SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Unione europea e commercio internazionale: WTO e GATT – 3. Acquisti intra-UE vs importazioni: disciplina a confronto – 4. Cessioni intracomunitarie vs esportazioni: disciplina a confronto – 5. Effettuazione delle operazioni in Italia: nomina del rappresentante fiscale e rimborsi dell’IVA – 6. Conclusioni.
1. Introduzione
L’Unione europea costituisce un’unione doganale e un mercato unico. In quanto unione doganale non vi sono dazi doganali nel territorio europeo e gli Stati membri condividono le tariffe esterne (1) applicate nei confronti di Paesi terzi. Quale mercato unico, l’IVA viene applicata in modo armonizzato e uniforme (2). L’uscita del Regno Unito – c.d. Brexit – votata dal popolo inglese lo scorso 23 giugno (3) ha un forte impatto sui rapporti commerciali internazionali con l’Italia, in quanto, a livello fiscale, innesca l’applicazione della normativa doganale, con nuovi oneri in capo agli operatori commerciali, in termini di compliance e di costi. Alcuni temperamenti potrebbero verificarsi a seconda dei diversi scenari che potrebbero seguire alla Brexit, specie qualora il Regno Unito dovesse entrare a far parte di un’unione doganale con l’Unione europea o di un’area di libero scambio. Nel primo scenario si darebbe luogo ad un abbattimento delle barriere commerciali che impediscono la libera circolazione delle merci e alla istituzione di una tariffa doganale esterna comune, ipotesi già intrapresa da altri Paesi, quali la Turchia (4), la Repubblica di San Marino (5) e Andorra (6). Diversamente, entrando – nuovamente (7) – a far parte dell’European Free Trade Association (EFTA) (8) (9), l’appartenenza all’area di libero scambio europeo potrebbe comportare delle riduzioni ai dazi doganali applicabili nelle transazioni con i Paesi UE (come avviene con la Svizzera), con addirittura un annullamento degli stessi nel caso in cui il Regno Unito entrasse a fare parte dello Spazio economico europeo (SEE) (10).
2. Unione europea e commercio internazionale: WTO e GATT
Al fine di identificare uno standard comune da adottare nelle relazioni commerciali tra Stati, sono stati elaborati accordi contenenti definizioni e principi generali nel settore del commercio e delle tariffe sui prodotti, dei servizi e della proprietà intellettuale sui brevetti, marchi, copyright e invenzioni industriali. Si tratta dei tre accordi amministrati dal World Trade Organization (“WTO”) (11): i cc.dd. “GATT” (General Agreement on Tariffs and Trade), “GATS” (General Agreement on Trade in Services) e “TRIPS” (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights).
Tali accordi recepiscono alcuni principi fondamentali del WTO che hanno lo scopo di massimizzare gli effetti di liberalizzazione del commercio internazionale, riducendo la discrezionalità da parte dei Paesi aderenti nella determinazione delle proprie scelte e maggiore certezza per gli operatori internazionali (12). A tale riguardo gli accordi sono ispirati al principio di “non discriminazione”, che trova espressione attraverso la previsione della “clausola della nazione più favorita” (“most favored nation”, MFN), secondo cui i Paesi aderenti al WTO non possono adottare misure tariffarie discriminatorie nei confronti di alcuni partner commerciali aderenti all’organizzazione. Ciò comporta, ad esempio, che la scelta di ridurre i dazi doganali di importazione per un determinato prodotto effettuata nei rapporti commerciali con un Paese membro del WTO deve necessariamente estendersi a tutti i Paesi aderenti, equiparandoli al trattamento concesso alla Nazione più favorita (13) (i.e., la Nazione che nel caso di specie beneficia della riduzione del dazio). In tale linea si colloca anche la clausola del “trattamento nazionale”, in base al quale ciascun membro del WTO concede ai prodotti importati da un altro Stato partner un trattamento regolamentare e fiscale non meno favorevole di quello riservato ai prodotti nazionali. Gli Stati si impegnano, inoltre, al “consolidamento delle tariffe”, ossia a considerare vincolanti le loro concessioni in termini di riduzioni tariffarie e a non applicare un dazio in misura superiore a quanto previsto in sede WTO, aumentando la certezza del diritto e la fiducia da parte degli operatori commerciali nelle transazioni cross-border.
La politica commerciale comune dell’Unione europea con Stati terzi (nota anche come “PCC”) costituisce uno dei settori in cui l’Unione europea – in quanto tale – ha competenza piena e diretta. In altre parole, essa agisce in seno all’OMC come un unico attore ed è rappresentata dalla Commissione piuttosto che dai singoli Stati membri (14). Lo strumento principe d’attuazione della PCC è la “tariffa esterna comune” nota come Common External Tariff (“CET” o “Taric”). Si tratta dell’insieme di disposizioni tariffarie che si applicano all’importazione di beni e servizi dall’esterno all’interno dell’Unione. Tale sistema, omogeneo per tutta l’Unione europea, era già previsto dal Trattato di Roma del 1957 ed è entrato in vigore dal 1° luglio 1968 con la creazione dell’Unione doganale tra gli Stati membri. La CET ha sostituito, di fatto, i vari sistemi tariffari nazionali, identificando in tal modo l’Unione europea come area economica unica rispetto alle dinamiche del commercio internazionale. La creazione di un mercato unico europeo ha comportato non solo l’adozione di una politica tariffaria comune verso i Paesi terzi ma anche la creazione di un’area di libero scambio all’interno del mercato europeo.
3. Acquisti intra-UE vs importazioni: disciplina a confronto
Tale obiettivo è stato raggiunto all’inizio degli anni ’90. Il 1° gennaio 1993 sono state abolite le dogane interne tra Paesi comunitari e sono state introdotte – con il D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427) – norme ad hoc per gli scambi commerciali all’interno dell’Unione europea. Coerentemente all’instaurazione di un mercato unico l’esigenza di attuare controlli fiscali e statistici non è stata abbandonata, ma ridotta in termini di oneri e formalità: tali controlli, infatti, una volta rilevati alle frontiere sono ora attuati a mezzo del sistema Intrastat.
In tale contesto le nozioni “importazione” ed “esportazione” restano circoscritte alle sole relazioni commerciali tra operatori europei ed extraeuropei; diversamente, le operazioni poste in essere nell’ambito del mercato unico sono considerate “acquisti e cessioni intracomunitarie”, per il cui verificarsi il legislatore ha introdotto una serie di requisiti qualificanti (15), quali congiuntamente il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale su beni, a titolo oneroso (requisito oggettivo), la spedizione o il trasporto dei beni da uno Stato UE all’altro (requisito territoriale), il possesso della qualifica di “soggetti passivi” da parte del cedente e cessionario stabiliti in differenti Stati europei (requisito soggettivo). In mancanza anche di un solo requisito, la transazione non viene considerata “intracomunitaria” bensì totalmente “interna” e assoggettata alla disciplina di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (16).
In deroga al criterio generale (17), per le cessioni di beni effettuate da soggetti passivi non residenti nel territorio dello Stato effettuate nei confronti di soggetti passivi stabiliti in Italia, il legislatore ha previsto l’applicazione del meccanismo dell’“inversione contabile” (c.d. “reverse charge”) attuato attraverso l’emissione di un’autofattura da parte del cessionario/committente ovvero tramite l’integrazione della fattura da parte del cedente/prestatore, a seconda che quest’ultimo sia, rispettivamente, stabilito nel territorio europeo o all’esterno di esso. In entrambi i casi, destinatari degli obblighi di autofatturazione (o integrazione della fattura), registrazione del documento fiscale e versamento dell’imposta sono i cessionari o committenti stabiliti in Italia.
Tirando le prime somme, nel quadro ante Brexit, quando un soggetto passivo IVA italiano poneva in essere un acquisto intracomunitario verso una VAT taxable person del Regno Unito l’operatore italiano era debitore d’imposta. Quest’ultimo, pertanto, in applicazione del reverse charge, avrebbe dovuto integrare la fattura del cedente inglese e registrare la stessa sia nel registro degli acquisti che in quello delle vendite.
Al di fuori del mercato comune, tuttavia, tali “semplificazioni” non sono applicabili: i flussi di merci cross-border sono assoggettati alle disposizioni doganali – oltre che IVA – esponendo l’operatore economico a formalità e costi addizionali rispetto a quelli previsti per la circolazione delle merci nel mercato unico (18). In gergo tecnico le operazioni transnazionali comunemente definite “importazioni” (19) corrispondono al regime doganale dell’“immissione in libera pratica”, mediante il quale una merce extraeuropea viene introdotta nel circuito economico europeo e nazionale (20). A tal fine occorre presentare una dichiarazione in dogana, dichiarando la volontà di vincolare la merce al regime di immissione in libera pratica e comunicando all’Autorità doganale una serie di elementi (e.g., classificazione, quantità, valore e origine della merce) necessari per l’applicazione del regime doganale prescelto. La merce così importata può essere soggetta all’applicazione di misure antidumping, controlli sanitari e verifica della conformità dei prodotti agli standard previsti dalla normativa del settore. Una volta importata in regime di libera pratica (21) la merce è soggetta all’applicazione dell’IVA e delle accise – salvo si opti per eventuali regimi sospensivi (22) – in quanto risulta a tutti gli effetti immessa in consumo nel circuito economico italiano. Ciò comporta, d’altro canto, il divieto di assoggettarla a dazi doganali o tasse d’effetto equivalente nei successivi trasferimenti all’interno dell’Unione europea.
Ma le stesse modalità di assolvimento dell’IVA dovuta in tale fase differiscono notevolmente da quelle previste per gli acquisti intracomunitari. In caso di importazioni, infatti, la base imponibile su cui applicare l’IVA è costituita dal valore doganale delle merci, a cui vanno sommati i dazi dovuti oltre alle spese di inoltro dal confine comunitario di introduzione, al luogo di destinazione all’interno del territorio della Comunità (23). Sebbene il metodo principale di valutazione delle merci in dogana (24) si basi sul valore di transazione, una significativa deroga a tale principio avviene nel caso in cui – nell’ambito di transazioni intercompany – vi sia uno scostamento del prezzo dichiarato rispetto a quello determinabile at arm’s length (25). A tale fine si ammette il ricorso ai metodi elaborati dall’OCSE in materia di transfer pricing (26). Diversamente la base imponibile in ambito IVA è costituita dal corrispettivo effettivamente ricevuto dal soggetto passivo, e non un valore stimato secondo criteri oggettivi (27).
Il pagamento dell’IVA sulle importazioni non avviene più attraverso il meccanismo del reverse charge (applicabile agli acquisti intracomunitari) bensì in contanti alla dogana al momento dell’immissione in consumo. Il diritto alla detrazione viene esercitato a fronte di una bolletta doganale di importazione elettronica su formulario DAU (Documento Amministrativo Unico) e non di una fattura d’acquisto.
Lo stesso presupposto soggettivo richiesto “a monte” quale presupposto di applicabilità dell’IVA è diverso (28). Nell’ambito delle importazioni l’IVA si applica sulle importazioni da “chiunque” effettuate, a prescindere dalla qualifica soggettiva dell’importatore e pertanto anche se l’importazione non rientra nel novero delle c.d. VAT taxable persons (i.e., imprenditore, artista, professionista). In applicazione dei principi generali, se l’importatore opera nell’esercizio d’impresa, arti o professione potrà detrarre l’imposta ex artt. 19 e segg. del D.P.R. n. 633/1972; diversamente resterà inciso dall’imposta.
A ciò si aggiungono, inoltre, regimi speciali previsti per l’importazione di determinati beni, come ad esempio in materia di importazioni di auto, per cui l’art. 1, decimo comma, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286), ha previsto che la richiesta di immatricolazione debba essere accompagnata dalla presentazione di una certificazione doganale attestante l’assolvimento dell’IVA (29), pena la commissione del reato di contrabbando (30), in aggiunta al pagamento dell’IVA, di dazi doganali e una sanzione che va da due a dieci volte i diritti doganali gravanti sul valore del mezzo di trasporto (dazio e IVA). È prevista anche la confisca del mezzo. Formalità e costi con i quali dovrà fare i conti l’operatore economico, divenuto “importatore” (e non più acquirente intracomunitario) nello scenario post Brexit.
4. Cessioni intracomunitarie vs esportazioni: disciplina a confronto
Diversamente da quanto accade per le cessioni intracomunitarie – soggette ad una disciplina speculare a quella degli “acquisti intracomunitari” (31) – le “esportazioni” di merci al di fuori dell’Unione europea sono soggette ad una specifica regolamentazione sia a livello doganale che IVA (32). Ai fini doganali l’esportazione si articola in una prima fase dichiarativa e in una seconda fase di uscita delle merci. Con la prima occorre presentare la dichiarazione doganale su formulario DAU (ora attraverso messaggio telematico) presso la dogana di esportazione all’esito della quale l’esportatore ottiene l’assegnazione di un codice di tracciamento (il c.d. “MRN”) rilevabile nel Documento di Accompagnamento all’Esportazione (il c.d. “DAE”).
La fase di uscita delle merci avviene con la chiusura dell’operazione da parte della dogana di uscita e invio del messaggio alla dogana di esportazione contenente i risultati di uscita. Tale messaggio viene registrato nel database informatico nazionale e costituisce la prova di avvenuta esportazione ai fini IVA. Ciascuna fase coinvolge un distinto Ufficio doganale. Nella fase dichiarativa, la dichiarazione deve essere depositata presso l’Ufficio del luogo dove è stabilito (33) ovvero quello dove le merci sono imballate o caricate per essere esportate (c.d. Ufficio doganale di esportazione). La fase dell’uscita delle merci dal territorio nazionale è curata dall’Ufficio doganale di uscita, che è l’ultimo Ufficio doganale prima dell’uscita delle merci dal territorio doganale comunitario e ha il compito di sorvegliare l’uscita delle merci dal territorio doganale (34).
Ai fini IVA l’esportazione è definita dall’art. 8, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972, che disciplina le c.d. “cessioni all’esportazione” le cui caratteristiche sono la non imponibilità nello Stato, il diritto alla detrazione dell’IVA sugli acquisti, la rilevanza ai fini della determinazione dello status di esportatore abituale e la concorrenza alla costituzione del plafond. Una cessione all’esportazione può configurarsi, alternativamente, quando i beni ceduti sono trasportati fuori dall’Unione europea a cura o a nome del cedente [art. 8, primo comma, lett. a) (35)], o del cessionario non residente [art. 8, primo comma, lett. b) (36); in tale caso l’esportazione si dovrà perfezionare entro 90 giorni dalla consegna dei beni]. Accanto a tali ipotesi (c.d. “dirette”) costituiscono esportazioni “indirette” le operazioni poste in essere nei confronti dei c.d. “esportatori abituali” (37). In luogo del regime di non imponibilità IVA in ambito comunitario, le esportazioni di beni comportano un esborso finanziario che potrebbe essere a carico dell’esportatore italiano nel caso in cui le previsioni contrattuali includano clausole Incoterms del tipo “DAP” o “DAT” (38). Sarà dunque fondamentale porre attenzione alle condizioni contrattuali che disciplinano i rapporti tra l’operatore italiano e britannico, in particolare con riguardo all’applicazione delle clausole Incoterms che nel contesto post Brexit assumono maggiore rilievo rispetto al passato.
5. Effettuazione delle operazioni in Italia: nomina del rappresentante fiscale e rimborsi dell’IVA
Vi sono casi in cui l’operatore straniero è obbligato “ad acquisire” un numero di partita IVA italiano al fine di adempiere agli obblighi imposti dalla normativa IVA. Ciò accade quando il soggetto passivo estero ponga in essere operazioni soggette ad IVA in Italia nei confronti di un “non soggetto passivo” (39) residente in Italia, ovvero verso un altro soggetto passivo anch’esso stabilito fuori dal territorio dello Stato. In tali ipotesi l’esercizio dei diritti IVA (in primis di detrazione) nonché l’assolvimento dei relativi obblighi (ad esempio, emissione e registrazione delle fatture attive, annotazione di quelle passive, liquidazioni periodiche, obblighi dichiarativi, etc.) è esercitato a mezzo del rappresentante fiscale in Italia. La nomina deve risultare da atto pubblico, scrittura privata autenticata o, in alternativa, da lettera annotata in apposito registro presso l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate del domicilio del rappresentante stesso e deve essere comunicata all’altro contraente in data anteriore all’effettuazione dell’operazione. Gli acquisti effettuati in Italia direttamente dal soggetto estero anteriormente alla nomina del rappresentante fiscale non possono essere portati in detrazione, ma possono essere oggetto di richiesta di rimborso ai sensi dell’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972. Nominato il rappresentante fiscale, i soggetti esteri devono presentare la dichiarazione di inizio attività e chiedere l’attribuzione del numero di partita IVA in Italia. Valida alternativa alla nomina del rappresentante fiscale, concessa agli operatori comunitari stabiliti in altro Paese UE, consiste nella possibilità di procedere all’“identificazione diretta”. In tale caso occorre attivare la procedura ad hoc prevista dall’art. 35-ter del D.P.R. n. 633/1972 – presentando all’Ufficio competente anche a mezzo servizio postale e mediante raccomandata un modello contenente una serie di dati volti ad identificare il soggetto comunitario – all’esito della quale l’Ufficio tributario attribuisce all’operatore comunitario un numero di partita IVA italiana, da utilizzare nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria italiana e prodromico all’esercizio dei diritti/adempimento dei doveri imposti dalla normativa IVA.
Anche sul piano dei rimborsi dell’IVA vige una distinzione tra operatori comunitari ed extracomunitari. I soggetti passivi d’imposta, come tali identificati in uno Stato UE e non residenti in Italia, possono chiedere il rimborso dell’IVA versata sugli acquisti effettuati in Italia accedendo ad un “portale elettronico” (40) e trasmettendo l’istanza per via elettronica tramite lo Stato membro di residenza del richiedente. L’Amministrazione finanziaria deve notificare una decisione (di accoglimento o rigetto) entro il termine di quattro mesi dalla data di ricezione della richiesta, a meno che non vengano richieste informazioni aggiuntive necessarie per potere decidere in merito. In ogni caso la procedura non può comunque eccedere gli otto mesi dalla ricezione dell’istanza. Diversamente (41), i soggetti esteri residenti fuori dall’Unione europea possono chiedere il rimborso dell’IVA, purché ciò avvenga a condizioni di reciprocità con lo Stato di appartenenza dell’operatore (i.e., sia consentito agli operatori economici italiani di ottenere il rimborso dell’analoga imposta ivi assolta); è pertanto necessario che lo Stato extracomunitario abbia istituito un’imposta sul valore aggiunto o sulla cifra d’affari analoga all’IVA europea. Attualmente tale meccanismo è attivo solamente con la Svizzera, Israele e la Norvegia; sebbene sia prevista la facoltà – non l’obbligo – per gli Stati UE di estendere tale meccanismo anche ai soggetti che risiedono in Paesi aderenti al GATS (42) (tra cui vi è il Regno Unito). Come è evidente, oltre alle formalità e ai costi derivanti dall’applicazione della normativa doganale, nello scenario post Brexit gli operatori inglesi che pongono in essere operazioni rilevanti ai fini IVA si troverebbero a dovere nominare un rappresentante fiscale a mezzo del quale esercitare i diritti di detrazione e rimborso dell’IVA versata in Italia, nonché adempiere agli obblighi dichiarativi posti in capo ai soggetti passivi IVA che nello scenario ante Brexit potevano essere adempiuti direttamente nel Regno Unito: infatti, la richiesta per l’attribuzione del numero di partita IVA italiano a mezzo di identificazione diretta poteva essere chiesta a mezzo di semplice raccomandata spedita dall’estero e il VAT refund poteva essere chiesto direttamente dall’Amministrazione finanziaria inglese (“HMRC”) che avrebbe a sua volta processato la richiesta all’Agenzia delle entrate italiana (43).
6. Conclusioni
Nel 2014 l’Unione europea ha costituito per le aziende inglesi il 44,6% delle esportazioni e il 53,2% delle importazioni (44). Come sopra esposto tali flussi – ante Brexit – si qualificavano come cessioni e acquisti intracomunitari, non esposti a dazi doganali e soggetti a reverse charge in ambito IVA. Oggi la bilancia commerciale italo-britannica pende a favore dell’Italia: nel 2015 il nostro Paese ha esportato nel Regno Unito beni e servizi per un valore di 22,5 miliardi di euro (pari al 5,4% dell’export totale) e ha importato 10,6 miliardi di euro (2,9% dell’import totale). L’introduzione di dazi doganali da parte dell’Unione europea risulta alquanto plausibile alla luce delle dichiarazioni del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk secondo cui la Gran Bretagna non potrà avere un accesso al mercato unico “à la carte” (45). Ai dazi europei seguirebbe ragionevolmente l’introduzione di dazi doganali da parte del Regno Unito. Ciò potrebbe avere un significativo effetto sui rapporti commerciali con l’Italia, visto che le esportazioni italiane nel Regno Unito superano le importazioni e il saldo commerciale è positivo per quasi dodici miliardi di euro (46).
A tale riguardo nel 2015 l’export del vino, in particolare, ha inciso per il 14% del totale delle esportazioni italiane (47). L’introduzione di tariffe doganali inglesi su tale prodotto potrebbe determinare una contrazione delle esportazioni, come accade in particolare in Cina e in Brasile, dove tali prodotti scontano dazi per il 14% in Cina e il 28% in Brasile (48).
Sul versante delle importazioni l’import dal Regno Unito vede tra i primi posti le automobili. Qualora fossero adottate dal Regno Unito misure doganali analoghe a quelle applicate dalla Svizzera o dagli Stati Uniti, l’acquirente si troverebbe esposto ad un incremento del costo, dovuto all’incidenza del dazio doganale pari al 10%, al quale si aggiungerebbe l’IVA – da versare in dogana – oltre alla possibile necessità di nominare un rappresentante fiscale in Italia per l’esercizio dei diritti e l’adempimento degli obblighi previsti dall’IVA. È forse da un’attenta analisi degli effetti negativi che potrebbero verificarsi sull’economia inglese che all’iniziale “Brexit means Brexit” il governo britannico ha annunciato più recentemente che non chiederà l’applicazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona (49) prima della fine dell’anno, il che porta ad escludere una concretizzazione della Brexit prima del 2019 (50).
In attesa di vedere quali saranno i futuri scenari internazionali, quanto sopra esposto potrà fornire un utile spunto di riflessione per tutti gli operatori economici che pongono in essere operazioni commerciali con il Regno Unito.
Avv. Stefano Guarino
(1) Norme standardizzate vengono applicate in modo uniforme da tutte le Amministrazioni doganali dell’Unione europea. In particolare, nel maggio del 2016, è stato adottato un nuovo codice doganale dell’Unione europea che semplifica e razionalizza notevolmente le procedure doganali dell’Unione. Diversamente i trattati UE non prevedono una armonizzazione delle legislazioni a livello di imposizione diretta.
(2) L’Unione doganale è disciplinata dagli artt. 28-29 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
(3) Il voto a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea ha vinto, riscuotendo il 52% dei voti.
(4) Decisione come successivamente modificata e conosciuta anche come CUD (Customs Union Decision), accettata da entrambe le parti il 22 dicembre 1995 con lo scopo di attivare la fase finale del processo di Unione doganale tra Unione europea e Turchia. Cfr. art. 4: «Import or export customs duties and charges having equivalent effect shall be wholly abolished between the Community and Turkey on the date of entry into force of this Decision. The Community and Turkey shall refrain from introducing any new customs duties on imports or exports or any charges having equivalent effect from that date. These provisions shall also apply to customs duties of a fiscal nature».
(5) L’Unione doganale con San Marino è disciplinata dall’«Accordo di cooperazione e di unione doganale tra la Comunità economica europea e la Repubblica di San Marino» come successivamente modificato e integrato. Cfr. art. 1: «Il presente accordo tra la Comunità economica europea e la Repubblica di San Marino crea un’unione doganale tra le parti»; art. 5: «Le parti contraenti si astengono dall’introdurre tra loro i nuovi dazi doganali all’importazione e all’esportazione, comprese le tasse di effetto equivalente».
(6) Attualmente l’Accordo di Unione doganale concluso nel 1990 fra il Principato di Andorra e la CEE contempla unicamente le merci industriali prodotte ad Andorra o prodotti industriali di Paesi terzi immessi in libera pratica ad Andorra. L’Accordo prevede l’eliminazione dei dazi doganali, delle imposte aventi effetto equivalente e delle limitazioni quantitative nell’interscambio commerciale fra le due parti firmatarie, da un lato; dall’altro lato, l’Accordo prevede l’adozione da parte di Andorra dell’acquis comunitario sulle importazioni nei confronti di Paesi terzi nell’Unione doganale, nonché l’attuazione di misure ai sensi della politica commerciale applicate dall’Unione europea alle importazioni.
(7) Prima di aderire all’Unione europea il Regno Unito è stato parte dei sette membri che il 3 maggio 1960 crearono l’EFTA (Associazione europea di libero scambio).
(8) Cfr. Documento pubblicato dall’Amministrazione finanziaria svizzera “Gli Accordi bilaterali Svizzera – Unione europea”, edizione 2015, secondo cui l’Accordo di libero scambio (ALS) concluso nel 1972 tra la Svizzera e l’Unione europea (UE) ha creato una zona di libero scambio per i prodotti industriali. In virtù dell’ALS, i prodotti industriali possono circolare esenti da dazi doganali tra la Svizzera e gli Stati membri se sono originari del territorio di una delle due parti contraenti. L’ALS riguarda unicamente i prodotti industriali: il commercio di prodotti agricoli non rientra nel suo campo di applicazione e viene disciplinato da un accordo distinto.
(9) Come nel caso della Svizzera che è membro dell’EFTA, pur non facendo parte dello Spazio economico europeo.
(10) Tramite l’accordo SEE, concluso nel 1992, i 27 Stati membri dell’Unione europea e i tre Stati dell’AELS (Liechtenstein, Islanda e Norvegia; la Svizzera non vi partecipa) sono riuniti in un unico mercato. Il SEE prevede, inter alia, la libera circolazione delle merci: i prodotti industriali fabbricati in uno Stato membro del SEE o messi legalmente in circolazione nel territorio di quest’ultimo possono essere commercializzati liberamente in tutti gli altri Stati aderenti all’SEE. Oltre ad abolire i dazi doganali e le restrizioni quantitative, l’Accordo mira anche all’armonizzazione delle norme tecniche di produzione e delle regole di origine. L’Accordo non prevede il libero commercio dei prodotti agricoli. I prodotti agricoli e della pesca sono esplicitamente esclusi dallo Spazio economico europeo. Inoltre il SEE non è un’unione doganale con una tariffa doganale comune e non persegue una politica commerciale comune. Gli Stati dell’AELS che hanno aderito al SEE conservano quindi la propria autonomia nelle relazioni economiche con i Paesi terzi. Il SEE non mira ad un’armonizzazione fiscale; contrariamente all’Unione europea non punta nemmeno all’armonizzazione della fiscalità indiretta (IVA e tasse sul consumo).
(11) Il WTO (in Italiano “Organizzazione Mondiale del Commercio, OMG”) è stato istituito il 1° gennaio 1995, alla conclusione dell’Uruguay Round, i negoziati che tra il 1986 e il 1994 hanno impegnato i Paesi aderenti al GATT e i cui risultati sono stati sanciti nell’Accordo di Marrakech del 15 aprile 1994. Obiettivo generale del WTO è la riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale; a differenza di quanto avveniva in ambito GATT, oggetto della normativa dell’OMC sono, però, non solo i beni commerciali, ma anche i servizi e le proprietà intellettuali.
(12) Uno dei principali risultati ottenuti dall’OMC è costituto dal consolidamento del suo organo di conciliazione, il quale ha la facoltà di pronunciarsi sulle controversie commerciali e di dare attuazione alle proprie decisioni.
(13) Vi sono, tuttavia, importanti eccezioni a questo principio, secondo le quali i Paesi aderenti possono sottoscrivere accordi di libero scambio (Free Trade Agreements) applicabili ai soli beni scambiati all’interno dell’area di libero scambio, discriminando pertanto rispetto ai beni originari di Paesi non appartenenti a tale area; prevedere un accesso privilegiato al proprio mercato (i.e., dazio ridotto) per i prodotti originari di Paesi in via di sviluppo (tramite il sistema delle preferenze generalizzato); in presenza di politiche commerciali scorrette (sovvenzioni o dumping commerciale) difendersi istituendo, in determinate circostanze, misure di politica commerciale difensiva (ad esempio, dazi anti-dumping e dazi anti sovvenzione).
(14) La Commissione negozia gli accordi commerciali e difende gli interessi dell’Unione europea dinanzi all’organo di conciliazione dell’OMC a nome di tutti i 28 Stati membri. La Commissione consulta regolarmente il Consiglio e il Parlamento europeo e riferisce periodicamente ad essi. Dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio e il Parlamento sono co-legislatori e, pertanto, decidono su un piano di parità in merito alle questioni relative al commercio internazionale.
(15) Cfr. art. 38, secondo comma, del D.L. n. 331/1993: «Costituiscono acquisti intracomunitari le acquisizioni, derivanti da atti a titolo oneroso, della proprietà di beni o di altro diritto reale di godimento sugli stessi, spediti o trasportati nel territorio dello Stato da altro Stato membro dal cedente, nella qualità di soggetto passivo d’imposta, ovvero dall’acquirente o da terzi per loro conto».
(16) Al riguardo, il regime di cui agli artt. 37 e segg. del D.L. n. 331/1993 si applica esclusivamente alla cessione di “beni materiali” intracomunitari, dovendosi applicare la disciplina prevista dal D.P.R. n. 633/1972 alle cessioni di beni a titolo gratuito, di beni immateriali di immobili nonché alle cessioni effettuate nei confronti di privati consumatori.
(17) Ai sensi dell’art. 17, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972, come regola generale viene previsto che l’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario.
(18) Esulano da tale discorso le “prestazioni di servizi”: non solo tali operazioni non sono soggette all’applicazione della normativa doganale ma la normativa IVA non contempla una distinzione simile a quella operata tra acquisti/cessioni intracomunitarie e nazionali. In materia di prestazioni di servizi rese da soggetti stabiliti fuori dall’Italia o dall’Unione europea, in linea generale, si considerano rilevanti in Italia tutte le prestazioni rese da prestatori stabiliti in Italia, nell’Unione europea o fuori da essa nei confronti di soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato (in applicazione del criterio “Buisiness-to-Business, B2B”); per contro, non scontano l’IVA italiana le prestazioni rese nei confronti di soggetti passivi stabiliti nel territorio di altro Stato, comunitario o non comunitario. Sono altresì rilevanti tutte le prestazioni rese nei confronti di committenti che intervengono come consumatori/utilizzatori finali del servizio stabiliti nel territorio di un altro Stato – UE o extra-UE – da parte di prestatori soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato (in applicazione del criterio “Business-to-Consumer, B2C”). Anche alle prestazioni di servizi rese da soggetti passivi non residenti nel territorio dello Stato nei confronti di soggetti passivi stabiliti in Italia, il legislatore ha previsto l’applicazione del meccanismo del reverse charge.
(19) L’“importazione” si intende la materiale introduzione delle merci nel territorio doganale.
(20) Cfr. art. 10 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea, secondo cui «sono considerati immissioni in libera pratica in uno Stato Membro i prodotti provenienti da paesi terzi per i quali siano state adempiute in tale Stato le formalità di importazione e riscossi i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente esigibili e che non abbiano beneficiato di un ristorno totale di tali dazi e tasse». Art. 79 del CDC (Codice doganale comunitario) (art. 201 del CDU, Codice doganale dell’Unione): «1. Le merci non unionali destinate al mercato dell’Unione o destinate all’uso o al consumo privato nell’ambito del territorio doganale dell’Unione sono vincolate al regime di immissione in libera pratica. 2. L’immissione in libera pratica comporta: a) la riscossione dei dazi dovuti all’importazione; b) la riscossione, ove opportuno, di altri oneri, come previsto dalle pertinenti disposizioni vigenti in materia di riscossione di tali oneri; c) l’applicazione delle misure, dei divieti e delle restrizioni di politica commerciale, a meno che non debbano essere applicati in una fase precedente; e d) l’espletamento delle altre formalità stabilite per l’importazione delle merci. L’immissione in libera pratica attribuisce la Posizione di merce comunitaria ad una merce non comunitaria. Essa implica l’applicazione delle misure di politica commerciale, l’espletamento delle altre formalità previste per l’importazione di una merce, nonché l’applicazione dei dazi legalmente dovuti».
(21) Art. 67 del D.P.R. n. 633/1972.
