistenti. La pena della reclusione comminabile varia da 6 mesi a 2 anni. Anche per tale fattispecie la soglia di punibilità è (pari al totale relativo ai crediti indebitamente compensati) fissata a 50.000 euro per periodo d’imposta.
1.10 Pagamenti parziali (art. 11, comma 1, del D.Lgs. n. 74/2000)
Chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o dell’IVA ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore a 50.000 euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva è punibile con la pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni che sono aumentate alla pena variabile da 1 anno a 6 anni se le imposte, sanzioni e interessi sono superiori a 200.000 euro (9).
1.11 Pagamenti parziali (art. 11, comma 2, del D.Lgs. n. 74/2000)
Chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore a 50.000 euro è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. La pena è aumentata con la reclusione da 1 anno a 6 anni se l’ammontare degli elementi attivi o passivi fittizi supera i 200.000 euro (10).
2. Il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali asseritamene subiti dal contribuente in conseguenza della comunicazione di notizia di reato a suo carico, rivelatasi infondata
Tanto premesso, passiamo ora ad esaminare il fulcro del presente intervento, individuando, tra i molteplici possibili, il seguente casus belli in cui l’Agenzia delle entrate viene convenuta in un giudizio, chiamata in causa da un contribuente, il quale ne chiede la condanna al risarcimento dei (presunti) danni (patrimoniali e non) asseritamene da questo subiti in conseguenza della comunicazione di una notizia di reato a suo carico, inviata dall’Agenzia delle entrate, in ossequio al dettato normativo di cui all’art. 331 c.p.p., all’Autorità giudiziaria per la violazione di una delle sopra richiamate norme del D.Lgs. n. 74/2000.
Orbene, il caso è il seguente: a seguito dell’attività di verifica e di indagine, debitamente effettuata dalla competente Procura della repubblica, all’uopo investita, emerge l’assenza dei presupposti per la prosecuzione delle attività di indagine nei confronti del soggetto indagato o, comunque, all’esito delle stesse, la mancanza del fondamento della notitia criminis, per mancanza di elementi utili alla prosecuzione del procedimento, con conseguente archiviazione del relativo fascicolo (11).
A tale status rei fa da contraltare una successiva domanda risarcitoria del soggetto (non più indagato) che – nel lamentare l’avere subito dei danni – ne chiede il ristoro, convenendo in giudizio detta Agenzia dinanzi al competente giudice ordinario (12).
Ovviamente, anche al fine di consentire al giudice adito di poter accedere al merito della controversia, la parte attrice deve, prima di tutto, fornire compiuta prova della responsabilità della convenuta Agenzia delle entrate: in materia di risarcimento del danno patrimoniale derivante al privato cittadino da atti o comportamenti della pubblica Amministrazione è, infatti, onere del primo fornire la puntuale dimostrazione del danno subito, sia nell’an sia nel quantum (13).
In ogni caso, è dunque onere della parte attrice provare la sussistenza della colpa dell’Amministrazione finanziaria e il nesso eziologico tra la condotta di questa (commissiva od ommissiva) ed il danno per come asseritamente lamentato dal cittadino.
Ciò premesso, nel caso di specie, occorre pure porre mente al fatto che la presunta illegittimità dell’azione dell’Ufficio finanziario non costituirebbe, anche ove fosse ritenuta sussistente, elemento di per sé bastevole a sostenere la responsabilità dell’Amministrazione convenuta ex art. 2043 c.c., giacché il nesso eziologico rappresenta un elemento necessario, ma non anche sufficiente per sostenere l’azione di responsabilità extracontrattuale proposta da controparte, atteso che risulta necessaria la sussistenza (pure) dell’elemento psicologico del dolo o della colpa, al fine della concreta configurabilità della violazione del principio fondamentale del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c.
Va comunque rilevato – in linea generale, nei rapporti jure privatorum – che, sulla base di principi giurisprudenziali consolidati, la denuncia di un reato procedibile d’ufficio non può essere posta a base di una domanda risarcitoria contro il denunciante: tanto, fatta salva la sola ipotesi in cui dal comportamento del soggetto denunciante possano rinvenirsi gli estremi della calunnia, fattispecie criminosa prevista e regolata dall’art. 368 c.p.
