12 Luglio, 2016

1. Il caso e la rimessione alla Corte di Giustizia

Con l’annotata ordinanza la Corte di Cassazione si è espressa sul rapporto intercorrente tra l’esdebitazione di cui all’art. 142 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, recante la c.d. legge fallimentare, e i debiti tributari del fallito.
Il giudizio riguardava una cartella di pagamento per IVA e IRAP. Il contribuente, fallito in proprio in qualità di socio accomandatario di una società in accomandita semplice, aveva ottenuto dal Tribunale un decreto di esdebitazione. I giudici tributari di merito, ritenendo che tale provvedimento rendesse inesigibili nei confronti del fallito anche i debiti di natura tributaria, avevano annullato la cartella di pagamento (1).
L’Agenzia delle entrate aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che i debiti tributari devono considerarsi esclusi dal beneficio in esame. A parere dell’Avvocatura di Stato i debiti tributari sarebbero «estranei all’esercizio dell’impresa» e quindi esclusi dall’esdebitazione per espressa disposizione dell’art. 142, terzo comma, lett a), della legge fallimentare (2). Inoltre, l’effetto liberatorio dell’esdebitazione si porrebbe in contrasto con l’art. 53 Cost., dal quale discende la «inderogabilità dei crediti tributari in quanto espressione del dovere di ogni soggetto di concorrere alle spese pubbliche».
La Suprema Corte si è mostrata però di diverso avviso.
In primo luogo, essa ha chiarito che le imposte in contestazione (IVA e IRAP) «sono dovute proprio e soltanto perché le operazioni economiche da cui scaturiscono costituiscono esercizio dell’impresa». Non poteva quindi invocarsi l’esclusione di cui all’art. 142, terzo comma, lett. a), della legge fallimentare.
In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha respinto l’eccezione relativa all’art. 53 Cost., osservando che: (i) l’argomento speso dall’Avvocatura di Stato comporterebbe l’illegittimità costituzionale non solo dell’esdebitazione, ma anche di «tutta una prassi legislativa che ha previsto la “definizione agevolata”, o addirittura l’abbandono, dei crediti tributari». A giudizio della Corte, tuttavia, la «presunta irrinunciabilità» dell’obbligazione tributaria sarebbe posta in crisi da disposizioni come l’art. 17-bis del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che consente all’Agenzia delle entrate, ai fini della mediazione, di avere riguardo all’incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa, in ossequio «alla eterna massima “pochi, maledetti e subito”, che induce a rinunciare ad una pretesa giuridicamente fondata, ma di incerto incasso, accettando una somma minore ma di sicuro incasso»; (ii) inoltre, secondo la Suprema Corte quasi tutti i crediti che possono divenire inesigibili per effetto dell’esdebitazione sarebbero dotati di una qualche tutela costituzionale (ad esempio, i crediti dei lavoratori dipendenti), ma il legislatore, in ottica di bilanciamento con altre disposizioni costituzionali, li sacrificherebbe «in vista del ragionevole obiettivo di consentire al fallito incolpevole (ed in genere a tutti gli indebitati) di riprendere la loro attività economica senza il timore di dover versare quasi tutto il percepito ai creditori»; (iii) infine, l’ordinanza de qua evidenzia che al termine della procedura concorsuale il fallito non dovrebbe più possedere alcun bene, il che renderebbe in ogni caso «di quasi impossibile soddisfacimento» il credito tributario (tutte le argomentazioni appena esposte sono riportate al punto 3 dell’ordinanza in commento).
A giudizio della Corte, dunque, l’inesigibilità dei crediti tributari derivante dal decreto di esdebitazione sarebbe compatibile con i nostri principi costituzionali.
Poiché la fattispecie oggetto di giudizio riguardava anche crediti IVA, peraltro, i Supremi Giudici hanno rilevato che l’effetto liberatorio del provvedimento in esame potrebbe porsi in contrasto con il principio comunitario di intangibilità dell’IVA.
L’ordinanza premette che, similmente a quanto avviene per il concordato preventivo, la “falcidia” dei debiti tributari non è accordata dalla legge in via astratta e indiscriminata, ma deriva da «considerazioni pratiche accertate giudizialmente», nella specie rappresentate da una valutazione del Tribunale in ordine alla possibilità per il soggetto beneficiario di reimmettersi nel mercato produttivo (punti 7 e 20 dell’ordinanza in esame) (3).
Nonostante ciò, poiché l’esdebitazione è riservata a un ristretto numero di soggetti, a giudizio della Suprema Corte si porrebbe «la questione della compatibilità della disciplina anzidetta con le regole della concorrenza ponendosi detta disciplina, operante sulla base dei requisiti soggettivi già ricordati, come potenzialmente idonea a favorire il reinserimento dei soggetti ammessi al detto beneficio rispetto ai soggetti falliti che non possono godere di tale trattamento perché esclusi ex lege dall’accesso a simile procedura» (punto 20 dell’ordinanza in commento).
In considerazione di quanto sopra, la Corte di Cassazione ha sospeso il processo e ha sollevato una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (4).
Nel complesso, la pronuncia in rassegna è ampiamente criticabile. Essa afferma che l’esdebitazione produce effetti anche sul piano tributario, ma trascura di indagarne la reale natura giuridica. Tali effetti sono acriticamente ricondotti a fenomeni di “definizione agevolata”, “abbandono” o “rinuncia” dei crediti tributari, che la Corte sembra ritenere legittimi in virtù di esigenze di certezza del credito e della sua riscossione. A causa dell’erroneo inquadramento della fattispecie, oltretutto, il provvedimento che si annota omette di effettuare una puntuale verifica della compatibilità del beneficio in esame con i principi costituzionali.
La decisione di adire i giudici di Lussemburgo è invece doverosa e può essere accolta con favore. In pochi mesi, si tratta del secondo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea operato da un giudice italiano con riferimento al principio di intangibilità dell’IVA, la cui esatta portata è evidentemente fonte di incertezze per gli interpreti (5).

2. L’esdebitazione e i suoi effetti sui debiti tributari

Come si è visto, l’ordinanza che si annota ha stabilito che l’esdebitazione produce effetti liberatori anche in relazione ai debiti tributari del fallito.
Nell’assumere tale decisione, la Suprema Corte non ha ravvisato ostacoli nella circostanza che gli artt. 142 e segg. della legge fallimentare non contengono un regime espresso per i debiti di natura tributaria (6). Implicitamente, dunque, la Suprema Corte conferma il principio, che sembra emergere dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale le norme del diritto fallimentare che prevedono un effetto liberatorio per il debitore, se non espressamente derogate, devono intendersi riferite anche ai crediti tributari (7).
La Corte di Cassazione non si è soffermata, tuttavia, ad analizzare la reale natura giuridica degli effetti liberatori dell’esdebitazione sui debiti tributari, che meriterebbero invece una riflessione più accurata. Per procedere a tale approfondimento, sembra necessario innanzitutto ricostruire il quadro normativo di riferimento.
L’art. 142 della legge fallimentare prevede che «Il fallito persona fisica è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti», a condizione che sussistano i requisiti di meritevolezza previsti dalla norma stessa (8).
Gli effetti dell’istituto in esame consistono nell’inesigibilità dei crediti nei confronti del fallito (e non, quindi, nell’estinzione del credito) (9). Alcune tipologie di obbligazioni, in ragione della loro peculiare natura, sono escluse ex lege dal beneficio de quo (10).
In dottrina si ritiene che l’esdebitazione sia finalizzata a consentire agli imprenditori individuali e ai soci illimitatamente responsabili di reimmettersi nuovamente nel sistema produttivo (c.d. “fresh start”), senza il peso dei debiti derivanti dalla precedente attività economica (c.d. “discharge”) (11). Non manca però chi sottolinea la natura premiale dell’istituto, che sarebbe volto a incoraggiare la collaborazione del fallito con gli organi della procedura (12).
L’esdebitazione è concessa dal Tribunale con decreto, contestualmente alla chiusura del fallimento o su ricorso del debitore presentato entro l’anno successivo.
Ai fini che qui interessano, occorre evidenziare alcune caratteristiche peculiari dell’istituto in esame.
In primo luogo, l’esdebitazione opera a prescindere dal consenso dei creditori. Il beneficio in esame, dunque, non costituisce propriamente un’ipotesi di “rinuncia” o “disposizione” del credito. L’atto di disposizione è tale in quanto è effettuato dal titolare del diritto, ma il decreto di esdebitazione è concesso dal Tribunale, che non è certamente il titolare del diritto che diviene inesigibile (13).
In secondo luogo, e soprattutto, l’esdebitazione opera unicamente a beneficio del debitore, senza alcun vantaggio, se non meramente eventuale e indiretto, per i creditori, che si vedono spogliati del loro credito senza alcuna possibilità di reazione (14). La prospettiva della liberazione dei debiti può senz’altro incoraggiare il fallito a impegnarsi per un miglior esito della procedura, ma la concessione del beneficio in esame non presuppone né una maggiore soddisfazione dei creditori, né un pagamento più celere di quello normalmente ottenibile in sede fallimentare.
Da tali considerazioni emerge chiaramente che gli effetti del beneficio in esame non sono riconducibili, come sostiene la Suprema Corte, agli schemi della “definizione agevolata”, “abbandono” o “rinuncia” dei crediti tributari, che ricorrerebbero nelle ipotesi di mediazione, accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, transazione fiscale, etc., e che sarebbero legittimi in quanto volti a tutelare esigenze di certezza del credito e di efficienza della riscossione (punto 3 dell’ordinanza in commento).
La pronuncia che si annota non coglie nel segno, sia perché l’esdebitazione non presuppone un atto di consenso dell’Amministrazione finanziaria, sia, soprattutto, perché l’effetto liberatorio che ne consegue si traduce in uno svantaggio senza contropartita per il creditore fiscale (e, più in generale, per tutti i creditori).
Per gli stessi motivi sopra ricordati, oltretutto, l’esdebitazione non può essere assimilata neanche agli altri istituti del diritto fallimentare che comportano un effetto liberatorio per il debitore (come il concordato preventivo, il concordato fallimentare e gli accordi di ristrutturazione dei debiti), che presuppongono il consenso della maggioranza dei creditori (15) e che possono presentare dei vantaggi anche per questi ultimi, assicurando loro un grado di soddisfazione maggiore di quello ottenibile in sede fallimentare o almeno l’immediato rientro di una parte delle somme dovute (16).
Ciò considerato, sembra che gli effetti dell’esdebitazione sui debiti tributari presentino maggiori affinità con i fenomeni di natura agevolativa (17).
In senso ampio, l’agevolazione comporta «un trattamento fiscale di favore rispetto al trattamento fiscale ordinariamente previsto» (18), che generalmente riguarda la fase di determinazione del presupposto, della base imponibile, dell’aliquota e della misura dell’imposta, ma che può operare anche nel momento solutorio del tributo (19).
Più precisamente, gli effetti del beneficio in esame sembrano equivalenti a quelli di un’agevolazione tributaria con finalità meramente extrafiscali, nel caso di specie coincidenti con la ratio dell’istituto (che, come si è già visto, è variamente individuata nel fresh start degli imprenditori individuali e dei soci illimitatamente responsabili e in una funzione “premiale”, tesa a incoraggiare la cooperazione del fallito con gli organi della procedura).
Ciò sembra valere, almeno, al fine di verificare se gli effetti dell’istituto in esame sui debiti tributari siano compatibili con i principi costituzionali.

3. I principi di capacità contributiva e di uguaglianza

L’equivoco in cui è incorsa la Suprema Corte nell’ordinanza in esame sembra essere dipeso dall’adozione di formule linguistiche generiche e imprecise, che sono solitamente utilizzate dalla giurisprudenza con riferimento agli istituti di definizione consensuale della pretesa tributaria (“definizione agevolata”, “abbandono”, “rinuncia”, etc.). L’impiego di tali espressioni da parte dell’annotata ordinanza si è tradotto nella formulazione di opinabili conseguenze sul piano giuridico.
Come già evidenziato, gli istituti sopra ricordati sono generalmente ritenuti legittimi dalla giurisprudenza di legittimità, perché attraverso gli stessi, a fronte di una parziale rinuncia alle proprie ragioni, l’Amministrazione finanziaria assicurerebbe la certezza del credito erariale o l’efficienza della riscossione (20).
L’accostamento a tali istituti, operato in base a formule dai confini incerti, ha indotto la Corte di Cassazione a ritenere legittimi anche gli effetti dell’esdebitazione sui debiti tributari del fallito.
Un’analisi più approfondita, libera da condizionamenti terminologici, avrebbe condotto però a conseguenze assai diverse sull’asserita compatibilità di tali effetti con i principi costituzionali.
L’affermata equivalenza tra gli effetti dell’esdebitazione sui debiti tributari e gli strumenti di natura agevolativa sembra infatti consentire di interrogarsi sulla legittimità dei primi alla luce dei limiti che il legislatore incontra nella creazione dei secondi (21).
In particolare, nel caso in esame vengono in considerazione i principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di uguaglianza (art. 3 Cost.) (22).
Un primo orientamento, autorevolmente sostenuto, ritiene che il principio di capacità contributiva non rappresenti un limite all’istituzione di norme agevolative, e che il legislatore possa prevedere trattamenti fiscali di favore anche al fine di perseguire obiettivi di natura extrafiscale non tutelati a livello costituzionale (23).
Naturalmente, il legislatore sarebbe comunque vincolato al rispetto del principio di uguaglianza (24).
Un secondo indirizzo afferma invece che, poiché l’art. 53 Cost. attribuisce rilievo costituzionale all’equo concorso alle spese pubbliche da parte di tutti i consociati, il perseguimento di finalità extrafiscali per mezzo di agevolazioni tributarie è legittimo solo se trova fondamento in principi di pari dignità costituzionale (25). Le finalità extrafiscali riconosciute dalla Costituzione sarebbero, ad esempio, la tutela del lavoro, del risparmio, della famiglia, la considerazione privilegiata della cooperazione, dell’accesso alla casa di abitazione, dell’azionariato popolare, etc. (26).
Anche in questa prospettiva, evidentemente, si rende necessario il rispetto del principio della parità di trattamento (27).
Tra le due tesi esposte, quest’ultima sembra preferibile, perché conforme alle esigenze di “giustizia tributaria” che informano il nostro ordinamento.
Come si è osservato in dottrina, il tributo è un credito dello Stato con funzione “comunitaria” o di ripartizione della spesa pubblica. Da ciò discende che per i contribuenti non è indifferente che gli altri cointeressati sostengano correttamente la propria parte di contribuzione. A fronte del medesimo livello di spesa, infatti, l’inadempienza di un soggetto si traduce in un immediato svantaggio per gli altri (28).
L’imposta deve essere ripartita tra i contribuenti secondo criteri di giustizia. L’ideale di giustizia per eccellenza è l’uguaglianza, che deve però essere intesa non nel senso di parità aritmetica, ma alla luce di specifici indicatori di capacità contributiva (29).
La lesione della parità di trattamento, come si è visto, si traduce in un’immediata lesione della posizione soggettiva degli altri contribuenti (30).
Il concetto di “giustizia tributaria” così riassunto, si sostiene, è tutelato a livello costituzionale dagli artt. 2, 3 e 53 Cost. La sua forza si dispiega sull’intero sistema tributario: «L’idea della giustizia tributaria è di vastissima latitudine. Essa ingloba il processo tributario ma non si esaurisce in esso; si impone al legislatore ordinario quando procede a formare o a modificare la sistematica disciplina (che è di diritto sostanziale) delle imposte e delle agevolazioni e/o esclusioni; si impone all’Amministrazione finanziaria» (31).
Se tale è la portata della “giustizia tributaria”, sembra che essa possa essere alterata esclusivamente per tutelare interessi di pari rilievo costituzionale (32).
L’applicazione dei principi appena delineati alla fattispecie in esame induce a ritenere che gli effetti liberatori dell’esdebitazione sui debiti tributari del fallito, in quanto assimilabili a quelli prodotti da un’agevolazione fiscale, possano ritenersi legittimi solo qualora siano volti a tutelare un interesse costituzionalmente rilevante.
A prima vista, l’ordinanza in esame sembra cogliere questo profilo, laddove afferma che il legislatore avrebbe operato «un bilanciamento di interessi (e di disposizioni costituzionali) contrapposte». A detta della Corte, in particolare, il legislatore avrebbe sacrificato la normale inderogabilità della ripartizione dei carichi tributari «in vista del ragionevole obiettivo di consentire al fallito incolpevole (ed in genere a tutti gli indebitati) di riprendere la loro attività economica senza il timore di dover versare quasi tutto il percepito ai creditori» (punto 3 dell’annotata ordinanza).
Il ragionamento, che sembra correttamente impostato, rimane però incompiuto. La Suprema Corte infatti non ha individuato le norme costituzionali che tutelerebbero l’interesse al fresh start (o che legittimerebbero la funzione premiale dell’esdebitazione), giustificando così la deroga alla normale “inderogabilità” della ripartizione dei carichi tributari.
Del tutto fuorviante sembra invece il riferimento al fatto che al termine della procedura fallimentare il credito tributario sarebbe «di quasi impossibile soddisfacimento» perché il fallito, nella normalità dei casi, non dovrebbe più possedere alcun bene (sempre punto 3 dell’annotata ordinanza).
In linea di principio, infatti, nulla impedisce al fallito, al termine della procedura, di produrre reddito e rinnovare così il proprio patrimonio (33). E, come tutti i crediti, anche quelli tributari sono garantiti dal patrimonio presente e futuro del debitore, ai sensi dell’art. 2740, primo comma, c.c. Del resto, se così non fosse non vi sarebbe alcun bisogno di un istituto come l’esdebitazione.
Di per sé, dunque, la scarsa realizzabilità del credito non ne giustifica l’inesigibilità senza contropartita.
Certamente, in molti casi può apparire “disumano” perseguire il debitore anche a distanza di anni dalla chiusura della procedura concorsuale. Il profilo “umanitario” dell’esdebitazione, però, non può condurre alla formulazione di argomenti infondati sul piano giuridico. Al contrario, esso dovrebbe essere correttamente valorizzato nella ricerca dei principi che possono legittimare, sul piano costituzionale, l’agevolazione in esame.

4. Il principio di intangibilità dell’IVA

Dal punto di vista del diritto interno, la pronuncia in rassegna non sembra in linea con le esigenze di giustizia tributaria sopra richiamate. Tali esigenze sembrano invece pienamente valorizzate sul versante comunitario, dove la Corte di Cassazione ha ravvisato un potenziale contrasto tra le norme sull’esdebitazione e il principio di intangibilità dell’IVA (34).
Il principio appena richiamato è stato enucleato dalla Corte di Giustizia europea nella sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06 del 2008 (35), con cui si è affermato che dagli artt. 2 e 22 della VI Direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 (oggi sostituita dalla Direttiva 2006/112/CE) e dall’art. 10 del Trattato CE (oggi art. 4, par. 3, del Trattato UE) emerge che «ogni Stato membro ha l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che l’IVA sia interamente riscossa nel suo territorio» (punto 37). Gli Stati membri sono liberi di scegliere i mezzi con i quali assicurare tale risultato, ma sono obbligati a «garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità» e a «non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti» (punto 39) (36).
A ben vedere, il principio di intangibilità dell’IVA trova la sua giustificazione in esigenze simili a quelle che sottendono l’inderogabilità del credito tributario ai sensi degli artt. 2, 3 e 53 Cost. (37).
Da un lato, infatti, la Corte di Giustizia europea ha precisato in più occasioni che le risorse derivanti dalla riscossione dell’IVA hanno una funzione “comunitaria”, poiché sono destinate, almeno in parte, a essere messe a disposizione dell’Unione europea (38).
Dall’altro, la Corte ha chiarito che il principio in esame è finalizzato a garantire la parità di trattamento tra i contribuenti. Nell’ordinamento europeo, il profilo dell’eguaglianza assume un connotato particolare, che è quello del rispetto del principio di neutralità dell’IVA e della tutela della concorrenza (39). Anche da questa peculiare angolazione, comunque, è evidente che un beneficio concesso a un soggetto si traduce in uno svantaggio per gli altri (anche se in questo caso, appunto, non direttamente nel senso di una maggiore contribuzione, ma principalmente in termini di lesione della libera concorrenza).
Se il principio di intangibilità dell’IVA ha radici simili a quelle del principio di inderogabilità dell’obbligazione tributaria ex artt. 2, 3 e 53 Cost., altrettanto simili sono le sue conseguenze. Esso si traduce infatti nel divieto di introdurre trattamenti fiscali di favore e di rinunciare all’applicazione o alla riscossione dell’IVA.
Anche in ambito europeo, quindi, come nel diritto interno, sembra che la compatibilità degli effetti liberatori dell’esdebitazione sui debiti tributari con i principi di riferimento debba essere valutata in ottica di bilanciamento con altri principi comunitari di pari livello (40).
In conclusione, sembra che la Corte di Giustizia europea dovrà appurare se gli interessi che sono sottesi all’esdebitazione (cioè in primo luogo il fresh start) siano tutelati da principi comunitari di rango pari al principio di intangibilità dell’IVA, che tutela invece l’interesse alla giustizia tributaria nelle imposte armonizzate.

5. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, sembra di potersi concludere che l’ordinanza in esame abbia adottato un “doppio binario”. La medesima esigenza di giustizia tributaria è stata infatti trascurata dal punto di vista del diritto interno, ma apprezzabilmente tutelata nell’ambito comunitario.
Nel sollevare la questione pregiudiziale, il provvedimento che si annota sembra voler suggerire alla Corte di Giustizia europea la strada da seguire per affermare la legittimità degli effetti liberatori del beneficio in esame sui debiti tributari del fallito.
In particolare, esso opera un accostamento tra il concordato preventivo e l’esdebitazione, sottolineando che in entrambi i casi la “falcidia” del credito non è accordata dalla legge in via astratta, ma deriva da «considerazioni pratiche accertate giudizialmente», rappresentate in un caso dalla possibilità di percepire solo una parte del credito IVA e, nell’altro, dall’insolvenza del debitore meritevole (punti 7 e 20 dell’ordinanza in commento).
L’accostamento non sembra sostenibile, a causa della profonda diversità delle due fattispecie e, di conseguenza, dei due quesiti.
Per quanto riguarda il concordato preventivo (41), la Corte di Giustizia europea è chiamata a valutare se un pagamento parziale del credito, superiore a quello ottenibile in sede fallimentare, sia compatibile con il principio di intangibilità dell’IVA. Sembra di sì, dal momento che non si tratta di un vero e proprio atto di disposizione, ma piuttosto di una massimizzazione del credito (42). L’ipotesi prospettata dal giudice rimettente è dunque estranea all’ambito di applicazione del principio in esame.
Per quanto riguarda l’esdebitazione, invece, come si è visto, l’ipotesi al vaglio della Corte rientra pienamente nel campo di applicazione dell’intangibilità. In questo caso, quindi, sembra che la Corte di Giustizia dovrà valutare se esista un principio che tuteli l’interesse al fresh start e che consenta di derogare legittimamente al principio di intangibilità dell’IVA.

Dott. Marco Fasola

(1) Nella giurisprudenza di merito, una pronuncia analoga è stata resa da Comm. trib. prov. di Treviso, sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 6, in Boll. Trib. On-line. I debiti tributari sarebbero inesigibili per effetto dell’esdebitazione anche secondo la relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione 14 aprile 2011, n. 35, 33. In dottrina si veda MAURO, La transazione fiscale nel labirinto delle norme e dei principi, in BASILAVECCHIA-CANNIZZARO-CARINCI (a cura di), La riscossione dei tributi, Milano, 2011, 335.
(2) La disposizione citata esclude dall’esdebitazione «gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa». L’Avvocatura di Stato sosteneva che tutte le obbligazioni che non rispondono alla “finalità imprenditoriale”, ossia che non sono assunte al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, sono “estranee all’esercizio dell’impresa”. Tra queste rientrerebbero le obbligazioni tributarie, che gravano su tutti i cittadini indipendentemente dalla qualità di imprenditore e sono finalizzate a concorrere alla spesa pubblica. Il contribuente ribatteva che le obbligazioni tributarie non sono espressamente escluse dall’esdebitazione e che il legislatore, dove ha voluto prevedere per queste ultime un regime diverso, «si è preoccupato di dettare specifiche disposizioni attinenti ai crediti tributari (cfr. l’art. 182-ter della medesima legge fallimentare)».
(3) Nell’ordinanza che si annota si legge che «Si pone dunque – come in relazione alla procedura di concordato preventivo … – il quesito se considerazioni pratiche accertate giudizialmente (quali la insolvenza del debitore meritevole, o la possibilità di percepire solo una parte del credito IVA) possano giustificare la rinuncia, in tutto o in parte, ad un credito che rischia di rimanere del tutto insoddisfatto, ancorché integro nella sua esistenza giuridica» (punto 7). Il provvedimento interlocutorio prosegue rilevando che «La questione si palesa controversa in quanto l’esclusione del credito viene dalla legge riconosciuta al soggetto debitore non in via astratta, piuttosto derivando da una valutazione giudiziale operata dal Tribunale fallimentare in ordine alla prognosi che il soggetto beneficiario possa reimmettersi nel mercato produttivo» (punto 20).
(4) Il quesito rivolto alla Corte di Giustizia concerne la questione se «L’art. 4, paragrafo 3, TUE e gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva 77/388 [oggi sostituita dalla Direttiva 2006/112/CE, n.d.a.], in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, devono essere interpretati nel senso che essi ostano all’applicazione, in materia di imposta sul valore aggiunto, di una disposizione nazionale che prevede l’estinzione dei debiti nascenti dall’IVA in favore dei soggetti ammessi alla procedura di esdebitazione disciplinata dagli artt. 142 e 143 del R.D. n. 267 del 1942» (punto 22 dell’annotata ordinanza).
(5) La prima questione pregiudiziale è stata sollevata da Trib. Udine, ord. 28 novembre 2014, in Boll. Trib. On-line, e riguarda la compatibilità con il principio di intangibilità dell’IVA di «una proposta di concordato preventivo che preveda, con la liquidazione del patrimonio del debitore, il pagamento soltanto parziale del credito dello Stato relativo all’IVA, qualora non venga utilizzato lo strumento della transazione fiscale e non sia prevedibile per quel credito – sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente e all’esito del controllo formale del Tribunale – un pagamento maggiore in caso di liquidazione fallimentare».
(6) Un espresso riferimento ai debiti tributari è invece contenuto nell’art. 14-terdecies della legge 27 gennaio 2012, n. 3, che disciplina l’esdebitazione nell’ambito del procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento. La lett. c) della disposizione citata prevede infatti che l’esdebitazione non opera «per i debiti fiscali che, pur avendo causa anteriore al decreto di apertura delle procedure di cui alle sezioni prima e seconda del presente capo, sono stati successivamente accertati in ragione della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi». In materia si veda DAMI, I profili fiscali della disciplina di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Rass. trib., 2013, 615.
(7) Non è la prima volta che la Corte di Cassazione è chiamata a esprimersi in merito agli effetti di una disposizione della legge fallimentare che prevede la “falcidia” dei crediti concorsuali, senza però disciplinare espressamente la sorte dei crediti di natura tributaria. In materia di concordato preventivo, la Suprema Corte aveva esplicitamente ritenuto che la formulazione dell’art. 184 della legge fallimentare, che disciplina gli effetti liberatori del concordato, «porta ad escludere la possibilità di un particolare statuto per il fisco, non essendo revocabile in dubbio che un’eccezione al principio, se voluta e per le conseguenze pratiche che comporta, sarebbe stata espressamente inserita dal legislatore» (cfr. Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931, in Boll. Trib., 2012, 619). Soluzioni analoghe sono state prospettate dalla dottrina con riferimento al concordato fallimentare. In particolare cfr. LA MALFA, La transazione fiscale e il concordato fallimentare, in LA MALFA-MARENGO (a cura di), Transazione fiscale e previdenziale, San Marino, 2010, 255, che ha affermato che i crediti tributari subiscono gli effetti liberatori previsti dall’art. 142 della legge fallimentare alla stregua di tutti gli altri crediti, in virtù della specialità della materia concorsuale rispetto ai comuni principi della indisponibilità della pretesa fiscale.
(8) Si tratta delle condizioni specificamente individuate dall’art. 142, primo comma, nn. da 1) a 6), della legge fallimentare (i.e. il fallito deve aver cooperato con gli organi della procedura, non deve aver ritardato o contribuito a ritardare quest’ultima, non deve aver violato le disposizioni di cui all’art. 48 della legge fallimentare, etc.). Inoltre, ai sensi dell’art. 142, secondo comma, della legge fallimentare, l’esdebitazione non può essere concessa se non sono stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali.
(9) L’art. 142, quarto comma, della legge fallimentare, dispone infatti che «sono salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso». In tema di effetti dell’esdebitazione, l’art. 144 della legge fallimentare specifica che la stessa produce effetti anche nei confronti dei creditori anteriori all’apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato domanda di ammissione al passivo, ma solo per l’eccedenza alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado.
(10) In base all’art. 142, terzo comma, della legge fallimentare, sono esclusi dal beneficio in esame sia «gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa» [lett. a)], sia «i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti» [lett. b)]. In linea di principio, tali obbligazioni sono escluse dall’esdebitazione o perché non inerenti all’attività imprenditoriale, o perché derivanti da rapporti di credito involontari, oppure ancora per non indebolire l’efficacia dissuasiva delle sanzioni.
(11) Cfr. PAJARDI-PALUCHOWSKI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 725; e ZANICHELLI, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali dopo il d.lg. 12.9.2007, n. 169, Torino, 2008, 381; contra la relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione n. 35/2011, cit., 17, dove l’esdebitazione viene presentata come “misura umanitaria” per il debitore e si afferma che il fresh start è «una ratio nota nei lavori preparatori ma del tutto priva … di qualsiasi tangibile collegamento con la vita futura dell’esdebitato, dunque svalutabile a mera proiezione».
(12) Ved. GHIA, L’esdebitazione, IN GHIA-PICCININNI-SEVERINI (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, IV, Torino, 2011, 188. Per una ricostruzione delle posizioni sulla ratio dell’istituto si veda anche la già citata relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione n. 35/2011, cit., 8.
(13) Cfr. BARILE, voce Potere di disposizione, in Nov. Dig. It., Torino, 1966; e MAGNANI, voce Disposizione dei diritti, in Dig. disc. priv., sez. comm., V, Torino, 1990.
(14) I creditori sono sentiti dal giudice nell’ambito del procedimento camerale per la concessione dell’esdebitazione e possono proporre solamente reclamo ai sensi dell’art. 143, secondo comma, della legge fallimentare, alla stregua di tutti gli altri interessati. Non a caso, parte della dottrina ha sostenuto che l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto dell’esdebitazione comporta che il diritto soggettivo di credito sia degradato a mero interesse legittimo. Il beneficio in esame, oltretutto, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto assimilabile a un esproprio del credito senza indennizzo e in contrasto, quindi, con l’art. 42, terzo comma, Cost. (cfr. SCARSELLI, La esdebitazione della nuova legge fallimentare, in Dir. fall., 2007, 31).
(15) Il concordato preventivo e il concordato fallimentare sono approvati con il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei creditori ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se la maggioranza è raggiunta anche nel maggior numero di classi (artt. 177, primo comma, e 128, primo comma, della legge fallimentare). Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono invece approvati con il voto favorevole dei creditori rappresentanti il sessanta per cento dei crediti (art. 182-bis, primo comma, della legge fallimentare).
(16) In realtà, la “falcidia” del credito tributario derivante dagli istituti negoziali di composizione della crisi d’impresa sembra legittima solo qualora comporti un grado di soddisfazione del credito maggiore di quello ottenibile in sede fallimentare e il fallimento sia l’unica alternativa concreta alla composizione negoziale della crisi. Nell’ipotesi descritta non si ha infatti alcun reale atto di “disposizione” del credito, che al contrario viene massimizzato. In caso contrario, potrebbe profilarsi una lesione di principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. Una simile lesione, peraltro, non dovrebbe mai verificarsi, atteso che normalmente i crediti tributari sono muniti di privilegio, e la disciplina degli istituti sopra richiamati consente che i creditori privilegiati non siano soddisfatti integralmente, «purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione» (artt. 160, secondo comma, e 124, terzo comma, della legge fallimentare).
(17) Per completezza, sembra doveroso precisare che il beneficio dell’esdebitazione non è assimilabile neppure a un condono fiscale. Come osserva FALSITTA, I condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in il fisco, 2003, 794, i condoni sono tali (e non sono, quindi, riconducibili alle fattispecie agevolative) in quanto «1) le agevolazioni operano per il futuro mentre i condoni operano sui presupposti del passato e spesso anche del passato remoto; 2) le agevolazioni sono aperte a tutti, mentre i condoni sono destinati ai violatori». L’esdebitazione, evidentemente, non opera sul presupposto della violazione di norme tributarie.
(18) La definizione è di ZENNARO, Tipi agevolativi e problemi procedurali, in MOSCHETTI-ZENNARO (a cura di), voce Agevolazioni fiscali, in Dig. disc. priv., sez. comm., I, Torino, 1987, 64, il quale precisa che l’agevolazione fiscale «è un concetto relativo: è, ad esempio, agevolativa, per un singolo tributo, la disciplina della base imponibile, dell’aliquota, dell’imposta, ecc., se per quel tributo esistono corrispondenti discipline che, nella normalità dei casi, sono più gravose». In dottrina sono state proposte anche altre definizioni del concetto di agevolazione fiscale. Cfr. LA ROSA, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, 410, che ravvisa la caratteristica essenziale del fenomeno agevolativo in un profilo di ordine funzionale (anziché strutturale), consistente nell’essere l’agevolazione perfettamente fungibile con sovvenzioni e contributi pubblici (c.d. “spesa fiscale”). Indice rivelatore di tale caratteristica funzionale sarebbe, tra gli altri, il fatto che la norma agevolativa si trovi «inserita nel contesto di un complesso organico di misure ispirate ad una esigenza comune, e ad un tempo involgenti più tributi». Diversamente FICHERA, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 32, ritiene che possa parlarsi di agevolazioni fiscali in presenza di (i) una disciplina formalmente derogatoria, (ii) favorevole al contribuente e (iii) con funzione promozionale. Gli effetti dell’esdebitazione sui debiti tributari sembrano assimilabili a quelli delle agevolazioni fiscali anche alla luce di tali definizioni.
(19) Naturalmente, l’assimilazione degli effetti dell’istituto in esame a quelli delle agevolazioni fiscali risponde a un’esigenza classificatoria sopravvenuta. Tra gli istituti agevolativi studiati dalla dottrina, gli effetti dell’esdebitazione sembrano per certi versi assimilabili a quelli del c.d. “sgravio fiscale”, che «in una sua meno nota accezione, consiste nella remissione del debito di imposta, per effetto di un provvedimento amministrativo autorizzato da una specifica norma di legge e concesso in deroga alle ordinarie norme impositive, in casi particolari e per motivi eccezionali» [così ZENNARO, Tipi agevolativi e problemi procedurali, cit., 67; sullo sgravio si vedano anche LA ROSA, voce Esenzione, in Enc. dir., Milano, 1966, 568; e BASILAVECCHIA, voce Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Enc. dir. (aggiornamento), Milano, 2001, 58]. A differenza dello sgravio, ovviamente, l’esdebitazione è concessa per mezzo di un provvedimento giurisdizionale.
(20) Il riferimento, evidentemente, è al dibattito sull’effettiva portata del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, che la Corte di Cassazione, come in altre occasioni, sembra concepire come liberamente derogabile dal legislatore ordinario. Una simile tesi, che però non sembra condivisibile, era stata espressa anche da Cass. n. 22931/2011, cit. (in materia di concordato preventivo e transazione fiscale), dove si affermava che il principio di indisponibilità «esiste nella misura in cui la legge non vi deroghi e non sono certo estranee all’ordinamento ipotesi di rinuncia dell’Amministrazione all’accertamento (condoni c.d. tombali) o alla completa esazione dell’accertato in vista di finalità particolari». Per una recente e dettagliata ricostruzione delle posizioni dottrinali in merito al principio di indisponibilità si veda GUIDARA, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2010, 61 ss.
(21) Sulla limitata azionabilità dei limiti costituzionali in parola si veda l’ampia trattazione di FICHERA, Le agevolazioni fiscali, cit., 125 ss. e, da un punto di vista più strettamente processuale, PACE, L’incidente di costituzionalità nelle liti sulle agevolazioni fiscali: profili processuali, in Rass. trib., 2007, 25.
(22) Le agevolazioni fiscali dovrebbero essere soggette anche al principio di riserva di legge [cfr. MOSCHETTI, Problemi di legittimità costituzionale e principi interpretativi, in MOSCHETTI – ZENNARO (a cura di), voce Agevolazioni fiscali, in Dig. disc. priv., sez. comm., I, Torino, 1987, 73; e BASILAVECCHIA, voce Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, cit., 56]. La questione del rispetto del principio di riserva di legge si pone con particolare forza in relazione alle agevolazioni che sono concesse per mezzo di atti di enti sub-statali o dell’Amministrazione finanziaria. Simili problematiche si ripropongono in misura certamente minore (e forse non si pongono affatto) dinanzi a un trattamento fiscale di favore concesso per effetto di un provvedimento giurisdizionale, quale appunto l’esdebitazione.
(23) Cfr. LA ROSA, Le agevolazioni fiscali alle imprese, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1, 1993, 564 ss. L’Autore distingue tra agevolazioni in senso stretto, che sarebbero in realtà forme di sovvenzioni pubbliche erogate per mezzo di strumenti appartenenti all’area della fiscalità (c.d. “spese fiscali”) e agevolazioni strutturali, che risponderebbero invece a logiche di coerenza interna del tributo (c.d. “erosione” della materia imponibile o dell’imposta). Le agevolazioni in senso stretto non si porrebbero in contrasto con l’art. 53 Cost. perché, vista la loro natura di “spese fiscali”, «occorre poi coerentemente riconoscere che ad esse rimane sotteso un pagamento figurativo del tributo; che, cioè, i relativi beneficiari non sono per nulla sottratti all’onere contributivo; ma lo sopportano indirettamente ed attraverso la mancata monetizzazione della sovvenzione pubblica che ad essi si intende in quei modi dare». Per quanto riguarda le agevolazioni strutturali, invece, opererebbe «una discrezionalità legislativa che va riconosciuta e tutelata, e che può incontrare dei limiti soltanto nelle situazioni di autentico privilegio (che pur in passato si sono talora avute) costituite, ad esempio, dalle c.d. esenzioni generali da ogni tributo presente e futuro, o da altre similmente macroscopiche lesioni dell’esigenza contributiva» (sul medesimo tema si veda anche LA ROSA, Le agevolazioni tributarie, cit., 416 ss.). Per una critica all’equiparazione tra agevolazioni fiscali in senso stretto e sovvenzioni pubbliche si veda però BASILAVECCHIA, voce Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, cit., 53. Ritiene che il principio di capacità contributiva non costituisca un limite per il legislatore nella creazione di fattispecie agevolative anche FICHERA, Le agevolazioni fiscali, cit., 145 ss. e, in particolare, 166.
(24) Ved. LA ROSA, Le agevolazioni fiscali alle imprese, cit., 567; e FICHERA, Le agevolazioni fiscali, cit., 167 ss.
(25) Cfr. MICHELI, Profili critici in tema di potestà d’imposizione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1964, 27; D’AMATI, Profili giuridici delle agevolazioni fiscali, in Boll. Trib., 1995, 565; DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2002, 93; similmente FALSITTA, Profili della tutela costituzionale nella giustizia tributaria, in PERRONE-BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 59, che richiede però la presenza di «fini specifici da realizzare, muniti di copertura costituzionale»; in senso ancora più rigoroso MOSCHETTI, Problemi di legittimità costituzionale e principi interpretativi, cit., 78, il quale ritiene che le agevolazioni fiscali siano radicalmente incompatibili con il principio di capacità contributiva (secondo l’Autore, peraltro, quest’ultimo dovrebbe essere interpretato alla luce delle norme costituzionali extrafiscali, giungendosi così alla enucleazione di una «capacità economica qualificata alla luce dei doveri costituzionali di solidarietà e delle altre scelte di valore della costituzione»).
(26) Cfr. BASILAVECCHIA, voce Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, cit., 57. Per D’AMATI, Profili giuridici delle agevolazioni fiscali, cit., 569, le finalità non espressamente tutelate dalla Costituzione potrebbero essere perseguite attraverso lo strumento dell’agevolazione se rientranti nella politica economica del Governo, sulla base dell’art. 41, terzo comma, Cost., che stabilisce che «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
(27) In particolare, la parità di trattamento è intesa come necessità di concedere la stessa agevolazione fiscale a tutti i soggetti che si trovano nella medesima situazione (ad esempio D’AMATI, Profili giuridici delle agevolazioni fiscali, cit., 569, avverte che il principio di uguaglianza «non può essere applicato a tutti in modo indiscriminato, ma soltanto a coloro che sono in una determinata situazione: pertanto, un’agevolazione prevista per le iniziative industriali dev’essere applicata in modo uniforme a tutti coloro che svolgono questa attività, senza che ciò costituisca motivo di discriminazione verso soggetti che svolgono diverse attività»).
(28) Tale concezione funzionale del tributo è sviluppata da FALSITTA, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in LA ROSA (a cura di), Profili autoritativi e consensuali nel diritto tributario, Milano, 2008. In tale scritto l’Autore ripercorre l’evoluzione storica del tributo, dall’antica Roma fino ai giorni nostri. Egli evidenzia che «Il tributo, in quanto prestazione pecuniaria coattiva nasce come pianta necessitata ed inestirpabile nella socialità dell’essere umano, nel suo voler vivere assieme ad altri uomini nella città-stato. Il vivere nella civitas genera ineludibilmente spese comuni e il tributum è lo strumento che veicola i criteri per la ripartizione delle spese comuni o pubbliche della organizzazione sociale» (54). Così concepito, il tributo non si limita a essere un rapporto tra lo Stato e il singolo contribuente (come invece avviene nei sistemi dispotici, dove il principe dispone arbitrariamente della potestà di imposizione), ma diviene un rapporto che coinvolge l’intera platea dei contribuenti, legati fra loro da «un sottile legame di interferenza e di conflitto di interessi» (60 ss.). Ne consegue che «Per ciascun contribuente non è irrilevante che gli altri cointeressati paghino o non paghino la loro quota. Né è indifferente che il riparto sia corretto o scorretto. Tale non indifferenza discende dalla constatazione che l’errato riparto avvantaggia taluni membri della comunità “contributiva” ma nel contempo ridonda a danno di altri» (61). Di qui, l’ontologica inderogabilità/indisponibilità del credito tributario.
(29) Cfr. FALSITTA, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, cit., 75 ss.
(30) Per tale ragione si teorizza l’esistenza di un diritto pubblico soggettivo all’equa ripartizione del carico tributario, cfr. FALSITTA, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, cit., 78 ss.; la medesima idea è sviluppata anche in FALSITTA, I condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, cit., 794, dove l’Autore, a tutela del diritto all’equo riparto delle spese pubbliche, evoca lo schema dell’azione tributaria popolare, un tempo presente nel nostro ordinamento (su questo peculiare istituto ved. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 127 ss.).
(31) Ved. FALSITTA, Profili della tutela costituzionale nella giustizia tributaria, cit., 55.
(32) È quanto sembra suggerire lo stesso FALSITTA, Profili della tutela costituzionale nella giustizia tributaria, cit., 59, dove afferma che eventuali deroghe alle ordinarie regole di riparto sono legittime solo in presenza «quantomeno di fini specifici da realizzare, muniti di copertura costituzionale». Non sembra, peraltro, che tali deroghe siano da guardare con sfavore, a condizione che esista un serio e verificato interesse contrapposto, anch’esso di rilievo costituzionale.
(33) La possibilità che il fallito consegua un reddito al termine della procedura, del resto, è esplicitamente riconosciuta dall’art. 14-terdecies, primo comma, lett. e), della già citata legge n. 3/2012, in materia di composizione della crisi da sovraindebitamento, che ai fini della concessione del beneficio in esame richiede esplicitamente che il debitore «abbia svolto, nei quattro anni di cui all’articolo 14-undecies, un’attività produttiva di reddito adeguata rispetto alle proprie competenze e alla situazione di mercato o, in ogni caso, abbia cercato un’occupazione e non abbia rifiutato, senza giustificato motivo, proposte di impiego».
(34) Dal momento che gli effetti dell’esdebitazione sui debiti tributari del fallito sembrano assimilabili agli effetti di una misura agevolativa, sarebbe prospettabile, in astratto, anche un loro contrasto con la disciplina relativa al divieto di aiuti di Stato.
(35) Cfr. Corte Giust. CE, sez. grande, 17 luglio 2008, causa C-132/06, in Boll. Trib., 2008, 1384, con nota di BRIGHENTI, La Corte di Giustizia europea boccia il condono IVA, ma i contribuenti stiano tranquilli.
(36) Nei medesimi termini Corte Giust. CE, sez. V, 11 dicembre 2008, causa C-174/07; e Corte Giust. UE, sez. IV, 29 luglio 2010, causa C-188/09, punti 21 e 22; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(37) La stretta correlazione tra i due principi è già stata perfettamente intuita da BEGHIN, Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta nei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. La transazione concordataria e l’accertamento con adesione, in Atti della giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta, Padova, 2012, 251 ss.
(38) Ciò risulta molto chiaramente in Corte Giust. UE, sez. grande, 15 novembre 2011, causa C-539/09, in Boll. Trib. On-line, dove si legge che «il sistema di risorse proprie predisposto in esecuzione del Trattato è effettivamente finalizzato, quanto alle risorse IVA, ad istituire un obbligo a carico degli Stati membri di mettere a disposizione della Comunità, come risorse proprie, una parte delle somme che essi riscuotono a titolo di IVA … Pertanto, sussiste un nesso diretto tra, da un lato, la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto comunitario applicabile e, dall’altro, la messa a disposizione del bilancio comunitario delle corrispondenti risorse IVA, poiché qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde. A tale riguardo la Corte ha statuito in particolare che, quando uno Stato membro ha omesso di assoggettare ad IVA una tipologia di operazioni in violazione dei dettami della sesta direttiva IVA, siffatta violazione può altresì dare adito ad un inadempimento dell’obbligo di tale Stato membro di mettere a disposizione della Commissione, a titolo di risorse IVA, gli importi corrispondenti all’imposta che avrebbe dovuto prelevare su dette operazioni» (punti 71, 72 e 73). In Italia, nell’ambito di un dibattito sul divieto di falcidia dei «tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea» disposto dall’art. 182-bis della legge fallimentare, si era discusso sulla natura dell’IVA quale “risorsa propria” dell’Unione europea. In senso positivo si erano espresse sia la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 22931/2011, cit.), sia l’Agenzia delle entrate (cfr. circ. 18 aprile 2008, n. 40/E, in Boll. Trib., 2008, 748). Anche in seguito, la posizione ha trovato riscontri in dottrina [cfr. AMATUCCI, La transazione fiscale tra disciplina comunitaria dell’IVA e divieto di aiuti di Stato, in PAPARELLA (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 690 ss.; e TOMA, La discrezionalità dell’azione amministrativa in ambito tributario, Padova, 2012, 274]. Si registrano però anche posizioni contrarie. Ai fini che qui interessano, sembra sufficiente osservare che le risorse derivanti dalla riscossione dell’IVA sono comunque destinate all’Unione europea (anche se eventualmente solo in forma indiretta) e mantengono quindi una essenziale funzione di carattere “comunitario” (nel senso, naturalmente, di rispondente alle esigenze dell’organizzazione rappresentata dall’Unione europea).
(39) È quanto emerge da Corte Giust. UE causa C-132/06 del 2008, cit., dove si afferma che la libertà degli Stati membri nell’attuazione della disciplina comunitaria dell’IVA «è limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme di tutti loro. La Corte ha dichiarato che la sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA» (punto 39). In dottrina, il ruolo fondamentale del principio di neutralità fiscale nella decisione in esame è ampiamente sottolineato da DE MITA, Incompatibile per la Corte UE il condono IVA con la normativa comunitaria, in Corr. trib., 2008, 2671 ss.
(40) Così sembra desumersi da Corte Giust. UE, sez. IV, 29 marzo 2012, causa C-500/10, in Boll. Trib. On-line, che ha affermato la compatibilità con il sistema comunitario della c.d. “definizione delle liti fiscali ultradecennali” di cui all’art. 3, comma 2-bis, del D.L. 25 marzo 2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73). Tale disciplina è ricostruita dalla pronuncia appena citata come «disposizione eccezionale», volta ad assicurare il rispetto del principio di ragionevole durata del processo, previsto anch’esso da norme di rilievo comunitario (art. 47, secondo comma, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, e art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo). Detta disciplina sembra quindi giustificarsi in un’ottica di bilanciamento con altri principi, egualmente di diritto comunitario. Né può giungersi a conclusioni diverse osservando che la Corte di Giustizia europea esclude una violazione del principio di neutralità dell’IVA da parte della disciplina in esame in virtù del fatto che «il suo carattere puntuale e limitato, dovuto ai presupposti della sua applicazione, non crea significative differenze nel modo in cui sono trattati i soggetti d’imposta nel loro insieme» (punto 27). In questo passaggio, infatti, la Corte sembra semplicemente dire che il legislatore italiano ha operato un corretto bilanciamento tra i due principi in gioco, con il minor sacrificio possibile degli stessi.
(41) In relazione al quale la Corte di Giustizia è stata chiamata a esprimersi da Trib. Udine 28 novembre 2014, cit.
(42) Cfr. MAURO, L’intangibilità del credito IVA nel concordato preventivo: la criticabile decisione della Corte costituzionale e l’opportunità del rinvio della questione alla Corte di Giustizia, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, 89.

IVA – Fallimento – Ammissione alla procedura di esdebitazione di cui agli artt. 142 e 143 della legge fallimentare – Conseguente estinzione dei debiti IVA – Sospetta incompatibilità con il diritto comunitario – Possibile contrasto della disciplina nazionale con il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e con la VI Direttiva 77/388/CEE – Rimessione della relativa questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea – Va disposta.
IVA – Controversie pendenti – Chiusura delle liti fiscali pendenti – Art. 16 della legge n. 289/2002 – Violazione della VI Direttiva 77/388/CEE da parte dello Stato italiano – Non sussiste.
Imposte e tasse e IVA – Riscossione – Procedure concorsuali – Concordato preventivo – Transazione fiscale – Falcidia del credito IVA – Inammissibilità per la natura di risorsa propria dell’Unione europea di tale imposta – Dilazione del relativo pagamento – Ammissibilità.
Imposte e tasse e IVA – Procedura di esdebitazione di cui agli artt. 142 e 143 della legge fallimentare – Applicabilità ai debiti tributari residui – Sussiste – Ratio della normativa nazionale e sua sospetta incompatibilità con il diritto comunitario – Rimessione della relativa questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea – Va disposta.

Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione se l’art. 4, par. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e gli artt. 2 e 22 della VI Direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, devono essere interpretati nel senso che essi ostano all’applicazione, in materia di IVA, di una disposizione nazionale che prevede l’estinzione dei debiti nascenti dall’IVA in favore dei soggetti ammessi alla procedura di esdebitazione disciplinata dagli artt. 142 e 143 della legge fallimentare di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267.
La sentenza della Corte di Giustizia della Comunità europea 17 luglio 2008, causa C-132/06, con la quale, in esito ad una procedura di infrazione promossa dalla Commissione europea, è stata dichiarata l’incompatibilità con il diritto comunitario degli artt. 8 e 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, relativamente alla disposta condonabilità dell’IVA alle condizioni in tali norme previste, deve essere interpretata restrittivamente e non ha effetti in ordine all’applicazione dell’art. 16 della medesima legge, in quanto detta norma non concerne la definizione dell’imposta, bensì la definizione di una lite in corso tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite stessa al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti.
È la natura dell’IVA quale risorsa propria dell’Unione europea a spiegare i vincoli per gli Stati membri nella gestione e riscossione dell’imposta, come pure l’inderogabilità della disciplina interna del tributo e la formulazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, che, in ossequio al principio dell’indisponibilità della pretesa tributaria all’infuori di una specifica previsione normativa che ne preveda la rideterminazione, ha escluso la falcidiabilità del credito IVA in sede di transazione fiscale, consentendone soltanto la dilazione del pagamento.
Con riguardo alla procedura di esdebitazione disciplinata dagli artt. 142 e 143 della legge fallimentare di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, il legislatore italiano, nel prevedere in modo specifico alcune tassative esclusioni dal beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti senza menzionare in alcun modo i crediti tributari, ha ritenuto, nell’ambito delle scelte discrezionali ad esso riservate e sulla base di un bilanciamento dei contrapposti interessi, che al soggetto ritenuto dall’Autorità giudiziaria meritevole del beneficio dell’esdebitazione non deve farsi carico del pagamento dei debiti fiscali, in una prospettiva dell’estinzione dei propri debiti quale stimolo a condotte incentivanti a un ripristino di una soggettività economica ritenuta socialmente utile, ma occorre allora verificare se la citata normativa interna si ponga o meno in contrasto con i principi comunitari risultanti dalla normativa dell’Unione europea come interpretata dalla Corte di Giustizia della stessa Unione, laddove include nel beneficio della liberazione anche i debiti nascenti dall’IVA.