(22) Ci si riferisce alla collocazione delle merci presso un deposito IVA o alla consegna in un altro Stato membro, sospendendo l’applicazione della fiscalità interna. Segnatamente, nel primo caso l’assolvimento dell’imposta è differito al momento di estrazione della merce dal deposito per essere immessa in commercio. Nel secondo caso l’IVA e – se applicabile – l’accisa sono dovute nello Stato membro di destinazione finale.
(23) Art. 69 del D.P.R. n. 633/1972: «L’imposta è commisurata, con le aliquote indicate nell’art. 16, al valore dei beni importati, determinato ai sensi delle disposizioni in materia doganale, aumentato dell’ammontare dei diritti doganali dovuti, ad eccezione dell’imposta sul valore aggiunto, nonché dell’ammontare delle spese d’inoltro fino al luogo di destinazione all’interno del territorio della Comunità che figura sul documento di trasporto sotto la cui scorta i beni sono introdotti nel territorio medesimo. Per i supporti informatici, contenenti programmi per elaboratore prodotti in serie, concorre a formare il valore imponibile anche quello dei dati e delle istruzioni in essi contenuti. Per i beni che prima dello sdoganamento hanno formato oggetto nello Stato di una o più cessioni, la base imponibile è costituita dal corrispettivo dell’ultima cessione».
(24) Nell’art. VII del GATT il concetto di valore in dogana è inteso come il prezzo di vendita delle merci in un mercato aperto alla piena concorrenza. Nell’art. 29 del CDC il valore in dogana è definito come il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale della Comunità. Da ultimo l’art. 70 del Regolamento (UE) 9 ottobre 2013, n. 952, definisce il valore in dogana come il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando sono vendute per l’esportazione verso il territorio doganale dell’Unione.
(25) L’art. 70 del Regolamento (UE) n. 952/2013, secondo comma: «Il valore di transazione si applica purché ricorrano tutte le condizioni seguenti: … d) il compratore e il venditore non siano collegati o la relazione non abbia influenzato il Prezzo».
(26) Cfr. circ. 6 novembre 2015, n. 16/D, in Boll. Trib. On-line. Lo stesso Comitato tecnico sul valore in dogana dell’OMD (Organizzazione Mondiale delle Dogane), nel Commento n. 23.1 ha ritenuto che i metodi tradizionali OCSE di determinazione del prezzo di trasferimento infragruppo possano essere accettati anche in materia doganale.
(27) Art. 73 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2016. Cfr. Corte Giust. CE, sez. VIII, 9 giugno 2011, causa C-285/10, punto 28, Campsa Estaciones de Servicio SA contro Administración del Estado; Corte Giust. CE, sez. I, 20 gennaio 2005, causa C-412/03, punto 21, Hotel Scandic Gåsabäck contro Riksskatteverket; Corte Giust. CE, sez. VI, 3 luglio 1997, causa C-330/95, punto 15, Goldsmiths (Jewellers) Ltd contro Commissioners of Customs [amp] Excise; tutte in Boll. Trib. On-line.
(28) L’art. 1 del D.P.R. n. 633/1972 assoggetta ad IVA le importazioni da chiunque effettuate.
(29) Cfr. art. 1, decimo comma, del D.L. n. 262/2006: «Per i veicoli di cui al comma 9, oggetto di importazione, l’immatricolazione è subordinata alla presentazione della certificazione doganale attestante l’assolvimento dell’IVA e contenente il riferimento all’eventuale utilizzazione, da parte dell’importatore, della facoltà prevista dall’articolo 8, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, nei limiti ivi stabiliti».
(30) Il passaggio ai valichi di persone con residenza nella UE alla guida di autovetture immatricolate in Paesi terzi, in esonero totale dal pagamento dei dazi all’importazione e dell’IVA, solo in alcuni specifici casi è oggetto di autorizzazione doganale (i.e., utilizzo del mezzo di trasporto a titolo occasionale e di emergenza o in locazione; o utilizzo sistematico per motivi di lavoro di autoveicoli e altri mezzi di trasporto immatricolati all’estero). L’utilizzo senza l’autorizzazione doganale, da parte di un residente in Italia di un’auto immatricolata in Paesi terzi, comporta la denuncia per contrabbando sin dall’atto di ingresso nel territorio UE, ai sensi dell’art. 216 del TULD (D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43), l’applicazione di una sanzione amministrativa e la confisca del mezzo stesso.
(31) Art. 41 del D.L. n. 331/1993.
(32) Codice doganale comunitario, art. 161 del CDC, art. 269 del CDU (Codice doganale dell’Unione).
(33) Cfr. circ. 29 dicembre 2010, n. 18/D, in Boll. Trib. On-line, secondo cui «per le operazioni svolte in procedura ordinaria, la residenza dell’esportatore a cui fa riferimento l’art. 161, p. 5 [del Codice doganale comunitario] si intende riferito all’intero territorio nazionale di appartenenza e non necessariamente alla singola località di residenza all’interno del medesimo territorio nazionale. In pratica l’esportatore nazionale che effettua operazioni in “ordinaria” è abilitato a presentare la dichiarazione di esportazione e le merci in uno degli uffici doganali situati nel territorio nazionale; non è, invece, abilitato a presentare la dichiarazione doganale in uno Stato membro diverso da quello di residenza a meno che non ricorrano le prescritte condizioni di deroga (luogo competente per dove la merce è caricata o imballata)».
(34) Per le merci esportate mediante conduttura e per l’energia elettrica, l’Ufficio designato dallo Stato membro in cui l’esportatore è stabilito; al di fuori di tali ipotesi, quello competente per il luogo in cui le merci sono prese in carico, a fronte di un contratto di trasporto unico per la loro uscita dal territorio doganale della Comunità, da una società ferroviaria, dall’autorità postale, da una società di navigazione marittima o aerea.
(35) Art. 8 del D.P.R. n. 633/1972: lett. a) «Le cessioni, anche tramite commissionari, eseguite mediante trasporto o spedizione di beni fuori del territorio della Comunità economica europea, a cura o a nome dei cedenti o dei commissionari, anche per incarico dei propri cessionari o commissionari di questi».
(36) Art. 8 del D.P.R. n. 633/1972: lett. b) «le cessioni con trasporto o spedizione fuori del territorio della Comunità economica europea entro novanta giorni dalla consegna, a cura del cessionario non residente o per suo conto, ad eccezione dei beni destinati a dotazione o provvista di bordo di imbarcazioni o navi da diporto, di aeromobili da turismo o di qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato e dei beni da trasportarsi nei bagagli personali fuori del territorio della Comunità economica europea».
(37) Art. 8 del D.P.R. n. 633/1972: lett. c) «le cessioni, anche tramite commissionari, di beni diversi dai fabbricati e dalle aree edificabili, e le prestazioni di servizi rese a soggetti che, avendo effettuato cessioni all’esportazione od operazioni intracomunitarie, si avvalgono della facoltà di acquistare, anche tramite commissionari, o importare beni e servizi senza pagamento dell’imposta».
(38) “DAP” (Delivered at place), significa “reso frontiera” seguito dall’indicazione del luogo. Il venditore adempie le obbligazioni relative alla consegna, e ne sopporta i relativi rischi e costi, quando le merci vengono messe a disposizione dell’acquirente, dopo l’assolvimento delle formalità doganali di esportazione ma prima del passaggio della frontiera doganale di importazione. “DAT” (Delivered at terminal) significa “reso ex ship”, seguito dal nome del porto di destinazione convenuto. In questo caso il venditore adempie al suo obbligo di consegna quando la merce viene messa a disposizione dell’acquirente a bordo della nave nel porto di destinazione convenuto, ma senza l’onere delle operazioni doganali d’importazione e le spese di sbarco.
(39) Direttiva 2006/112/CE, art. 9: «1. Si considera “soggetto passivo” chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività. Si considera “attività economica” ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate. Si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità. 2. Oltre alle persone di cui al paragrafo 1, si considera soggetto passivo ogni persona che effettui a titolo occasionale la cessione di un mezzo di trasporto nuovo spedito o trasportato a destinazione dell’acquirente dal venditore, dall’acquirente o per loro conto, fuori dal territorio di uno Stato membro ma nel territorio della Comunità».
(40) Secondo quanto previsto dall’art. 38-bis2 del D.P.R. n. 633/1972. Non possono avvalersi di tale procedura di rimborso i soggetti non residenti con stabile organizzazione in Italia, che devono portare in detrazione l’IVA pagata dalla casa madre europea e non possono richiederla a rimborso in base all’art. 38-bis2. Come chiarito dall’Agenzia delle entrate con la risposta n. 40 resa dalla stessa alle FAQ del 12 luglio 2010, anche un soggetto comunitario identificato direttamente o tramite rappresentante fiscale in Italia deve chiedere rimborso tramite la procedura di cui all’art. 38-bis utilizzando la partita IVA italiana e non può attivare la procedura di cui all’art. 38-bis2, attivando – di fatto, pur in assenza di previsione legislativa – la deroga prevista dall’art. 171-bis della Direttiva 2008/8/CE del Consiglio del 12 febbraio 2008.
(41) In base a quanto previsto dall’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972. Anche in tal caso il rimborso non può essere impiegato dai soggetti esteri con stabile organizzazione in Italia. Analogamente, la procedura di cui all’art. 38-ter dovrebbe poter essere attivata dai soggetti non residenti, identificati in Italia tramite rappresentante fiscale, quando nel periodo interessato la casa madre estera effettui operazioni soggette a reverse charge.
(42) Come precisato da Corte Giust. CE, sez. I, 7 giugno 2007, causa C-335/05, in Boll. Trib. On-line.
(43) Come precisato dall’Amministrazione finanziaria inglese (“HMRC”) secondo cui «HMRC send your claim to the tax authority of the country you’re making the VAT refund claim against. The tax authority responsible for making the refund is called the Member State of Refund (MSREF)».
(44) Cfr. R. SAPORITI, Import ed export con il Regno Unito: chi ci perde con la Brexit?, in Il Sole 24 Ore del 1° luglio 2016.
(45) Come dichiarato dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk: «We wish UK as close partner. Access to the single market means acceptance of all four freedoms. No single market à la carte … many expect Europe to do better. Europe brought hope for decades. Our responsibility to return that».
(46) Cfr. S. PIERACCINI, Asse strategico Italia-Regno Unito, in Il Sole 24 Ore del 22 marzo 2016.
(47) Cfr. Nomisma, vino tricolore a rischio Brexit, in www.ansa.it del 22 giugno 2016.
(48) Cfr. F. ROGGERO, Il vino italiano pronto alla sfida dell’e-commerce, in Il Sole 24 Ore del 3 maggio 2016.
(49) Articolo che regola l’uscita di uno Stato membro dall’Unione europea.
(50) Cfr. P. YEUNG, Brexit: Government lawyer tells court UK will not trigger Article 50 this year, in The Indipendent del 19 luglio 2016; e I. FRANCESE, Brexit, frenata della May: “Rimandiamolo al 2019”, in Il Giornale del 19 luglio 2016.