Ciò in quanto l’attività pubblicistica dell’Autorità giudiziaria (rectius: del pubblico ministero) si sovrappone all’iniziativa del denunciante interrompendo, in tal modo, il nesso causale tra l’iniziativa e il danno eventualmente subito dal denunciato: secondo tale orientamento, infatti, a nulla rileva che la denuncia non sia stata proposta seguendo l’ordinaria diligenza, in quanto vi è un interesse pubblico alla promozione dell’azione penale mediante l’informazione all’Autorità inquirente.
Tale impostazione è conforme ai principi che attribuiscono un valore civico e sociale all’iniziativa del privato, il quale innanzi alla violazione della legge penale – con la diligente denuncia del reato di cui è a conoscenza – dà il necessario input all’azione giudiziaria.
Passando alla disamina degli effetti conseguenti all’applicazione del suddetto principio al caso qui in esame, in cui a rivestire il ruolo di soggetto denunciante è un’Amministrazione pubblica, lo stesso non può che trovare ulteriore conferma e conforto, atteso che, per principio notorio, i dipendenti dell’Amministrazione finanziaria che ravvisano gli estremi delle fattispecie di reati tributari per di più, come nel caso di specie, perseguibili d’ufficio, sono tenuti a denunciarli all’Autorità giudiziaria, che fa le proprie opportune e conseguenti valutazioni (14).
Tale assunto è avallato dall’unanime orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non costituisce fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione; tanto tranne il caso in cui essa possa considerarsi calunniosa, giacché, al di fuori di tale ipotesi, l’attività propria dell’organo titolare dell’azione penale (di natura pubblicistica) finisce con il sovrapporsi all’iniziativa del denunciante, interrompendo ogni nesso di causale tra tale iniziativa e il danno eventualmente subito dal denunciato (15).
In particolare, detto principio evidenzia l’interesse dell’ordinamento alla promozione dell’azione penale per mezzo dell’informazione alle Autorità giudiziarie di fatti penalmente rilevanti da parte di chi ne sia a conoscenza: nel caso di specie, i funzionari dell’Agenzia fiscale apprendono una notizia di reato (rilevante ai fini dell’applicazione del D.Lgs. n. 74/2000) nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali di prevenzione e di contrasto verso ogni forma di evasione e/o elusione dei tributi erariali, con conseguente obbligo di informazione alle Autorità competenti e con l’unico limite costituito dalla consapevolezza da parte del denunciante dell’innocenza del denunciato (nel qual caso, appunto, si integrerebbe per il soggetto denunciante la fattispecie di reato di calunnia, sopra richiamata) (16).
In tal modo, l’Autorità inquirente viene investita di un’attività che: «quale che ne sia l’esito, diviene autonoma rispetto alla notitia criminis che l’ha originata, prevalendo l’interesse pubblico dell’amministrazione della giustizia sull’interesse del denunciato a che non vengano compiute attività di accertamento relative alla propria condotta, salvo l’ipotesi in cui la sollecitazione stessa all’esercizio dell’azione penale non sia oggettivamente e consapevolmente falsa» (17).
In definitiva, nell’ambito del nostro Stato (di diritto), se è corretto e opportuno attribuire valore civico e sociale all’iniziativa del cittadino privato che attiva con la sua segnalazione la risposta giudiziaria dinanzi alla violazione della legge penale, è altrettanto ragionevole che nessuna responsabilità possa conseguire ad una denuncia penale (fatta eccezione dell’ipotesi di calunnia, autocalunnia e simulazione di reato), pur quando questa si sia rilevata infondata.