[Corte di Cassazione, sez. VI (Pres. e rel. Cicala), 1° luglio 2015, ord. n. 13542, ric. Agenzia delle entrate]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione – deducendo quattro motivi – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte 19/6/12 del 26 marzo 2012 che rigettava l’appello dell’agenzia confermando la illegittimità di cartella di pagamento con cui era stato chiesto al sig. I. il versamento di somme a titolo di IVA e IRAP per l’anno di imposta 2003.
I giudici di merito hanno affermato che tali somme non sono dovute posto che il sig. I., socio accomandatario della fallita PVA sas (e fallito in proprio) ha ottenuto dal Tribunale di Mondovì un decreto di esdebitazione in data 14 aprile 2008.
2. Il sig. I. si è costituito in giudizio.
3. Veniva successivamente comunicata alle parti la seguente Relazione ex art. 380-bis c.p.c.
«… Il ricorso deve essere rigettato”.
Giova premettere che l’art. 142 della legge fallimentare vigente (così come introdotto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), prevede che a determinate condizioni, che qui non rilevano in quanto il loro accertamento è compito del Tribunale fallimentare, “il fallito persona fisica è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti”.
Restano esclusi dall’esdebitazione:
a) gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa;
b) i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti. La lettera a) è stata così modificata dall’art. 10 comma 1, D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, a decorrere dal 1° gennaio 2008 (in precedenza si parlava dei crediti “non compresi nel fallimento ai sensi dell’art. 46”, ma si può concordare con la Avvocatura che la modifica abbia avuto un portata meramente interpretativa).
Emerge fin da una prima lettura, come i crediti tributari non siano esplicitamente esclusi dall’esdebitazione; e questo dato non è privo di rilievo da momento che in altre disposizioni il legislatore si è preoccupato di dettare specifiche norme attinenti ai crediti tributari (cfr. l’art. 182-ter della medesima legge fallimentare). Ed il regime dei debiti tributari è, regolato nella legge 3/2012 (come modificata ed integrata dal d.l. 179/2012 conv. in legge 212/2012, che ha introdotto il così detto “esdebitamento” dei soggetti non contemplati dalla legge fallimentare).
La ricorrente Avvocatura svolge però ampie argomentazioni per sostenere in via interpretativa questa esclusione.
Sostiene (in particolare nel primo motivo) che le obbligazioni tributarie sarebbero “estranee all’esercizio dell’impresa” in quanto sarebbero collegate all’esercizio dell’impresa da un rapporto meramente occasionale.
[…]
La deduzione, prospettata sotto il profilo della violazione di legge, non risulta proposta nel giudizio di merito; è quindi di dubbia ammissibilità. Comunque può essere esaminata solo sotto un profilo: la esclusione ope legis di tutti i debiti tributari dall’esdebitazione.
Simile tesi deve essere respinta. In quanto sussistono indubbiamente oneri tributari (e piuttosto rilevanti) che sicuramente sono “derivanti da rapporti non estranei all’esercizio dell’impresa”.
Fra questi – sia detto per inciso – rientrano sicuramente IVA ed IRAP (che a quanto risulta dalla narrativa sono richieste dall’atto tributario impugnato) che sono dovute proprio e soltanto perché le operazioni economiche da cui scaturiscono rappresentano esercizio dell’impresa.
Mentre non rientra nel presente giudizio la valutazione se vi siano rapporti tributari esclusi dall’esdebitazione (come si potrebbe sostenere per l’ICI su una casa di abitazione).
Con un secondo argomento, sviluppato in modo particolare nel secondo motivo, l’Avvocatura erariale invoca l’art. 53 della Costituzione e quindi sostiene la inderogabilità dei crediti tributari in quanto espressione del dovere di ogni soggetto di concorrere alle spese pubbliche.
L’argomento, come emerge dalle attente argomentazioni presenti nel ricorso, condurrebbe però ad una dichiarazione di incostituzionalità di tutta la normativa sull’esdebitazione e in fondo di tutta una prassi legislativa che ha previsto la “definizione agevolata”, o addirittura l’abbandono di crediti tributari.
La stessa presunta “irrinunciabilità” dei crediti tributari è, del resto, posta in crisi da disposizioni come art. 17-bis nel corpo della legge 546/1992 introdotto dall’art. 39, comma 9, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, secondo cui la Amministrazione nel formulare la sua eventuale proposta di mediazione deve aver “riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”; cioè, sembrerebbe [conformarsi, n.d.r.] alla eterna massima “pochi maledetti e subito”, che induce a rinunciare ad una pretesa giuridicamente fondata, ma di incerto incasso, accettando una somma minore ma di sicuro incasso.
Del resto, è difficile individuare un qualche credito cancellato dall’esdebitazione che non goda di tutela costituzionale (è ad esempio ovvio che ne godono i crediti del lavoratore); e tuttavia in un bilanciamento di interessi (e disposizioni costituzionali) contrapposte, il legislatore sacrifica i diritti dei creditori in vista del ragionevole obbiettivo di consentire al fallito incolpevole (ed in genere a tutti gli indebitati) di riprendere la loro attività economica senza il timore di dover versare quasi tutto il percepito ai creditori. E questo sacrificio trova ulteriore giustificazione nella circostanza che – se le procedure fallimentari sono state regolarmente esperite – il fallito non possiede più alcun bene e dunque si tratta di crediti di quasi impossibile soddisfacimento (e nulla dovrebbe più possedere anche il non imprenditore che si sia sottoposto alla procedura di liquidazione del suo patrimonio di cui al d.l. 179/2012 conv. in legge 212/2012; anche se ovviamente in queste ipotesi il controllo pubblico sulla consistenza del patrimonio del debitore è meno incisiva).
Con il terzo motivo, la Avvocatura sottolinea come i crediti esposti nella cartella impugnata avrebbero in parte natura sanzionatoria e ciò li escluderebbe dall’esdebitazione.
Il motivo appare inammissibile perché comporta un accertamento in fatto circa la natura dei crediti esposti, che non risulta richiesto in sede di merito.
Appare inoltre infondato perché le sanzioni di cui si tratta sono strettamente connesse al debito principale che viene – in ipotesi – estinto. E non appare logico limitare l’effetto dell’esdebitazione alle sanzioni che derivino da crediti pienamente soddisfatti; mentre la coerenza del sistema induce a cancellare anche le sanzioni connesse ai debiti divenuti inesigibili (e che sovente sono rapportate all’ammontare di tali debiti).
Con il quarto motivo la Amministrazione invoca l’ultimo comma dell’art. 144 della legge fallimentare secondo cui, in caso di “creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo”, “l’esdebitazione opera per la sola eccedenza alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado”.
Il motivo appare però inammissibile in quanto invocato per la prima volta – a quanto risulta – in sede di ricorso per cassazione».
4. Il Collegio, preso atto delle deduzioni orali della Avvocatura di Stato, in considerazione dell’importanza della questione dedotta, ha ritenuto opportuna la trattazione della controversia in pubblica udienza. Ed a tal fine è stata fissata la udienza del 6 maggio 2015.
5. Dopo la nuova discussione della controversia, il Collegio ha condiviso l’impostazione della proposta del relatore; ma ha osservato che il coinvolgimento dei crediti IVA negli effetti dell’esdebitazione determina il rischio di un conflitto con la normativa comunitaria.
6. Occorre cioè domandarsi se l’inderogabilità dell’IVA da ultimo sottolineata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 225 del 25 luglio 2014 (1) possa cedere o meno a fronte di un accertamento giudiziale di incapienza della procedura fallimentare, e di meritorietà dell’imprenditore fallito.
7. Si pone dunque – come in relazione alla procedura di concordato preventivo (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Udine il 28 novembre 2014 (2) – Degano Trasporti S.a.s. di Ferruccio Degano & C. in liquidazione – Causa C-546/14) – il quesito se considerazioni pratiche accertate giudizialmente (quali la insolvenza del debitore meritevole, o la possibilità di percepire sono una parte del credito IVA) possano giustificare la rinuncia, in tutto o in parte, ad un credito che rischia di rimanere del tutto insoddisfatto, ancorchè integro nella sua esistenza giuridica.
8. In relazione a quanto ora affermato si sottopone alla Corte di Giustizia il seguente quesito pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, al quale si premette:

Il quadro normativo interno

9. Il decreto legislativo n. 5/06, modificando gli artt. 142-144 legge fallimentare – regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 – ha disciplinato la liberazione del debitore che sia una persona fisica – imprenditore commerciale dichiarato fallito, con esclusione del piccolo imprenditore commerciale, del debitore civile e dell’imprenditore non commerciale – dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali rimasti insoddisfatti dalla liquidazione fallimentare. Il Tribunale fallimentare in composizione collegiale decide fondando la sua istruttoria sulla valutazione dei pareri del curatore e del comitato dei creditori che non sono, tuttavia, vincolanti per l’autorità giudiziaria. Si tratta di un istituto teso, secondo la dottrina italiana riportata nella Relazione dell’Ufficio del Massimario di questa Corte n. 35/2011, a consentire ai debitori di ripartire da zero (cd. fresh start), dopo aver cancellato tutti i debiti pregressi (cd. discharge) e quindi essere di nuovo dei soggetti economici attivi senza dover sopportare limitazioni all’iniziativa o alle proprie potenzialità di favorire la produzione di ricchezza per effetto del peso dei debiti precedenti. Le condizioni stabilite dall’art. 142, comma 1, legge fallim., perché il debitore possa fruire del beneficio, sono di natura soggettiva, attenendo alla condotta del fallito, pregressa o successiva all’apertura della procedura fallimentare.
L’art. 142 della legge fallimentare regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (così come modificato dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – art. 128 –, in S.O. n. 13, relativo alla G.U. 16/1/2006, n. 12) prevede che: “Il fallito persona fisica è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti a condizione che: 1) abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la documentazione utile all’accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni; 2) non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura; 3) non abbia violato le disposizioni di cui all’art. 48; 4) non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta; 5) non abbia distratto l’attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito; 6) non sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione. Se è in corso il procedimento penale per uno di tali reati, il tribunale sospende il procedimento fino all’esito di quello penale. L’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali. Restano esclusi dall’esdebitazione: a) gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa; b) i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti. Sono salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso”.
10. La lettera a) dell’art. 142 cit. è stata così modificata dall’art. 10 comma 1, D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 – in G.U. 16/10/2007, n. 241 –, a decorrere dal 1° gennaio 2008.
11. L’art. 143 della legge fallimentare aggiunge, al rispetto dei requisiti indicati all’art. 142 cit., un’ulteriore verifica finale, correlate ai poteri discrezionali del tribunale fallimentare, di compatibilità del beneficio imperniata sulla valutazione dei comportamenti collaborativi del debitore. L’art. 143 dispone, in particolare, che “Il tribunale, con il decreto di chiusura del fallimento o su ricorso del debitore presentato entro l’anno successivo, verificate le condizioni di cui all’articolo 142 e tenuto altresì conto dei comportamenti collaborativi del medesimo, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, dichiara inesigibili nei confronti del debitore già dichiarato fallito i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente. Contro il decreto che provvede sul ricorso, il debitore, i creditori non integralmente soddisfatti, il pubblico ministero e qualunque interessato possono proporre reclamo a norma dell’articolo”.

