Circolare 30 marzo 2016, n. 6/E, dell’Agenzia delle entrate
INDICE:
premessa
1. descrizione delle operazioni di acquisizione con indebitamento; 1.1 L’acquisizione con indebitamento secondo le disposizioni del codice civile; 1.2 Tipologie di strutture e operazioni di private equity; 1.3 Cenni alla struttura di remunerazione delle private equity firm.
2. il trattamento fiscale della società Newco/bidco con particolare riguardo agli interessi passivi; 2.1 La valutazione del rispetto del principio di inerenza per gli interessi passivi relativi ai debiti della SPV; 2.2 La valutazione della natura elusiva dell’operazione con riferimento alla deduzione di interessi passivi e al riporto di perdite pregresse; 2.3 I servizi infragruppo e la corretta ripartizione degli oneri.
3. il trattamento fiscale delle componenti reddituali corrisposte alle private equity firm e ai finanziatori residenti all’estero; 3.1 Il trattamento fiscale delle “other fee” addebitate alle società target; 3.2 Applicazione delle ritenute sugli interessi relativi ai finanziamenti concessi dalle Italian Bank Lender Of Record (IBLOR) o rientranti nell’articolo 26-quater del d.P.R. n. 600 del 1973 (Direttiva interessi e canoni); 3.3 I finanziamenti erogati da parte dei soci esteri (shareholder loan); 3.4 Applicazione della disciplina delle ritenute ai dividendi destinati all’estero e della tassazione delle plusvalenze realizzate dalla cessione della MergerCo localizzata in Italia.
«premessa
Al fine di ridurre i profili di incertezza interpretativa emersi in relazione alle operazioni di acquisizione con indebitamento (come descritte nel paragrafo 1), con la presente circolare si forniscono i chiarimenti necessari ad individuare il corretto trattamento fiscale sia dei componenti di reddito connessi alle fonti di finanziamento delle predette operazioni, sia dei rendimenti (interessi, dividendi e/o plusvalenze) che sono ritratti in Italia da entità localizzate in altre giurisdizioni UE (e SEE) ed extra UE.
L’analisi effettuata consente di confermare, in linea di principio, la liceità fiscale delle operazioni di acquisizione con indebitamento, contribuendo a ridurre le criticità operative che, come segnalato da alcune associazioni di categoria, hanno inciso negativamente sugli investimenti provenienti dall’estero e operati in Italia dagli operatori del c.d. “private equity”.
1. descrizione delle operazioni di acquisizione con indebitamento
L’espressione “operazioni di acquisizione con indebitamento” – con cui si fa riferimento sia ad una singola operazione sia ad un complesso di operazioni anche di forme diverse – definisce l’acquisizione di un’azienda o di una partecipazione (di controllo o totalitaria) in una determinata società (anche a capo di un gruppo operativo), denominata “bersaglio” (o “obiettivo” o target o target company o target group), posta in essere mediante la creazione di un’apposita società veicolo (c.d. Special Purpose Vehicle – SPV o Bidco o Newco) che viene finanziata in parte, anche minima, mediante capitale proprio (equity) ed in parte mediante prestiti onerosi (debt). La scelta delle fonti per finanziare una determinata operazione di acquisizione d’impresa (asset deal) o di partecipazioni (share deal) è riconducibile fondamentalmente all’utilizzo dell’indebitamento come “leva finanziaria” (c.d. leverage) che comporta l’emergere di benefici (e rischi) incrementali fintanto che il costo del debt sia inferiore (o superiore) al rendimento del capitale di rischio.
Tali operazioni di acquisizione con indebitamento (di seguito anche “(merger) leveraged buy-out – MLBO/LBO”), pertanto, si caratterizzano per l’esistenza di una sola causa, che è costituita dall’acquisizione di un’impresa o di una partecipazione che consenta il controllo della target.
Nel seguito si farà diretto riferimento alle operazioni che coinvolgono l’acquisto di partecipazioni (c.d. share deal).
1.1 L’acquisizione con indebitamento secondo le disposizioni del codice civile. L’articolo 2501-bis del codice civile – nella formulazione introdotta con le modifiche al Capo X del Titolo V del Libro V del codice civile apportate dall’art. 6, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 – regolamenta gli obblighi informativi per le operazioni di “Fusione a seguito di acquisizione con indebitamento”. Com’è noto, il predetto articolo del codice civile prevede che “nel caso di fusione tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, quando per effetto della fusione il patrimonio di quest’ultima viene a costituire garanzia generica o fonte di rimborso di detti debiti”:
• il progetto di fusione (di cui all’articolo 2501-ter) deve indicare le risorse finanziarie previste per il soddisfacimento delle obbligazioni della società risultante dalla fusione;
• la relazione (di cui all’articolo 2501-quinquies) deve indicare le ragioni che giustificano l’operazione e contenere un piano economico e finanziario con indicazione della fonte delle risorse finanziarie e la descrizione degli obiettivi che si intendono raggiungere;
• la relazione degli esperti (di cui all’articolo 2501-sexies), attesta la ragionevolezza delle indicazioni contenute nel progetto di fusione ed al progetto deve essere allegata una relazione del soggetto incaricato della revisione legale dei conti della società obiettivo o della società acquirente.
In altri termini, chiarito che l’operazione di cui si tratta non comporta di per sé violazione del divieto di acquisto e sottoscrizione di azioni proprie (art. 2357 del codice civile), né del divieto di assistenza finanziaria (art. 2358 del codice civile), con il rafforzamento di alcuni adempimenti informativi – rispetto alle ordinarie operazioni di fusione – il legislatore ha inteso portare all’attenzione dei soci di minoranza, e dei creditori sociali, la sostenibilità economica e finanziaria dell’operazione di MLBO/LBO.
Resta fermo che prescinde dai chiarimenti forniti nella presente circolare il rispetto del divieto di assistenza finanziaria, che dovrà essere valutato caso per caso dai vari stakeholders della società target, al fine di escludere che si sia in presenza di comportamenti, posti in essere dagli organi della società target, in violazione di quanto previsto dall’art. 2358 del codice civile.
1.2 Tipologie di strutture e operazioni di private equity. In estrema sintesi, la sequenza “base” delle operazioni di MLBO/LBO può riassumersi nella seguenti fasi:
• negoziazione e conclusione degli accordi – nei mesi che precedono l’acquisizione, i promotori, spesso supportati da consulenti, negoziano e concludono accordi vincolanti (preliminari di vendita e contratti di finanziamento) con i venditori della target ed i finanziatori terzi dell’operazione;
• costituzione del veicolo, finanziamento e formalizzazione dei contratti – dopo la definizione dei termini essenziali dell’operazione (prezzo di vendita, entità e costo del debito) i promotori, a partire dalla costituzione della società veicolo (SPV), formalizzano il contratto di compravendita e i contratti di finanziamento, da cui risulta che, in tempi solitamente ravvicinati, la SPV riceve i mezzi finanziari in parte sotto forma di capitale proprio (equity) ed in parte sotto forma di finanziamenti (debt), erogati da soggetti terzi (solitamente istituti di credito) o da entità collegate e/o controllate e li trasferisce ai cedenti (i quali a loro volta potrebbero anche essere in fase di uscita da una precedente acquisizione) per regolare il prezzo della compravendita delle partecipazioni nella target;
• fusione dei veicoli – dopo il trasferimento delle partecipazioni in capo alla SPV, questa si unisce per incorporazione o fusione inversa con la target company (di seguito, il soggetto risultante è definito con la denominazione MergerCo) trasferendo, attraverso l’operazione di riorganizzazione, sugli assets e sui flussi di cassa generati dall’attività della target l’onere di ripagare il debito (e relativi interessi) contratto dalla società veicolo per l’acquisizione (c.d. tecniche di debt push down).