Ovviamente, tale principio generale dovrà, di volta in volta, essere oggetto di attenta valutazione e disamina da parte dell’Organo giudicante, giacché non possono comunque a priori escludersi casi di responsabilità, con conseguente onere risarcitorio in capo all’Agenzia fiscale (che potrà sempre ripetere il quantum risarcito, a titolo di danno cagionato dal proprio funzionario colpevole), anche nel caso, ad esempio, di errori macroscopici o di tale rilevanza che ben si sarebbero potuti evitare con l’ordinaria diligenza se non già del buon padre di famiglia, almeno qualificata, di tipo professionale, come ben si conviene a chi opera in un settore così delicato (18).
3. L’infondatezza della pretesa attorea in ordine alle singole voci di danno lamentate
Tanto chiarito, si vuole – per completezza – fornire ulteriori minimi ragguagli in ordine alla infondatezza (pure) delle richieste risarcitorie (c.d. quantum) delle singole voci di danno lamentate dal privato cittadino, interessato dalle attività di indagine poi conclusasi con l’archiviazione.
Quanto al danno patrimoniale, subito dall’attore nel periodo di tempo intercorso tra la comunicazione della notizia di reato per cui è causa e l’archiviazione delle indagini espletate in capo allo stesso (dovuto, ad esempio, dalla quantificazione delle spese di natura legale sostenute), si rileva, alla luce delle menzionate decisioni del giudice di legittimità, la loro infondatezza, oltre che comunque la inammissibilità della relativa domanda.
Quanto, poi, alle eventuali pretese di risarcimento di un lamentato danno non patrimoniale (ad esempio, danno morale ed esistenziale), si osserva che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, ai fini della relativa risarcibilità, è necessaria l’esistenza di un reato ex art. 185 c.p., o comunque la violazione di diritti costituzionalmente garantiti, ciò che, all’evidenza, non può ritenersi sussistente normalmente in un caso come quello di specie (19).
Non potrà, poi, che essere respinta anche la richiesta di liquidazione del danno esistenziale. Occorre a tale proposito rilevare come, per ormai unanime orientamento, il danno esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nella più ampia categoria del danno non patrimoniale, non può essere liquidato autonomamente (20).
Per come sopra detto, nel caso, invece, di notitia criminis derivante da reato di calunnia, autocalunnia e simulazione di reato da parte del funzionario agente nella sua veste di denunciante o ascrivibile ad una responsabilità colpevole da parte di questi, non è preclusa la possibilità che, in capo all’Agenzia fiscale, sussista un onere risarcitorio a titolo di un comprovato danno patrimoniale (ad esempio, il quantum delle spese legali sostenute dal denunciato nella fase delle indagini preliminari fino all’eventuale udienza di proscioglimento dinanzi al giudice dell’udienza preliminare) che di danno non patrimoniale che, come noto, è suscettibile di autonoma liquidazione proprio in caso di presenza di una fattispecie di reato (come avviene nel caso di calunnia intentata dal funzionario nei confronti del denunciato). Difficilmente, invece, tale categoria di danno sarà liquidabile, quale titolo autonomo di voce di ristoro, nel caso di violazione del dovere di diligenza da parte del funzionario agente, a meno che non si intraveda, in tali tipologie, nel caso concretamente sottoposto all’attenzione del giudice civile, una violazione concreta di uno degli specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo la nostra Costituzione.
4. Conclusioni
In definitiva, con il presente intervento si è cercato di evidenziare che, alla luce dei richiamati arresti giurisprudenziali, generalmente, nessuna responsabilità risarcitoria potrà ravvisarsi in caso di proposizione di una denuncia penale e, quindi, a maggior ragione della comunicazione ex officio di una notizia di reato, cui il funzionario preposto è ex lege obbligato.
Tutto ciò in quanto l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale: in tal modo, interrompendo ogni nesso causale tra detta iniziativa e il danno eventualmente subito dal denunciato e lamentato in sede giudiziaria.
La decisione di detto organo non potrà, quindi, che stabilire la reiezione della domanda risarcitoria avanzata, salvi i soli eccezionali casi in cui la condotta tenuta dagli agenti accertatori sia riconducibile a fatti di reato (ad esempio, calunnia) ovvero la stessa sia ascrivibile ad una macroscopica violazione dei minimi e basilari doveri di diligenza professionale, in capo a costoro.