Il quadro normativo del diritto UE

12. Gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva CEE e l’articolo 4, paragrafo 3, TUE prevedono a carico di ogni Stato membro l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che l’IVA sia interamente riscossa nel suo territorio. In forza del sistema IVA come attualmente armonizzato, gli Stati membri sono infatti tenuti al controllo degli adempimenti a carico dei soggetti passivi, alla verifica delle dichiarazioni, della contabilità e di ogni altra documentazione rilevante, alla liquidazione dell’imposta dovuta e alla relativa riscossione (Concl. Avv. Gen. Sharpston nella causa C-132/06 (3), Commissione c. Italia, p. 68).
13. Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia – sent. 17 luglio 2008, Commissione/Italia (C- 132/06, Racc. pag. I-5457), p. 37 – gli Stati membri sono obbligati ad accertare le dichiarazioni fiscali dei contribuenti, la loro contabilità e gli altri documenti utili, nonché a calcolare e a riscuotere l’imposta dovuta. Nella stessa occasione si è chiarito che nell’ambito del sistema comune dell’IVA gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi e beneficiano, a tale riguardo, di una certa libertà in relazione, segnatamente, al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione (Corte giust., Commissione/Italia, cit., p. 38). Tale libertà, tuttavia, è limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti; e questo sia all’interno di uno Stato membro, che nell’insieme di tutti loro. La sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA. Ogni azione degli Stati membri riguardante la riscossione dell’IVA deve rispettare questo principio (Corte giust., Commissione/Italia, cit., punto 39; Corte giust., 29 marzo 2012, causa C-500/10 (4), Ufficio IVA di Piacenza, pp. 20-22).
14. Si è del resto affermato che dagli artt. 2 e 22 della sesta direttiva IVA e dall’art. 10 CE emerga che ogni Stato membro ha l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che l’IVA dovuta nel suo territorio sia interamente riscossa. Si è ancora precisato che, nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi e che, a tale riguardo, gli Stati membri godono di una certa libertà in relazione al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione. La Corte ha tuttavia aggiunto che questa libertà è limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità – Corte giust., 15 novembre 2011, causa C-539/09 (5), Commissione c. Rep.Fed.Germania, p. 74; Corte giust., 29 luglio 2010, C-188/09 (6), Dyrektor Izby Skarbowej w Bialymstoku, p. 21.
15. Inoltre, giova ricordare che la Corte di giustizia ha ritenuto l’incompatibilità della normativa nazionale italiana in materia di condono IVA (Legge n. 289 del 2002, artt. 8 e 9) – Corte giust. 17 luglio 2008, causa C-132/06; conf. Corte giust., 11 dicembre 2008 causa C-174/07 (7), Commissione c. Repubblica Italiana –.
16. Tale pronunzia è stata interpretata restrittivamente dalle Sezioni Unite di questa Corte che, con sentenza n. 3676/2010 (8), hanno espresso il principio di diritto sotto riportato: “La sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 17 luglio 2008 in causa C-132/06 con la quale, in esito ad una procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, è stata dichiarata l’incompatibilità con il diritto comunitario della L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9 relativamente alla disposta condonabilità dell’IVA alle condizioni in tali norme previste, deve essere interpretata restrittivamente e non ha effetti in ordine all’applicazione dell’art. 16 della medesima legge, in quanto detta norma non concerne la definizione dell’imposta, bensì la definizione di una lite in corso tra contribuente ed amministrazione, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite stessa al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto, sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti”.
17. Non si dubita, però, da parte della Corte costituzionale italiana, che “… è la natura dell’IVA quale risorsa propria dell’Unione Europea a spiegare i vincoli per gli Stati membri nella gestione e riscossione dell’imposta, come pure l’inderogabilità della disciplina interna del tributo e, nella specie, la formulazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare [R.D. 16 marzo 1942, n. 267] che, in ossequio al principio dell’indisponibilità della pretesa tributaria all’infuori di specifica previsione normativa che ne preveda la rideterminazione, ha escluso la falcidiabilità del credito IVA in sede di transazione fiscale, consentendone soltanto la dilazione del pagamento.” – cfr. Corte cost. 25 luglio 2014, n. 225; conf., Corte cost. 25 luglio 2011 n. 247 (9) –.

Il dubbio interpretativo in ordine alla compatibilità della normativa interna rispetto al diritto comunitario

18. Questa Corte reputa che il legislatore interno, nel prevedere in modo specifico alcune tassative esclusioni dal beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti senza menzionare in alcun modo i crediti tributari abbia ritenuto, nell’ambito delle scelte discrezionali ad esso riservate e sulla base di un bilanciamento dei contrapposti interessi, che al soggetto ritenuto dall’autorità giudiziaria meritevole del beneficio dell’esdebitazione non deve farsi carico del pagamento dei debiti fiscali, in una prospettiva dell’estinzione dei propri debiti quale stimolo a condotte incentivanti ad un ripristino di una soggettività economica ritenuta socialmente utile.
19. Occorre allora verificare se la normativa interna si ponga o meno in contrasto con i principi comunitari risultanti dalla normativa UE come interpretata dalla Corte di Giustizia laddove includono nel beneficio della liberazione anche i debiti IVA.
20. La questione si palesa controversa in quanto l’esclusione del credito viene dalla legge riconosciuta al soggetto debitore non in via astratta, piuttosto derivando da una valutazione giudiziale operata dal Tribunale fallimentare in ordine alla prognosi che il soggetto beneficiario possa reimmettersi nel mercato produttivo. Si prospetta, d’altra parte, la questione della compatibilità della disciplina anzidetta con le regole della concorrenza ponendosi detta disciplina, operante sulla base dei requisiti soggettivi già ricordati, come potenzialmente idonea a favorire il reinserimento dei soggetti ammessi al detto beneficio rispetto ai soggetti falliti che non possono godere di tale trattamento perché esclusi ex lege dall’accesso a simile procedura.
21. Si chiede pertanto alla Corte di fornire un’interpretazione autentica del diritto UE in modo che questa Corte possa conseguentemente applicare i noti principi in tema di interpretazione comunitariamente conforme – v., per tutte, Corte giust. 13.11.1990, causa C-106/89 (10), Marleasing, punto 8; Corte giust., 14.7.1994, causa C-91/92 (11), Faccini Dori, punto 26; Corte giust. 10.4.1984, causa C-14/83 (12), von Colson, punto 26; Corte Giust. 28 giugno 2012, causa C-7/11 (13), Caronna, p. 51 – ovvero procedere, all’eventuale non applicazione della norma interna contrastante con il diritto UE – Corte giust., 19 novembre 2014, C-404/13 (14), The Queen, p. 54; Corte giust., 25 luglio 2008, CD-237/07 (15), Dieter Janecek, p. 36 – se la Corte europea dovesse ritenere che il diritto UE osta ad una normativa nazionale che prevede l’estinzione dei debiti nascenti dall’IVA in favore dei soggetti ammessi alla procedura di esdebitazione disciplinata dagli artt. 142 e 143 del R.D. n. 267/1942.
22. Si formula il seguente quesito pregiudiziale:
L’art. 4, paragrafo 3, TUE e gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, devono essere interpretati nel senso che essi ostano all’applicazione, in materia di imposta sul valore aggiunto, di una disposizione nazionale che prevede l’estinzione dei debiti nascenti dall’IVA in favore dei soggetti ammessi alla procedura di esdebitazione disciplinata dagli artt. 142 e 143 del R.D. n. 267/1942.

P.Q.M. – La Corte, visti l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e l’art. 295 c.p.c.;
chiede alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulle questioni d’interpretazione del diritto comunitario specificate in motivazione;
ordina la sospensione del processo e che copia della presente ordinanza sia trasmessa alla cancelleria della Corte di Giustizia.

(1) In Boll. Trib., 2014, 1344.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib., 2008, 1384.
(4) In Boll. Trib. On-line.
(5) In Boll. Trib. On-line.
(6) In Boll. Trib. On-line.
(7) In Boll. Trib. On-line.
(8) Cass. 17 febbraio 2010, n. 3676, in Boll. Trib. On-line.
(9) In Boll. Trib., 2011, 1489.
(10) In Boll. Trib. On-line.
(11) In Boll. Trib. On-line.
(12) In Boll. Trib. On-line.
(13) In Boll. Trib. On-line.
(14) In Boll. Trib. On-line.
(15) In Boll. Trib. On-line.

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