Per quanto concerne i finanziamenti ottenuti dalla SPV si evidenzia come, di norma, i finanziatori (principalmente le banche) subordinano tale erogazione di denaro sia alla creazione della società veicolo (al fine di garantirsi, a titolo di esempio, la trasparenza dei dati del mutuatario, l’assegnazione del finanziamento ad una società che non possiede altri beni né svolge altre attività, il divieto per l’SPV di contrarre altri finanziamenti), sia alla successiva fusione della stessa con la target company al fine, principalmente, di avvicinare il debito alle attività poste a garanzia del finanziamento e in grado di generare i flussi di cassa necessari per ripagare il debito (in questo modo i finanziatori rimuovono la c.d. subordinazione strutturale che si verifica quando il debitore garantisce il rimborso del debito tramite assets detenuti indirettamente per mezzo del controllo in altra società).
Dal punto di vista fiscale, nell’ipotesi di fusione, l’onerosità complessiva del debito si “trasferisce” dal reddito imponibile della SPV a quello della MergerCo (società che ha inglobato la precedente target company) o, in alternativa, in assenza di fusione, gli oneri finanziari connessi all’indebitamento sono compensati, tra Newco e Target, mediante l’esercizio dell’opzione per il consolidato fiscale, ai sensi degli articoli da 117 a 129 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito, TUIR). In tale ultima ipotesi, si affianca ai flussi ordinari un’apposita politica di distribuzione dei dividendi da parte della target alla SPV per garantire il rimborso delle quote del prestito (ed il pagamento dei relativi interessi).
Le forme più semplici di LBO/MLBO sono affiancate da altre maggiormente complesse, definite operazioni di LBO c.d. istituzionale. Queste fattispecie si caratterizzano per il fatto che sono studiate e condotte direttamente da un investitore istituzionale (ad esempio, un fondo di private equity specializzato nel buy-out) che identifica una società target in vendita e procede all’acquisto della stessa; le società target, una volta acquisite dal fondo, entrano nel relativo portafoglio di investimenti (portfolio companies) e vengono gestite dal management della private equity firm, al fine di massimizzarne i profitti a beneficio degli investitori di ultima istanza.
I fondi di private equity solitamente si specializzano in segmenti di investimento (industria, zona geografica, etc.) ed in particolare quelli che operano nel LBO trattano operazioni che riguardano principalmente società non quotate che presentano una generazione di cassa idonea a consentire l’implementazione di strategie di massimizzazione del valore che, attraverso opportuni interventi, nel breve-medio periodo (3-5 anni) consentano l’ottenimento di un rendimento tramite cessione (exit).
Si evidenzia che l’espressione “fondi di private equity” racchiude genericamente una serie di veicoli di investimento (sia nazionali che esteri) che possono differire per forma giuridica, disciplina regolamentare e trattamento fiscale. Ai fini della presente circolare il riferimento sarà principalmente inteso, per i veicoli nazionali, ai fondi chiusi mobiliari organizzati e gestiti professionalmente, nell’ambito del quadro normativo italiano, da società di gestione del risparmio – SGR – e, per i veicoli esteri, alle “limited partnership” organizzate e gestite professionalmente dal “general partner”, in cui gli investitori assumono la veste di “limited partner” e generalmente caratterizzate dalla trasparenza fiscale nella giurisdizione di incorporazione.
Rispetto alla sequenza “base” sopra descritta, gli LBO istituzionali si contraddistinguono per il fatto che il promotore dell’operazione è la società di gestione del fondo (definita anche private equity firm) e le risorse finanziarie di cui è dotato il fondo vengono raccolte presso gli investitori (i quotisti nei fondi italiani e i limited partners nelle limited partnerships).
In aggiunta, oltre al veicolo Bidco, i fondi di investimento (rectius, i gestori del fondo) utilizzano anche altre SPV intermedie tramite cui detenere indirettamente l’investimento.
Ne consegue che, a prescindere dall’identità di causa dell’operazione, il fondo sviluppa una struttura societaria e finanziaria articolata su più livelli di SPV; in dettaglio, ipotizzando che il promotore dell’operazione gestisca una limited partnership e che la catena dell’investimento abbia all’apice una holding (di seguito Holdco) in giurisdizioni estere (generalmente white listed), il gestore del fondo:
• definisce la struttura societaria e finanziaria (queste decisioni vengono solitamente descritte in un documento programmatico definito structure memorandum) attraverso cui reperire e veicolare le risorse necessarie per realizzare l’operazione; nelle strutture solitamente riscontrate in fase di controllo, alle risorse proprie raccolte presso i quotisti, si accompagnano quelle reperite tramite l’indebitamento oneroso proveniente dall’acquisition loan (anche formato da varie linee con differente subordinazione);
• costituisce la Holdco apportandole risorse in parte in forma di equity e per il resto con la sottoscrizione di specifici strumenti finanziari utilizzati, dagli operatori di private equity, per finanziare i veicoli intermedi, e potenzialmente idonei a ridurre il carico fiscale sia sui veicoli intermedi stessi (corporate tax) che sul fondo (es. ritenute in uscita), e ciò sia in fase di maturazione che in fase di realizzo (exit);
• pone in essere le operazioni necessarie affinché Holdco costituisca Bidco, con apporto di risorse sia in forma di equity (o strumenti finanziari partecipativi) sia, spesso, tramite finanziamento soci (il c.d. shareholder loan), e affinché la restante parte delle risorse necessarie all’acquisizione venga reperita tramite prestiti (c.d. acquisition loans) forniti direttamente o intermediati dal sistema bancario;
• pone in essere le condizioni dell’operazione di fusione tra la Bidco e la target nei termini stabiliti dai contratti di finanziamento e così come previsto nello structure memorandum.
Sul piano fiscale, la fusione tra Bidco e target company, ovvero l’esercizio dell’opzione per il regime del consolidato nazionale, di cui agli articoli 117-129 del TUIR, consentono la compensazione intersoggettiva degli oneri finanziari connessi al capitale di debito erogato alla SPV.
1.3 Cenni alla struttura di remunerazione delle private equity firm. La remunerazione che le private equity firm ottengono per le attività di gestione dei relativi investimenti, sulla base della comune prassi commerciale, consta di una componente fissa (le c.d. management fee addebitate al fondo e le c.d. other fee addebitate alle portfolio company), finalizzata a remunerare l’attività di gestione a prescindere dai risultati ottenuti, e da una componente variabile (il c.d. carried interest), finalizzata a remunerare la performance delle singole operazioni di investimento o del complesso dell’attività di gestione del fondo.
Ai fini della presente circolare l’attenzione si concentrerà sulla componente fissa.
Le management fee vengono addebitate dalla private equity firm al fondo, con cadenza periodica, durante la fase di investimento (che può essere inferiore alla durata complessiva del fondo), per un importo generalmente calcolato in rapporto al capitale del fondo.
Nel caso di fondi esteri, in virtù del fatto che sulla base dei documenti istitutivi e regolamentari (il c.d. limited partnership agreement e/o il management agreement) la gestione viene delegata ad altre entità appartenenti alla private equity firm, le management fee possono essere addebitate dalla società che ricopre il ruolo di c.d. “investment manager” (o “investment advisor” o anche semplicemente “manager”).
Alle management fee, solitamente, si affiancano gli addebiti che il gestore del fondo (o il manager qualora questo sia delegato alla gestione) effettua direttamente nei confronti delle portfolio company genericamente riferibili all’attività di supporto, monitoraggio e gestione delle singole operazioni di investimento (le c.d. other fee). Tali commissioni, nella prassi differentemente definite break-up fee, directors fee, advisory/monitoring fee, transaction fee e affiliate service fee, sono disciplinate da contratti sottoscritti tra le portfolio company e il manager e possono essere ricondotte essenzialmente a due categorie:
• le transaction/arrangement fee, pagate per il supporto nelle attività di acquisizione, riorganizzazione o finanziamento, sono solitamente commisurate al valore della transazione conclusa e vanno a copertura dei rimborsi delle spese sostenute dalla private equity firm (ad es. per consulenze legali)
• le monitoring fee, pagate a fronte di servizi di consulenza, sono solitamente commisurate all’EBITDA della portfolio company.
Management fee e other fee sono disciplinate nei documenti istitutivi e regolamentari del fondo, che nella maggior parte dei casi prevedono che le somme corrisposte dalle portfolio company in relazione a una o tutte le other fee siano scomputate in misura totale o parziale dall’importo complessivo delle management fee dovute dal fondo.
In sostanza, una parte delle management fee dovute dal fondo viene prelevata direttamente dalle portfolio company.
Nei paragrafi seguenti si forniranno i chiarimenti riguardanti: i) il trattamento fiscale degli oneri finanziari che, successivamente alla fusione, risultano sopportati dalla target, anche sotto forma di perdite pregresse; ii) le corrette modalità di ripartizione di alcuni costi per servizi connessi all’operazione, addebitati da entità riconducibili alla private equity firm; iii) l’eventuale applicazione di ritenute in uscita su dividendi ed interessi e il regime dei “capital gains” da cessione di partecipazioni, costituenti il rendimento finanziario derivante dall’operazione nel suo complesso.
2. il trattamento fiscale della società Newco/bidco con particolare riguardo agli interessi passivi
Come descritto nei paragrafi precedenti, l’operazione di acquisizione con indebitamento si caratterizza per l’utilizzo della leva finanziaria, cui si accompagnano le tecniche di debt push down del debito tra SPV e target
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company.
In particolare, indipendentemente dalle strutture utilizzate, la società veicolo accende dei finanziamenti onerosi che, di norma, sono dei prestiti ponte che devono essere rifinanziati al momento dell’acquisizione delle partecipazioni nella società target. Queste ultime, dopo l’acquisizione e nella fase antecedente alla fusione, rappresentano una garanzia accessoria al rimborso del prestito, essendo concesse in pegno ai sensi dell’articolo 2352 del codice civile.
I finanziamenti appena menzionati, inoltre, presentano una serie di clausole (c.d. “covenants”) che legano le condizioni dei medesimi (es: tempi di rimborso e/o tasso di interesse) allo sviluppo di indici che riflettono l’andamento della target company e/o impongono regole di condotta positive o negative alla stessa (ad esempio il divieto di contrarre nuovi ed ulteriori prestiti o di compiere determinate operazioni). Dopo la fusione, infine, i finanziatori hanno la possibilità di sostituire il pegno su azioni con una garanzia diretta sul patrimonio della società MergerCo.
Sulla base delle caratteristiche appena menzionate, si rileva, sotto il profilo giuridico/economico, che l’indebitamento assunto dalla Newco si presenta, in linea di principio, funzionale all’acquisizione della target company e la sua sostenibilità è attestata dalle prescrizioni informative richieste dal citato articolo 2501-bis del codice civile.
2.1 La valutazione del rispetto del principio di inerenza per gli interessi passivi relativi ai debiti della SPV. Nell’attuale formulazione del TUIR (così come modificato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244), le modalità di deduzione degli interessi passivi per i soggetti che rientrano nell’ambito di applicazione dell’IRES sono disciplinate dall’articolo 96 del TUIR.
Ferma restando l’applicazione delle norme in materia di corretta determinazione dei prezzi di trasferimento (c.d. “transfer pricing”), il quantum di interessi passivi deducibili, assunti così come espressi dal conto economico, è direttamente correlato al risultato della gestione caratteristica.
Ciò premesso, limitando l’analisi ai debiti assunti nell’ambito di operazioni di MLBO/LBO, si ritiene che gli interessi passivi relativi a prestiti contratti dalla SPV per l’acquisto di partecipazioni, in linea di principio, siano funzionali all’acquisizione della target company, sia nell’ipotesi di fusione (tipica delle operazione di MLBO), sia nella fattispecie in cui la compensazione intersoggettiva degli interessi avvenga mediante l’opzione per il consolidato fiscale.
In altri termini, si ritiene che, per i soggetti IRES, gli interessi passivi derivanti da operazioni di acquisizione con indebitamento debbano essere considerati, in linea di principio, inerenti e, quindi, deducibili, nei limiti di quanto previsto dal citato articolo 96 nonché dalle regole relative al transfer pricing, ove applicabili.
Tale conclusione si ritiene pienamente sostenibile tanto nell’ipotesi in cui l’operazione di MLBO/LBO sia posta in essere da un insieme di soggetti (soci e società del gruppo e finanziatori) esclusivamente residenti in Italia, quanto nell’ipotesi di presenza di soci e/o finanziatori non residenti in Italia, fermo restando quanto precisato nel paragrafo 3.3 (shareholder loan).
Si invitano, quindi, gli Uffici ad esaminare nuovamente le contestazioni aventi ad oggetto tali rilievi, per valutarne la fondatezza sulla base dei chiarimenti appena forniti.
2.2 La valutazione della natura elusiva dell’operazione con riferimento alla deduzione di interessi passivi e al riporto di perdite pregresse. In passato, le operazioni di LBO descritte nel paragrafo 1.2 sono state oggetto, in alcuni casi, di contestazioni sulla base della natura elusiva della struttura di investimento, in applicazione dei principi generali anti-elusivi. In tale ambito, è stato rilevato come l’unica finalità della struttura dell’operazione, se pur basata su strumenti leciti (fusione o consolidato fiscale), fosse quella di consentire la deduzione di interessi passivi e lo scomputo di perdite dal reddito della target diversamente non possibile.
Ai fini della presente circolare, limitatamente alla deduzione degli interessi e al riporto di perdite pregresse, nell’ambito delle operazioni di MLBO, si evidenzia quanto segue.
Le operazioni di MLBO vedono nella fusione (anche inversa) il logico epilogo dell’acquisizione mediante indebitamento, necessario anche a garantire il rientro, per i creditori, dell’esposizione debitoria. Di fatto, la struttura scelta, rispondendo a finalità extra-fiscali, riconosciute dal Codice Civile e, spesso, imposte dai finanziatori terzi, difficilmente potrebbe essere considerata finalizzata essenzialmente al conseguimento di indebiti vantaggi fiscali.
Pertanto, le contestazioni formulate sulla base del principio del divieto di abuso del diritto o sulla base dell’articolo 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, ovvero dell’articolo 10-bis della legge n. 212 del 2000, in relazione al vantaggio fiscale conseguito attraverso la deduzione degli oneri finanziari, per effetto del debt push down, dovranno essere riconsiderate dagli Uffici ed eventualmente abbandonate, salvo che, nei singoli casi, non si riscontrino altri specifici profili di artificiosità dell’operazione, così come posta in essere nel caso concreto, come nel caso in cui all’effettuazione dell’operazione di LBO abbiano concorso i medesimi soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano la società target.
Le precedenti considerazioni valgono anche con riferimento alla disapplicazione dei limiti antielusivi al riporto di perdite e interessi passivi, ai sensi dell’articolo 172, comma 7, del TUIR, nell’ambito di operazioni di fusione conseguenti ad acquisizioni avvenute secondo gli schemi del MLBO.
Come noto, il suddetto articolo 172 prevede, in sintesi, che le perdite fiscali e gli interessi passivi indeducibili delle società che partecipano ad un’operazione di fusione possono essere portati in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione ovvero dell’incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede quello del patrimonio netto della società che riporta le perdite, quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale redatta ai sensi dell’articolo 2501-quater del codice civile (senza tenere conto dei conferimenti e dei versamenti effettuati nei 24 mesi precedenti).
La medesima norma condiziona, inoltre, il diritto al riporto delle perdite fiscali e delle eccedenze di interessi passivi indeducibili, che non superano l’anzidetto limite del patrimonio netto alla c.d. “vitalità economica” della società in perdita, desunta dai ricavi conseguiti e dalle spese per prestazioni di lavoro subordinato sostenute nell’ultimo esercizio (che devono risultare superiori al 40 per cento della media dei due esercizi precedenti).
In un’ottica anti-elusiva, poi, la risoluzione dell’Agenzia delle entrate del 10 aprile 2008, n. 1431 (che conferma quella del 24 ottobre 2006, n. 1162) ha chiarito che: “I requisiti minimi di vitalità economica debbono sussistere non solo nel periodo precedente alla fusione, così come si ricava dal dato letterale, bensì debbono continuare a permanere fino al momento in cui la fusione viene deliberata. La stessa disposizione, infatti, verrebbe privata della sua portata antielusiva qualora fosse consentito il riporto delle perdite fiscali ad una società che è stata completamente depotenziata nell’arco di tempo intercorrente fra la chiusura dell’esercizio precedente alla fusione e la deliberazione dell’operazione medesima”.
In proposito si evidenzia che, nell’ambito delle operazioni di MLBO, la società veicolo, nella pluralità dei casi, non supera i limiti imposti dal comma 7 dell’articolo 172 citato:
1. in relazione al c.d. “test di vitalità economica”, poiché, essendo neo costituita, non dispone dei bilanci relativi agli anni precedenti sui quali effettuare tale test;
2. in relazione al limite quantitativo del patrimonio netto poiché, se il patrimonio netto della stessa SPV dovesse essere decurtato dei conferimenti/versamenti effettuati negli ultimi 24 mesi, detta società risulterebbe priva di un patrimonio netto (vista, come detto, la sua natura di neocostituita).
Tali circostanze, di per sé, produrrebbero l’effetto di bloccare il riporto delle eventuali perdite fiscali e degli interessi passivi non dedotti derivanti dall’indebitamento contratto dalla stessa SPV per l’acquisto della società target (operativa).
Tuttavia, il contribuente ha la facoltà di chiedere – a norma dell’articolo 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973 e, dal 1° gennaio 2016, dell’articolo 11, comma 2, della legge n. 212 del 2000 – la disapplicazione della norma antielusiva specifica contenuta nell’art. 172, comma 7, del TUIR, dimostrando che, nella particolare fattispecie, gli effetti elusivi che la norma intende contrastare non potevano verificarsi.
Con esclusivo riferimento alle Newco costituite nell’ambito di operazioni di merger leveraged buy-out, si rammenta che in merito al c.d. “test di vitalità”, l’assenza di bilanci precedenti con cui effettuare il raffronto richiesto dalla norma non esclude ex se la possibilità di indagare sulla sostanziale vitalità della società coinvolta nell’operazione straordinaria, potendo fare ricorso, semmai, ad altri fattori utili a dimostrare la sussistenza di tale requisito (cfr. risoluzione n. 337/E del 29 ottobre 20023); a tal riguardo, si ritiene che la società veicolo possa considerarsi “vitale”, svolgendo funzioni strumentali alla realizzazione dell’operazione di MLBO.
Per quanto concerne, poi, al limite del patrimonio netto di cui al citato comma 7 dell’articolo 172 del TUIR, si ritiene che i conferimenti iniziali a favore della società veicolo possano considerarsi “fisiologici” nell’ambito della realizzazione di un’operazione di MLBO e, pertanto, non rivolti a “consentire un pieno, quanto artificioso, recupero delle perdite fiscali” (cfr. circolare n. 9/E del 9 marzo 20104).
Sulla base di quanto fin qui affermato si ritiene, pertanto, che in tutte le ipotesi in cui si dimostri che le eccedenze di interessi passivi indeducibili e di perdite (di cui si chiede il riporto) siano esclusivamente quelle relative ai finanziamenti ottenuti dalla SPV per porre in essere un’operazione di acquisizione con indebitamento, potranno trovare accoglimento le istanze di disapplicazione della disposizione di cui all’articolo 172, comma 7, del TUIR.
2.3 I servizi infragruppo e la corretta ripartizione degli oneri. L’articolo 110, comma 7, del TUIR prevede che “componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito”.
Sulla base delle indicazioni contenute nelle linee guida OCSE in tema di transfer pricing, si evidenzia che “se una società madre raccoglie fondi per conto di un altro membro del gruppo il quale a sua volta li utilizza per acquisire una nuova società, si dovrebbe considerare la casa madre come fornitrice di un servizio al membro del gruppo” (cfr. Oecd TP Guidelines 2010, paragrafo 7.10).
In altri termini, qualora i soggetti che hanno costituito la Newco (o le strutture che controllano la stessa) abbiano raccolto le risorse all’esterno del gruppo mettendole, poi, a disposizione della SPV per consentirle di effettuare un’operazione di acquisizione con indebitamento, si ritiene che si configuri un servizio infragruppo reso a beneficio della Newco, la cui remunerazione deve rispettare quanto prescritto al comma 7 dell’articolo 110 del TUIR.
Diversamente, qualora l’SPV residente in Italia abbia ottenuto direttamente i mezzi necessari all’acquisizione della partecipazione (anche utilizzando quale garanzia le partecipazioni nella target company), si ritiene che la fattispecie non sia riconducibile allo schema sopra illustrato e che non si configuri pertanto un servizio infragruppo per il quale l’SPV debba conseguire adeguata remunerazione da entità non residenti del gruppo.
Si invitano, quindi, gli Uffici ad esaminare nuovamente le contestazioni aventi ad oggetto tali rilievi, per valutarne la fondatezza sulla base dei chiarimenti appena forniti.
3. il trattamento fiscale delle componenti reddituali corrisposte alle private equity firm e ai finanziatori residenti all’estero
In presenza di strutture complesse, cui partecipano soggetti localizzati in paesi esteri, i temi da sviluppare in sede di controllo possono essere così identificati:
1. trattamento fiscale dei costi per servizi addebitati da parte del gestore del fondo o di entità a lui riconducibili alle società target o alla SPV (cfr. paragrafo 3.1);
2. applicazione di ritenute alla fonte sugli interessi destinati ai soggetti finanziatori (cfr. paragrafo 3.2);
3. qualificazione fiscale del debito tecnicamente individuato con il nome di shareholder loan (cfr. paragrafo 3.3);
4. applicazione di ritenute ai flussi di dividendi corrisposti dalla Bidco/MergerCo alla controllante estera e/o trattamento fiscale delle plusvalenze/minusvalenze derivanti dall’exit dall’operazione di investimento (cfr. paragrafo 3.4).
Tutte le questioni in esame incidono sul rendimento dell’operazione per l’investitore e, pertanto, hanno effetti sulla corretta distribuzione della potestà impositiva tra i diversi paesi coinvolti, sia dell’Unione europea sia extra UE.
Di seguito si riportano alcuni chiarimenti utili per l’individuazione del loro corretto trattamento fiscale.
Appare opportuno precisare che, in generale, la verifica dell’applicabilità dei regimi di esenzione o agevolativi (anche di origine convenzionale) ai redditi compresi nei flussi di natura finanziaria, dall’Italia verso l’estero o estero su estero, deve essere operata con riferimento a ciascuna tipologia di reddito finanziario.
Si dovrà pertanto tener conto della circostanza che il reddito in questione sia costituito da interessi, dividendi o plusvalenze da cessione di partecipazioni nelle società intermedie o nella società target.
3.1 Il trattamento fiscale delle “other fee” addebitate alle società target. La descrizione delle differenti tipologie di commissioni addebitate dalla private equity firm (ai fini del presente paragrafo intesa generalmente sia come gestore del fondo sia come manager) fornita nel par. 1.3 mette in luce alcuni elementi che devono essere necessariamente considerati al fine di valutarne il corretto trattamento fiscale.
In particolare, la stretta correlazione tra management fee e other fee originata dal peculiare meccanismo di compensazione dei relativi importi e la difficoltà di distinguere la causa dei diversi addebiti, pone la necessità di valutare con attenzione l’inerenza e la corretta quantificazione delle commissioni addebitate dalla private equity firm alle portfolio company (quest’ultime, come già chiarito, sono le società target che, una volta acquisite dal fondo, entrano nel relativo portafoglio di investimenti).
Ciò che si intende evitare è che costi per servizi erogati nell’interesse dei quotisti/partner – i.e. gli investitori di ultima istanza, per il tramite del fondo – possano gravare, anche per motivi di carattere fiscale, in capo ai veicoli costituiti in Italia, in luogo che essere dedotti dal rendimento corrisposto dal fondo agli stessi investitori.
Pertanto, nell’ambito dell’ordinaria attività di valutazione dell’inerenza e della corretta ripartizione dei costi per servizi, devono essere presi in considerazione tutti gli elementi utili a riconoscere le peculiarità che caratterizzano il modus operandi dei fondi di private equity.
A tal fine, si ritiene che tale valutazione non possa prescindere dalla comprensione, in termini generali, delle diverse forme di remunerazione delle private equity firm (sinteticamente descritta al par. 1.3), nonché dalle specifiche informazioni relative al caso concreto, eventualmente rilevate durante le attività di controllo e dall’analisi di alcune clausole/condizioni contrattuali, che possono rappresentare un indice per la valutazione dell’inerenza dei relativi costi, quali quelle di seguito elencate a titolo meramente esemplificativo:
• clausole che prevedono la compensazione, totale o parziale, delle management fee (dovute dal fondo) con le other fee (addebitate alle portfolio company), riscontrabili nel limited partnership agreement (qualora disponibile);
• condizioni contrattuali eccessivamente “sbilanciate” in favore del prestatore di servizi (la private equity firm), in contrasto con le normali logiche di mercato;
• clausole che vincolano il pagamento delle commissioni alle private equity firm agli stessi limiti previsti per la distribuzione degli utili, rilevabili nei contratti di finanziamento sottoscritti da Newco, Bidco o target con terzi finanziatori (ad esempio, senior facility agreement e intercreditor agreement);
• condizioni previste in altri contratti (o circostanze fattuali) da cui risulti, ad esempio, che in presenza di un’operazione di LBO, promossa da due o più fondi di private equity, una o più other fee sono addebitate dalle diverse private equity firm in misura pari alla percentuale di partecipazione nella società target (rectius portfolio company).
L’elenco sopra riportato ha natura esemplificativa e, come tale, non individua condizioni necessarie e/o sufficienti per esprimere un giudizio sul corretto trattamento fiscale, il quale dovrà invece essere valutato alla luce di tutti gli elementi disponibili.
In definitiva, solo nel caso in cui, a seguito di un’accurata analisi, emergesse che taluna delle other fee sia stata addebitata alla portfolio company a fronte di un servizio erogato dalla private equity firm nell’interesse esclusivo del fondo e dei relativi investitori, il relativo costo dovrà essere disconosciuto per difetto di inerenza, ai sensi dell’art. 109 comma 5 del TUIR.
Diversamente, qualora emergesse che il predetto costo addebitato alla portfolio company si riferisca ad una prestazione effettuata nell’interesse di quest’ultima, dovrà essere valutata, ai sensi dell’art. 110 co. 7 del TUIR, la congruità del corrispettivo addebitato da entità non residenti riferibili alla private equity firm, dato il controllo di fatto (art. 2359 co.1 n. 3 del Codice Civile) che quest’ultima esercita nei confronti delle portfolio company.
Inoltre, sarà necessario valutare anche i profili relativi alla disciplina IVA, ai fini della detrazione dell’imposta addebitata alla portfolio company o alla SPV; ciò nel presupposto che le fee in esame siano da assoggettare ad imposta sul valore aggiunto, e non rientrino invece nelle previsioni di esenzione di cui all’articolo 10 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Con riguardo al diritto alla detrazione, si ricorda che con l’articolo 168 della Direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006 (recepito nel nostro ordinamento dagli articoli 19 e seguenti del d.P.R. n. 633 del 1972), il legislatore comunitario dispone che il soggetto passivo può detrarre dall’imposta di cui è debitore l’IVA dovuta per beni e servizi qualora gli stessi siano afferenti l’attività esercitata, e cioè “nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta (omissis)”.
La Corte di Giustizia, con orientamento costante, afferma che il diritto a detrarre l’IVA gravante sull’acquisto di beni e servizi a monte presuppone che le spese compiute per acquistare questi ultimi facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle che conferiscono il diritto a detrazione (si veda, tra le altre, la sentenza AB SKF del 29 ottobre 2009, causa C-29/08). In più occasioni, inoltre, la stessa Corte ha ritenuto che la mera detenzione di una partecipazione societaria, senza il compimento di operazioni ulteriori e soggette ad IVA, non configuri lo svolgimento di un’attività economica, in forza della quale una società può acquisire la qualifica di soggetto passivo dell’imposta.
Risulta, in tal modo, precluso il diritto alla detrazione dell’imposta, legato inscindibilmente alla qualificazione dell’operatore come soggetto passivo di imposta (sentenza del 6 febbraio 1997, causa C-80/95; sentenza del 22 giugno 1993, causa C-333/91). Tale riconoscimento, infatti, è subordinato all’avvenuta “ingerenza” o “interferenza” nella gestione delle stesse società controllate (sentenze della Corte di giustizia del 27 settembre 2001, causa C-16/00; del 6 settembre 2012, causa C-496/11; del 16 luglio 2015 cause riunite C-108/14 e C-109/14), che si traduce nel compimento di operazioni rientranti nell’ambito applicativo dell’imposta, quali le prestazione di servizi amministrativi, finanziari, commerciali e tecnici verso le società consociate.
Coerentemente al predetto orientamento, ai fini della detraibilità dell’IVA assolta sugli acquisti, si ritiene che deve farsi riferimento alla tipologia delle operazioni attive poste in essere (cfr. risoluzione n. 100/E del 25 luglio 20055 e risoluzione n. 61/E dell’11 marzo 20096).
Inoltre, si deve opportunamente sottolineare che il quinto comma dell’articolo 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 esclude che esercitino attività commerciale (e siano, pertanto, prive dei requisiti per essere considerati soggetti passivi di imposta) i soggetti la cui attività consiste nel mero possesso di attività finanziarie non strumentale, né accessorio, ad altre attività esercitate dall’operatore economico (disposizione, introdotta dall’art 1 del D.lgs. n. 313 del 2 settembre 1997 con finalità antielusive).
Alla luce di quanto esposto, quindi, ove ci si trovi in presenza di una situazione in cui la società veicolo (c.d. Special Purpose Vehicle – SPV o Bidco o Newco) esercita quale attività la sola detenzione di partecipazioni, senza interferire in alcun modo nella gestione delle società controllate, si è del parere che non possa essere riconosciuto il diritto alla detrazione dell’IVA gravante sulle other fee né alla predetta società veicolo, né – successivamente alla fusione – alla società target qualora la stessa sia stata incorporata o abbia incorporato la citata SPV.
A diverse conclusioni circa la detraibilità dell’IVA addebitata si potrebbe giungere, ovviamente, nel caso in cui la società veicolo non rivesta un ruolo di mero detentore di partecipazioni, svolgendo un’attività commerciale ai sensi di quanto disposto dall’articolo 9 della direttiva n. 112 del 2006, così come recepito dall’articolo 4 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Ulteriori considerazioni, infine, deve essere effettuate ai fini della detraibilità dell’imposta addebitata alla portfolio company.
La Corte di Giustizia, infatti ha chiarito, che la verifica dell’esistenza del nesso diretto e immediato, che deve sussistere fra un’operazione a monte e le operazioni a valle (nesso necessario affinché l’imposta assolta a monte sia detraibile), deve essere effettuata tenendo conto di tutte le circostanze in cui si sono svolte le operazioni in esame, anche alla luce del loro contenuto oggettivo (causa C-104/12, sentenza del 21 febbraio 2013),
In forza di tale principio, è necessario, in linea generale, rimarcare che non potrà essere riconosciuta la detrazione dell’imposta, addebitata in via di rivalsa, in tutte quelle ipotesi in cui – da un’accurata analisi delle circostanze che caratterizzano la fattispecie concreta – emergesse che taluna delle other fee sia riferibile ad un servizio reso dalla private equity firm nell’interesse esclusivo del fondo e dei relativi investitori (committenti effettivi), e non nei confronti della portfolio company cui formalmente viene imputata la commissione medesima.
3.2 Applicazione delle ritenute sugli interessi relativi ai finanziamenti concessi dalle Italian Bank Lender Of Record (IBLOR) o rientranti nell’articolo 26-quater del d.P.R. n. 600 del 1973 (Direttiva interessi e canoni). Come già evidenziato, nelle operazioni in esame, una parte rilevante dei finanziamenti è erogata da operatori terzi anche non residenti. Per rendere più efficiente tale erogazione, gli operatori hanno sviluppato specifiche strutture di sindacazione del debito.
Preliminarmente, nel seguito vengono esaminate le fattispecie riconducibili alla modalità di sindacazione secondo lo schema dei c.d. Italian Bank Lender of Record – IBLOR.
Lo schema si sostanzia, nella prassi operativa, in una struttura di fronting rappresentata da una banca residente o localizzata in Italia per mezzo di stabile organizzazione (bilateral lender) che eroga un finanziamento a favore di una società italiana, mentre altri operatori (banche, società finanziarie, fondi specializzati, etc.) partecipano al rischio di credito, sottoscrivendo con il bilateral lender appositi accordi (“Credit Support Agreement”), in base ai quali forniscono garanzia e consegnano al bilateral lender una somma di denaro, il cui rimborso e la cui remunerazione è collegata (nei tempi e nella misura) al rimborso (capitale) ed al pagamento di interessi (e commissioni) relativi al finanziamento (“Credit agreement”) erogato al soggetto finanziato.
Negli IBLOR c.d. trasparenti, il soggetto finanziato applica direttamente le ritenute sulla quota di interessi di spettanza dei credit support providers (CSP) non residenti, non ritenendo rilevante, a tali fini, il rapporto con la banca residente (“flow-through”), salvo che per la quota a pieno rischio di quest’ultima.
Negli IBLOR c.d. opachi, il soggetto finanziato, viceversa, non attribuendo rilevanza alcuna al rapporto con i CSP, considera rilevante unicamente il rapporto con la banca residente e non applica alcuna ritenuta sugli interessi ad essa corrisposti. Il rapporto tra la banca residente ed i CSP, a sua volta, origina il pagamento di interessi su “depositi bancari” e commissioni di garanzia che godono, rispettivamente, di extraterritorialità, in applicazione dall’articolo 23, comma 1, lettera b) del TUIR, e di esenzione, secondo quanto disposto dall’articolo 26-bis, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, se i garanti sono white list (ossia “soggetti residenti all’estero, di cui all’articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, e successive modificazioni”). Con particolare riferimento all’uso delle strutture IBLOR sopra illustrate, si ritengono condivisibili le contestazioni aventi ad oggetto l’omessa applicazione di ritenute alla fonte a titolo di imposta, di cui all’articolo 26, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, nei confronti dei CSP non residenti.
In particolare, i rilievi sinora contestati in relazione a strutture IBLOR opache si basano sulla corretta qualificazione dei redditi in esame come interessi da finanziamento, corrisposti da un soggetto residente, per mezzo di una banca localizzata in Italia, a soggetti non residenti e quindi imponibili in Italia ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. b), del TUIR.
In definitiva, si tratta di rilievi originati dall’analisi delle clausole contrattuali e della documentazione contabile ed extracontabile, ossia da riscontri di fatto comprovanti il ruolo di mero intermediario sostanziale (sotto forma di “interposizione reale”) svolto dalla banca residente, nell’incasso e nel contestuale riversamento dei flussi reddituali, tra il soggetto finanziato ed i CSP non residenti, in violazione dei precetti di cui all’articolo 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 (cfr. sentenza Cassazione del 10 giugno 2011, n. 12788).
Tuttavia, si ritiene che con riferimento alle suddette fattispecie poste in essere prima della pubblicazione della presente circolare, possano ravvisarsi le obiettive condizioni di incertezza applicativa delle norme, prevista all’articolo 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, quale causa di non punibilità, ai fini sanzionatori, delle violazioni commesse.
Inoltre, si evidenzia che, in talune ipotesi emerse sulla base dell’evidenza empirica, non tutti i finanziamenti sono erogati alla Newco per mezzo di strutture IBLOR con banche residenti nel ruolo di bilateral lender. Piuttosto, alcune tranche del finanziamento complessivo (si pensi ad esempio ai finanziamenti mezzanino o al c.d. vendor loan) sono “sindacate” per il tramite di una società veicolo non localizzata in Italia – di norma, residente in UE o in stato che beneficia delle prescrizioni della Direttiva 2003/49/CE del consiglio dell’Unione europea del 3 giugno 2003 (c.d. “Direttiva Interessi e Canoni”) – consociata della società Newco (e post fusione con MergerCo), alla quale eroga poi le risorse con operazioni back to back.
In tali fattispecie, diversamente da quanto sarebbe accaduto se Newco/MergerCo avesse direttamente ricevuto dai soggetti non residenti i finanziamenti di cui si tratta, in applicazione della Direttiva Interessi e Canoni, e sulla base del prescritto rapporto di partecipazione, gli interessi erogati dalla Newco/MergerCo a favore del citato veicolo non sono assoggettati a ritenuta in uscita a titolo di imposta.
Al riguardo, si conferma la sostenibilità delle contestazioni relative all’assenza della qualifica di “beneficiario effettivo” o la natura di interposto reale in capo al predetto veicolo, operate sulla base di un’analisi caso per caso ed avente ad oggetto, principalmente, la natura back to back dei finanziamenti, ad esempio in termini di importo, condizioni, tassi, termini di pagamento e clausole non recourse.
Tuttavia, relativamente a tutte le suddette ipotesi di contestazioni, si evidenzia che l’art. 22, comma 1, decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, ha introdotto nell’articolo 26 del d.P.R. n. 600 del 1973 il comma 5-bis, che, stando alla lettera della norma, esclude l’applicazione della ritenuta di cui al comma 5 agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine erogati alle imprese italiane dai soggetti più avanti elencati.
Al riguardo, preme evidenziare che con l’introduzione della richiamata disposizione, il legislatore ha evidentemente voluto escludere non solo l’applicazione della ritenuta, ma anche l’imponibilità degli interessi in commento prevista dall’articolo 23, comma 1, lett. b), del TUIR. Ciò in coerenza con la ratio della nuova disposizione, dichiaratamente agevolativa, da individuare nella volontà di eliminare il rischio di doppia imposizione giuridica, che economicamente risulta traslato sul debitore, favorendo in ultima analisi l’accesso delle imprese italiane a costi competitivi anche a fonti di finanziamento estere.
Il testo del predetto comma 5-bis, nella formulazione vigente a seguito delle recenti modifiche apportate dall’articolo 17 del decreto-legge del 14 febbraio 2016, n. 18, dispone che, “Ferme restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385”, i soggetti esteri nei cui confronti trovano applicazione le misure agevolative previste dal predetto comma 5-bis sono i seguenti:
• enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea (individuati all’articolo 2, paragrafo 5, numeri da 4 a 23, della direttiva 2013/36/UE);
• imprese di assicurazione costituite e autorizzate ai sensi di normative emanate da Stati membri dell’Unione europea;
• investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti.
Pertanto, per quanto concerne gli interessi corrisposti successivamente all’entrata in vigore del citato comma 5-bis, eventuali contestazioni aventi ad oggetto la corretta applicazione delle ritenute in uscita relative a strutture IBLOR o all’assenza della qualifica di beneficiario effettivo sono da ritenere non sostenibili nella misura in cui i soggetti non residenti (ossia i CSP o i soggetti che hanno fornito la provvista alla società del gruppo) rientrino nell’ambito di applicazione della citata norma.
3.3 I finanziamenti erogati da parte dei soci esteri (shareholder loan). Il reperimento delle risorse necessarie per finanziare l’esecuzione dell’operazione di acquisizione assume anche rilievo in ordine al trattamento dei finanziamenti da parte dei soci esteri (di seguito, shareholder loan). Spesso accade, infatti, che le risorse finanziare complessivamente impiegate nel fondo dagli investitori vengano, per mezzo della struttura intermedia, messe a disposizione della SPV appositamente costituita per l’acquisizione della società target in parte sotto forma di capitale di rischio (equity) ed in parte sotto forma di finanziamento (debt).
Gli interessi passivi che discendono dalla porzione investita tramite finanziamenti debbono essere assoggettati alle ordinarie regole di determinazione del reddito di impresa e, pertanto, sottostare sia alle disposizioni relative alla determinazione dei corrispettivi infragruppo (c.d. transfer pricing) sia alle ordinarie disposizioni relative alla deducibilità.
In relazione ai rapporti infragruppo, è necessario che gli interessi passivi pattuiti tra il mutuante ed il mutuatario, nel rispetto delle disposizioni sia interne che convenzionali, non eccedano quelli che sarebbero stati pattuiti tra parti indipendenti per operazioni analoghe o similari in condizioni comparabili (c.d. arm’s length principle). Si tratta, in linea generale, delle disposizioni contenute nel combinato disposto di cui agli artt. 110, co. 7, e 9, co. 3, del TUIR e nelle Convenzioni generalmente interpretate alla luce dei principi internazionali (Commentario al Modello di Convenzione e Linee Guida OCSE).
Con particolare riguardo agli shareholder loan, nel contesto della complessiva struttura finanziaria di acquisizione, è anche necessario focalizzare l’attenzione sulla possibilità – al ricorrere di particolari ed eccezionali circostanze – di riqualificare le operazioni di finanziamento in apporti di capitale sulla scorta delle indicazioni contenute nelle Linee Guida OCSE ai par. 1.64-1.67.
Al riguardo, si ritiene che tali circostanze, riconducibili in linea generale alla mancata corrispondenza tra la forma giuridica dell’operazione e la sua sostanza economica, nel caso dello shareholder loan, si verificano quando “tenuto conto della situazione economica dell’impresa mutuataria, l’investimento non avrebbe dovuto prendere tale forma” (cfr. par. 1.65 – Linee Guida OCSE).
Nell’ambito delle operazioni di acquisizione con indebitamento, in particolare, tale mancanza di corrispondenza tra forma e sostanza può verificarsi con specifico riguardo al finanziamento soci alimentato da risorse finanziarie riconducibili a quelle messe a disposizione dagli investitori (ad es. tramite l’investimento nel fondo di investimento) e tenendo conto delle modalità con cui tali risorse si inseriscono nella più ampia struttura del finanziamento erogato dai terzi finanziatori.
Si tratta, sostanzialmente, del caso in cui lo shareholder loan, nella prospettiva di finanziatori terzi, viene parificato a tutti gli effetti, in modo esplicito od implicito, ad un apporto di capitale, prevedendosi ad esempio che:
• il rimborso del capitale ed il pagamento degli interessi sia rinviato a data successiva al rimborso integrale del capitale ed al pagamento integrale degli interessi dovuti ai terzi finanziatori;
• gli indici finanziari definiti nei financial covenants, che definiscono le condizioni di default, non comprendano nella definizione di debito ed in quella di interessi il debito per finanziamento soci e gli interessi per finanziamento soci;
• il pagamento degli interessi ed i rimborsi di capitale siano sottoposti alle medesime restrizioni cui sono sottoposti i dividendi e le riduzioni del capitale e delle riserve di capitale.
Qualora tutto ciò sia adeguatamente dimostrato, la forma di debito (shareholder loan) può essere valutata come non conforme alla sostanza economica. Tale non conformità non può essere presunta ma, data la natura eccezionale dell’intervento di riqualificazione (pena l’arbitrarietà delle conclusioni cfr. par. 1.64), deve essere valutata caso per caso sulla base di indici fattuali ed obiettivi che rendano evidente la funzione di tali fondi nei rapporti con i terzi indipendenti.
Le indicazioni necessarie a cogliere tali indici obiettivi sono generalmente contenute nei documenti contrattuali che compongono il c.d. financial package, consistente in tutti i contratti di finanziamento sottoscritti dalla mutuataria, dalla sua controllante o dalle sue controllate con i terzi finanziatori (compreso il c.d. intercreditor agreement), e nei documenti programmatici ed esecutivi che delineano la complessiva operazione dal punto di vista economico, finanziario o legale (ad es. il c.d. structure memorandum).
In questi documenti, talvolta, la funzione attribuita al finanziamento di cui si tratta può essere espressamente descritta per mezzo di clausole che prevedono che, per ogni finalità connessa ai rapporti con i terzi finanziatori, lo shareholder loan venga trattato quale contributo in conto capitale e gli interessi quali dividendi.
Al ricorrere di indici obiettivi quali quelli sopra descritti o di analogo tenore è necessario rilevare la non conformità della forma dello shareholder loan rispetto alla sua sostanza economica ed operare la riqualificazione, ai fini fiscali, di tale finanziamento in apporto di capitale, con conseguente indeducibilità dei relativi interessi passivi.
Inoltre sarà necessario tenere conto delle ulteriori conseguenze, per esempio:
• rideterminare l’agevolazione ACE, al ricorrere dei presupposti richiesti dalla disciplina di cui al decreto-legge n. 201 del 2011, salva l’applicazione agli apporti derivanti dalla riqualificazione dello shareholder loan della disciplina antielusiva specifica (art. 10 del D.M. 14 marzo 2012) e generale (art. 10-bis della legge n. 212 del 2000);
• applicare la disciplina prevista per i dividendi in uscita, all’eventuale pagamento degli interessi relativi al finanziamento di cui si tratta.
Si segnala, infine, come, con riferimento alle fattispecie oggetto del presente paragrafo poste in essere prima della pubblicazione della presente circolare, si possono ravvisare le obiettive condizioni di incertezza applicativa delle norme, di cui all’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997 (cfr. Cass. civ., Sez. V, sent. 23 marzo 2012, n. 4683), quale causa di non punibilità, ai fini sanzionatori, delle violazioni commesse.
3.4 Applicazione della disciplina delle ritenute ai dividendi destinati all’estero e della tassazione delle plusvalenze realizzate dalla cessione della MergerCo localizzata in Italia. Nell’ambito delle operazioni di LBO istituzionale, l’exit dall’investimento rappresenta la fase conclusiva in vista della quale è finalizzata gran parte dell’attività di strutturazione definita sinteticamente nel par. 1.2.
L’obiettivo principale è quello di trasferire, il più rapidamente possibile, le risorse finanziarie derivanti dal disinvestimento agli investitori, minimizzando il carico fiscale che la transnazionalità delle strutture utilizzate dai fondi esteri potrebbe generare (riducendo tanto il rendimento complessivo dell’operazione quanto la parte variabile della remunerazione dei gestori).
In una prospettiva fiscale, le modalità attraverso cui tali somme fluiscono verso le entità che detengono direttamente o indirettamente il controllo nella società Newco/MergerCo, sono due e, nel caso delle strutture simili a quella descritta nel paragrafo 1.2, dipendono essenzialmente dalla presenza o meno di un ulteriore veicolo italiano (ItaHoldco) tra Holdco e Bidco/MergerCo:
• cessione da parte di Holdco (non residente in Italia) delle partecipazioni in MergerCo (residente in Italia). Tale evento genera alternativamente: (i) una plusvalenza fiscalmente rilevante nello Stato di residenza di Holdco, in presenza di una Convenzione contro le Doppie Imposizioni (di seguito: CDI), ovvero al ricorrere delle condizioni di cui all’articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 461 del 1997; (ii) in caso contrario, una plusvalenza rilevante in Italia (art. 23, comma 1, lett. f, del TUIR);
• cessione da parte dell’ulteriore SPV residente in Italia (ItaHoldco) delle partecipazioni in MergerCo e successiva distribuzione a Holdco (non residente in Italia) della “plusvalenza” sotto forma di dividendi che, alternativamente:
– saranno esenti da ritenuta in applicazione dell’articolo 27-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, o
– godranno della ritenuta “ridotta” nei confronti di società ed enti soggetti ad un’imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell’UE e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo, in applicazione del comma 3-ter dell’art. 27 del medesimo d.P.R., o
– saranno soggetti all’applicazione delle ritenuta convenzionale nei confronti dei soggetti extra-UE residenti in Stati con cui esiste una CDI o, infine
– sconteranno le ritenute ordinarie.
Le strutture descritte nel paragrafo 1.2, grazie all’utilizzo di veicoli intermedi (Holdco), conseguono spesso il risultato di eliminare ogni livello di tassazione sul rendimento dell’investimento (salvo quello che, in ipotesi, si verifica in capo agli investitori, il cui concreto manifestarsi non è possibile conoscere quando il fondo è localizzato in un Paese non collaborativo) combinando l’utilizzo di disposizioni di origine comunitaria e/o convenzionale (ad es. il regime di dividendi intracomunitari o il regime convenzionale dei “capital gains”), con il ricorso a particolari strumenti finanziari, che in alcuni casi sono anche oggetto di accordi con l’autorità fiscale di Paesi diversi dall’Italia (c.d. ruling opachi).
Nello specifico si possono verificare i seguenti effetti di natura fiscale:
1. mancata imposizione in Italia delle plusvalenze da cessione di azioni (territorialmente rilevanti in base all’articolo 23 comma 1, lettera f, del TUIR) attraverso il regime convenzionale che attribuisce la potestà impositiva alla giurisdizione di residenza del cedente (es: in caso di cessione delle partecipazioni in MergerCo/Bidco da parte della Holdco);
2. mancata o ridotta applicazione delle ritenute ai dividendi in uscita dall’Italia, attraverso l’esenzione ex art 27-bis o l’aliquota ridotta del comma 3-ter dell’art. 27 del d.P.R. n. 600 del 1973 (es: in caso di cessione delle partecipazioni in MergCo/Bidco da parte di ItaHoldco)
3. nessuna o ridotta imposizione nel paese estero (es: la giurisdizione di Holdco) attraverso strumenti finanziari che, ad esempio, consentano la compensazione dei componenti reddituali provenienti dall’Italia con la veicolazione al fondo (e, dunque, agli investitori) del rendimento dell’operazione in esenzione di ritenute.
Il conseguimento di tali risultati, quando ottenuto attraverso strutture dotate della necessaria sostanza economica e, quindi, genuine, non può essere sindacato, posto l’orientamento consolidato della giurisprudenza comunitaria in tema di libertà di stabilimento.
La condizione di genuinità nell’ambito delle strutture implementate dai fondi di investimento si traduce nella necessità di verificare che le entità intermedie, utilizzate dai fondi di private equity (e da cui scaturiscono i benefici fiscali), siano caratterizzate da un radicamento effettivo nel tessuto economico del Paese di insediamento (ad es. Holdco) ovvero che non fungano da mere “conduit” con riferimento alla singola transazione, non svolgendo una reale e genuina attività economica. In altri termini, tali entità intermedie possono dirsi prive di sostanza economica sulla base del riscontro di almeno una delle seguenti caratteristiche:
• una struttura organizzativa “leggera” (ad esempio il personale, i locali e le attrezzature potrebbero risultare messe a disposizione da società domiciliatarie attraverso contratti di management service), priva di effettiva attività e di una reale consistenza e, in concreto, senza autonomia decisionale se non dal punto di vista formale (ad esempio il piano di gestione dell’investimento è predeterminato e la società si configura come mera ratificatrice ed esecutrice del medesimo) – insediamento artificioso o società conduit;
• una struttura finanziaria passante, con riguardo alla specifica operazione, in cui fonti e impieghi presentano condizioni contrattuali ed economiche quasi del tutto speculari (durata, importi, modalità e scadenza di maturazione degli interessi) o comunque funzionali a consentire la corrispondenza tra quanto incassato sugli impieghi e quanto pagato sulle fonti e la non applicazione di alcuna ritenuta in uscita nella giurisdizione in cui risiedono fiscalmente – operazioni conduit.
In tali circostanze, ossia in presenza di una struttura intermedia d’investimento priva di sostanza economica, nel suo complesso o con riferimento alla singola transazione, in mancanza di ragioni extra fiscali non marginali, i benefici fiscali indebiti, conseguiti per mezzo della stessa, possono essere disconosciuti applicando il regime ordinariamente previsto per il fondo (nell’ipotesi di investimento diretto). In altri termini, sulla base delle disposizioni antielusive, specifiche o generali, previste dall’ordinamento nazionale, comunitario o convenzionale, è possibile contrastare il fenomeno di interposizione nel pieno rispetto delle libertà fondamentali (cfr. circolare 32/E/20117, Raccomandazione della Commissione europea 772/2012, Direttiva 2015/121/UE).
Nel caso in cui, quindi, fosse dimostrato che un fondo estero, localizzato in un paese non collaborativo, abbia costituito in uno Stato UE Holdco e che questa entità sia una costruzione di puro artificio o che abbia posto in essere una operazione conduit tramite cui il fondo stesso evita il regime ordinario di tassazione, attraverso l’applicazione di disposizioni antielusive specifiche (ad es: comma 5 dell’articolo 27-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, per i dividendi in uscita) o generali (articolo 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, articolo 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 o, ratione temporis, art 10-bis della legge n. 212 del 2000, per le plusvalenze), sulla base di un’interpretazione comunitariamente orientata e nel rispetto delle relative regole procedurali con particolare riguardo al contraddittorio con il contribuente, sarà possibile:
1. sottoporre a tassazione le plusvalenze da cessione di azioni (vedi articolo 23, comma 1, lettera f, del TUIR), qualora Holdco abbia ceduto le partecipazioni di MergerCo/Bidco realizzando una plusvalenza;
2. applicare le ritenute piene ai dividendi in uscita dall’Italia (vedi articolo 27 del d.P.R. n. 600 del 1973), qualora Holdco abbia percepito dividendi da ItaHoldco.
Tale approccio risulta applicabile sia nel caso in cui la struttura di investimento abbia consentito di azzerare il livello di imposizione attraverso l’applicazione evasiva o abusiva di disposizioni nazionali e/o comunitarie, sia nel caso in cui i rendimenti dell’operazione abbiano scontato un livello di imposizione molto più basso rispetto a quello ordinario. Ciò accade ad esempio quando ItaHoldco distribuisce dividendi a una o più Holdco applicando la ritenuta ridotta (cd. euro-ritenuta) prevista dall’articolo 27, comma 3-ter, del d.P.R. n. 600 del 1973.
Pur in assenza di una specifica norma antiabuso, infatti, alla luce anche delle considerazioni già effettuate in materia di “costruzione di puro artificio” all’interno della circolare n. 32/E dell’8 luglio 2011, si ritiene sia possibile non riconoscere l’applicazione della ritenuta sui dividendi nella misura ridotta dell’1,375% a Holdco, laddove quest’ultima sia ricondotta ad una entità priva di sostanza economica.
Ugualmente, l’attrazione a tassazione in Italia, in forza delle disposizioni anti-elusive nazionali, delle plusvalenze realizzate da Holdco non sembrano porsi in contrasto con le disposizioni convenzionali che prevedono l’imponibilità dei capital gain nello Stato di residenza del soggetto non residente (art. 13 del modello di convenzione).
Preliminarmente, occorre osservare come le regole generali di interpretazione dei trattati di cui all’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969 (Legge di ratifica n. 112 del 1974), così come anche chiarito dal Commentario al Modello OCSE di Convenzione del 2014 (Commento all’articolo 1 punti 7 e 9.3) avvalorano la tesi per cui le Convenzioni contro le doppie imposizioni non hanno lo scopo di garantire i benefici in esse espressi anche ad operazioni abusive.
Ciò è rafforzato dal fatto che la definizione di operazioni abusive contenuta nelle disposizioni nazionali e comunitarie risulta coerente con quella fornita dal Commentario, secondo cui “i benefici di una Convenzione per evitare le doppie imposizioni non dovrebbero essere concessi nel caso in cui uno degli scopi principali di una operazione o di una struttura fosse quello di assicurare un regime fiscale più vantaggioso, e che l’ottenimento di tale regime fiscale di favore sarebbe contrario all’oggetto e allo scopo delle disposizioni rilevanti” (Commento articolo 1, punto 9.5).
Da ciò consegue che, qualora sia dimostrato, in forza di una disposizione anti-elusiva nazionale, che Holdco sia una costruzione priva di sostanza economica e sia stata costituita al fine essenziale di godere di benefici fiscali indebiti in assenza di valide ragioni economiche, si applicherà il trattamento fiscale eluso (imposizione della plusvalenza nello stato della fonte) in luogo delle disposizioni convenzionali (imposizione della plusvalenza nello stato di residenza).
Da ultimo, è opportuno evidenziare che stante in linea generale la natura di entità fiscalmente trasparenti dei veicoli di investimento collettivo (rectius, dei fondi), in base alla legislazione dello Stato in cui sono localizzati, al ricorrere di specifiche condizioni, gli investitori possono invocare direttamente i benefici convenzionali; a tal fine si devono ritenere validi i chiarimenti in merito alla cd. “trasparenza economica” e “trasparenza fiscale” forniti con i documenti di prassi risoluzione n. 17/E del 20068, risoluzione n. 167/E del 20089 e, da ultimo, circolare 21/E/201510 (cfr. par. 3.10 schema 12)».