Tali ultimi casi, dunque, non dovranno mai costituire un freno o un’inibizione alle attività accertative da parte dei soggetti preposti, ma dovranno solo rappresentare un ulteriore stimolo allo svolgimento di azioni dovute ex lege, effettuate nella massima trasparenza e correttezza e, soprattutto, in modo da ricercare correttamente “materia imponibile” e di reprimere fattispecie delittuose a rilevanza penale.
Il tutto evitando, però, il più possibile errori dovuti alla (solo ipotetica e, comunque, da provare) responsabilità penale o negligenza colpevole dei funzionari, da cui, dopo un’attenta valutazione da parte del giudice adito dalla parte privata, ben potrebbero derivare conseguenze risarcitorie in favore dei soggetti danneggiati; in quanto ciò non può che rappresentare un logico corollario di quanto statuito dall’art. 28 Cost., secondo cui, come ben noto: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici».
Avv. Sergio La Rocca
(1) Con l’archiviazione si pone fine alle indagini preliminari: infatti, nonostante nel nostro ordinamento italiano viga il principio di obbligatorietà dell’azione penale, è comunque previsto un istituto che consente al pubblico ministero, qualora non vi siano elementi validi, di terminare le indagini qualora da esse non risultino elementi necessari per l’esercizio di un’eventuale azione penale. Gli elementi e i requisiti occorrenti sono espressamente stabiliti dagli artt. 408, 410, 411 e 415 c.p.c., ai quali rimando per gli eventuali approfondimenti.
(2) II fatto si considera commesso con mezzi fraudolenti quando l’indicazione non veritiera si fonda su una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l’accertamento (art. 3, comma 1). Gli atti sopra indicati non sono comunque punibili a titolo di tentativo (art. 6). Non danno, invece, luogo a fatti punibili: – le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile (art. 7, comma 1); – le rilevazioni e le valutazioni estimative rispetto alle quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati in bilancio (art. 7, comma 1); – in ogni caso, le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10% da quelle ritenute corrette. Di questi importi, compresi in tale percentuale, non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità sopra indicate (art. 7, comma 2).
(3) Non assumono rilievo penale: – le rilevazioni nelle scritture contabili e in bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile nonché le rilevazioni e le valutazioni estimative i cui criteri concretamente applicati sono comunque indicati in bilancio; – le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono meno del 10% da quelle corrette (art. 7, comma 2).
(4) Non si considera omessa, ai fini della configurazione del delitto, la dichiarazione presentata entro 90 giorni dalla scadenza, oppure non sottoscritta, o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto. Allo scadere di detto termine di 90 giorni si consuma il reato.
(5) L’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo d’imposta si considera come un solo reato (art. 8, comma 2). In deroga all’art. 110 c.p. non è punibile a titolo di concorso nel reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8) chi se ne avvale o chi concorre con chi se ne avvale [art. 9, comma 1, lett. b)], né è punibile a titolo di concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2) chi li emette o chi concorre con chi li emette [art. 9, comma 1, lett. a)].
(6) Cfr. Cass., sez. un. pen., 12 settembre 2013, n. 37424, in Boll. Trib., 2014, 864, con nota di B. Gullo, L’omesso versamento dell’IVA e le sanzioni amministrative e penali.
(7) Cfr. Cass., sez. III pen., 21 gennaio 2014, n. 2614, in Boll. Trib. On-line; secondo l’orientamento della Suprema Corte, dunque, la configurabilità del reato può escludersi non quando il contribuente dimostri che la carenza di liquidità è conseguenza della crisi economica, ma solo, ad esempio, qualora l’incasso dell’IVA di cui è stato omesso il versamento non sia effettivamente avvenuto.
(8) Al riguardo si è espresso di recente anche il Governo, in risposta al question time promosso alla Camera in data 16 marzo 2014 in cui è stato affermato che «il governo si ritiene impegnato all’abrogazione della fattispecie di reato in questione, nell’ambito dei decreti delegati della riforma, in forza dell’ordine del giorno 9/00282-A/042 approvato in tal senso alla camera lo scorso 24 settembre 2013».
(9) Si precisa che la presente fattispecie costituisce un reato di pericolo, per la cui sussistenza è sufficiente la semplice idoneità della condotta simulata o fraudolenta a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva.
(10) Anche tali fattispecie costituiscono reato di pericolo: è dunque sufficiente ad integrare tali ipotesi la semplice idoneità della condotta simulata o fraudolenta a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva.
(11) Si pensi, ad esempio, al caso in cui, ad un approfondito esame della documentazione contabile e fiscale, non risulta più il superamento di una delle (svariate) soglie di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74/2000, con conseguente infondatezza della notizia di reato e necessaria archiviazione del fascicolo.
(12) Diversamente dal presente caso – in cui non sussiste un pregresso atto impositivo da impugnare – la pretesa risarcitoria de qua si sarebbe dovuta azionare innanzi al giudice tributario contestualmente all’impugnazione dell’atto impositivo che si assume essere illegittimo, in quanto, in base al principio della concentrazione della tutela: «le Commissioni Tributarie possono riconoscere al contribuente non soltanto il rimborso delle imposte indebitamente versate, ma pure gli accessori come gli interessi ovvero il maggior danno …»; e ancora: «appartengono alla giurisdizione delle Commissioni tributarie le domande relative al riconoscimento non solo del rimborso delle imposte indebitamente versate, ma pure gli accessori ma anche quelle relative agli accessori ed al maggior danno» (si vedano in tal senso: Cass., sez. un., 16 giugno 2010, n. 14499; e Cass., sez. un., 4 ottobre 2002, n. 14274; entrambe in Boll. Trib. On-line).
(13) In particolare, stante la natura “aquiliana” della responsabilità de qua, occorre rilevare che – per principio ormai consolidato – l’imputazione della responsabilità risarcitoria della pubblica Amministrazione non può certo avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, in relazione alla normativa applicabile, ma deve essere estesa alla valutazione della colpa dell’Amministrazione. Si veda in tal senso: Cass., sez. III, 21 ottobre 2005, n. 20358, in Giur. it., 2007, 355.
(14) Si veda, in tal senso, Cass., sez. III, 26 gennaio 2010, n. 1542, in Mass. foro it., 2010, 74.
(15) Si confronti, in tal senso, Cass., sez. I, 20 marzo 2014, n. 6554, in Danno resp., 2014, 8-9, 861.
(16) Sul punto, osservano gli ermellini in Cass. n. 6554/2014, cit., che: «al di fuori dell’ipotesi di calunnia non è ravvisabile responsabilità risarcitoria per la proposizione di una denuncia penale, in quanto l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa e il danno eventualmente subito dal denunciato».
(17) Si vedano, sul punto, Cass. n. 6554/2014, cit.; e Cass., sez. VI pen., 26 luglio 2010, n. 29237, in CED Cassazione, 2010.
(18) A titolo meramente esemplificativo si può immaginare il caso della erronea individuazione, quale soggetto autore del fatto di reato, del rappresentante legale di una società, causata dal mutato assetto della compagine sociale tra la data di commissione dell’illecito e quella di accertamento dello stesso che il funzionario agente avrebbe ben potuto riscontrare semplicemente dall’esame della documentazione societaria, previa interrogazione dei dati risultanti dalla documentazione contabile e fiscale in suo possesso ovvero attraverso il registro delle imprese, tenuto da ciascuna Camera di commercio, evitando, così, una possibile incriminazione di un soggetto del tutto estraneo al fatto di reato.
(19) Si vedano, ex multis, TAR Firenze, sez. I, 7 novembre 2013, n. 1501, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. III, 25 febbraio 2014, n. 4439, in Mass. foro it., 2014, 154.
(20) In tal senso, cfr. Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Giur. it., 2009, 61, secondo la quale: «il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata danno esistenziale perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione».