SOMMARIO: 1. PREMESSA – 2. I CASI ANALIZZATI; 2.1 Cessione di partecipazioni in una società che possiede un’azienda con ingente liquidità e che ha, nel proprio patrimonio netto, importanti riserve di utili; 2.2 Cessione di partecipazioni in una società che possiede solo denaro e valori mobiliari e che ha, nel proprio patrimonio netto, importanti riserve di utili; 2.2.1 La problematica dell’imposta di registro; 2.3 Cessione di partecipazioni in una società con importanti riserve di utili a favore di una Newco partecipata anche da alcuni dei cedenti; 2.4 Cessione di partecipazioni in una società con importanti riserve di utili a favore di una Newco partecipata da tutti i cedenti; 2.5 Acquisto di azioni proprie da tutti i soci in proporzione alle rispettive percentuali di partecipazione – 3. CALCOLO DEL VANTAGGIO FISCALE INDEBITO E RISCHIO DI DOPPIA TASSAZIONE DEGLI UTILI SOCIETARI.
1. PREMESSA
Il presente lavoro prende in esame alcuni casi di trasferimenti partecipativi, accomunati dalla precedente rivalutazione del costo fiscale delle partecipazioni oggetto di trasferimento mediante pagamento dell’imposta sostitutiva, col fine di verificare l’eventuale sussistenza di possibili profili elusivi che potrebbero essere censurati ai sensi dell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (1).
Va premesso, innanzitutto, che nel vigente sistema impositivo dei redditi di natura finanziaria il regime fiscale applicabile ai “redditi di capitale” e ai “redditi diversi”, conseguiti da persone fisiche residenti in Italia (al di fuori di un’attività imprenditoriale), in relazione al possesso e al realizzo di partecipazioni societarie, è assolutamente similare.
L’attuale regime fiscale applicabile a tali redditi prevede, infatti:
– un’imposizione sostitutiva con l’aliquota del 26%, sia per i dividendi sia per i capital gains derivanti da partecipazioni non qualificate (2);
– un concorso parziale, attualmente nella misura del 49,72%, alla formazione del reddito complessivo del contribuente in caso di dividendi e capital gains rivenienti da partecipazioni qualificate (3) (4).
Per i soli dividendi di formazione storica la quota imponibile si riduce al 40%: più precisamente, l’imponibilità al 40% si applica agli utili e alle riserve di utili formatisi fino al 31 dicembre 2007, con conseguente prelievo in capo al socio pari al 17,2% (40% x 43%) senza considerare eventuali addizionali regionali e comunali, mentre l’imponibilità al 49,72% si applica agli utili e alle riserve di utili formatisi a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 con conseguente prelievo in capo al socio pari al 21,38% (49,72% x 43%) sempre senza considerare eventuali addizionali regionali e comunali (cfr. D.M. 2 aprile 2008, il quale prevede, altresì, una presunzione che consente di regolare il criterio di “uscita” degli utili, secondo la quale i dividendi distribuiti si considerano “prioritariamente formati” con utili prodotti dalla società partecipata fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2007).
Pur in presenza di questa sostanziale omogeneità di regime fiscale tra i dividendi e le plusvalenze, l’incremento del costo fiscale delle partecipazioni societarie derivante dal pagamento dell’imposta sostitutiva di cui all’art. 5 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (5) rileva, per espressa previsione normativa, solo al fine di determinare le plusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni stesse, ossia solo al fine del computo dei “redditi diversi” disciplinati dagli artt. 67 e ss. del TUIR (6).
Il maggior costo fiscale derivante dalla rivalutazione delle partecipazioni non è riconosciuto, pertanto, ai fini di altre ipotesi reddituali che danno origine a “redditi di capitale” anziché a “redditi diversi” (ci si riferisce alle ipotesi del recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale e liquidazione della società regolate dall’art. 47, settimo comma, del TUIR), sebbene l’eventuale “reddito di capitale” realizzato dal socio sia quantificato sempre in via differenziale (7). In tali casi il costo fiscale delle azioni o quote annullate è calcolato senza tenere conto dell’incremento derivante dalla rivalutazione.
La dottrina ha correttamente osservato che tale disparità non è caratterizzata, nell’ambito dell’attuale sistema di tassazione dei redditi di natura finanziaria, da alcuna logica che possa giustificarla. Anzi, probabilmente è solo il frutto di una svista del legislatore che si è limitato, nelle varie proroghe della legge di rivalutazione, a rinviare all’originaria formulazione del 2001, senza accorgersi del fatto che a decorrere dal 1° gennaio 2004 le due tipologie di reddito sono state regolate fiscalmente in modo uniforme (8). Come detto, infatti, nelle fattispecie di recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale e liquidazione della società il “reddito di capitale” (i) è determinato in via differenziale e (ii) discende da un atto qualificabile come “disinvestimento patrimoniale”, esattamente come si verifica per i capital gains derivanti dalla vendita a terzi delle partecipazioni societarie, anch’essi calcolati in via differenziale e derivanti da un atto di disinvestimento (9).
Tuttavia, è inequivocabile che il legislatore abbia stabilito che il costo rivalutato della partecipazione (a seguito del pagamento dell’imposta sostitutiva) non possa essere utilizzato ai fini del computo dei “redditi di capitale” percepiti dal socio in costanza di possesso della partecipazione sociale o in ipotesi di realizzo della stessa (10). La volontà del legislatore è quindi quella di assoggettare i dividendi percepiti da persone fisiche unicamente all’imposizione ordinaria sopra descritta, ancorché, in tal modo, venga ad essere indebolita l’omogeneità di regime fiscale con i capital gains, i quali, a fianco dell’imposizione ordinaria, godono frequentemente di una tassazione agevolata.
Premesso quanto sopra, si analizzano, qui di seguito, alcune operazioni di cessione di partecipazioni, il cui costo fiscale è stato precedentemente rivalutato, al fine di verificare la loro eventuale riconducibilità nell’ambito delle operazioni a carattere elusivo.
2. I CASI ANALIZZATI
2.1 Cessione di partecipazioni in una società che possiede un’azienda con ingente liquidità e che ha, nel proprio patrimonio netto, importanti riserve di utili
Nel caso di specie il dubbio che si pone è se l’operazione possa essere configurata come un’operazione elusiva, poiché i soci non hanno proceduto alla distribuzione dei dividendi prima della vendita della partecipazione (o prima dell’affrancamento), beneficiando in tal modo di una minore tassazione misurabile, approssimativamente, in un range che va da un minimo del 10%, se oggetto di cessione è una partecipazione qualificata in una società con riserve di utili di formazione ante 2008 (11), ad un massimo del 18% se oggetto di cessione è una partecipazione non qualificata (12).
Ci pare, tuttavia, che la risposta debba essere necessariamente negativa, dato che i soci hanno semplicemente scelto un regime opzionale offerto dalla legge, il quale prevede che a fronte del pagamento di un’imposta sostitutiva il costo fiscale della partecipazione può essere incrementato fino all’effettivo valore di mercato della stessa, valore che non può non tener conto della posizione finanziaria netta della società (i.e. liquidità creata nel corso degli anni a seguito della produzione di utili non distribuiti). Non essendoci nel TUIR, né nella legge che ha istituito il regime opzionale dell’affrancamento del costo, una disposizione che imponga – prima della vendita di una partecipazione o prima dell’affrancamento del costo – la distribuzione degli utili o delle riserve di utili presenti nel bilancio della società, bene hanno fatto i soci a scegliere il regime fiscale che ha comportato per essi il minor carico impositivo.
Come è stato osservato in dottrina, «una volta introdotta normativamente la possibilità di rivalutare il costo delle partecipazioni societarie da utilizzarsi al fine di determinare il capital gain realizzato in sede di cessione delle partecipazioni stesse, la “spendita” del costo fiscale rivalutato è ammessa in tutte le cessioni di partecipazioni, anche in quelle il cui effetto, sotto il profilo economico-sostanziale, è la “monetizzazione” indiretta (i.e. in assenza di distribuzione) delle riserve di utili presenti nel patrimonio della società le cui partecipazioni sono oggetto di cessione» (13).
In altre parole, i soci non hanno realizzato alcun “vantaggio fiscale indebito”, in quanto non hanno conseguito un beneficio “in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (14), avendo applicato in modo del tutto lineare un regime opzionale che la normativa fiscale ha messo a loro disposizione, rappresentato dalla possibilità di rivalutare il costo fiscale della partecipazione (dietro pagamento di un’imposta sostitutiva) al fine di ridurre o annullare la plusvalenza realizzabile in sede di cessione della partecipazione stessa che, nell’ambito dell’imposizione ordinaria, avrebbe scontato un maggior onere fiscale.
2.2 Cessione di partecipazioni in una società che possiede solo denaro e valori mobiliari e che ha, nel proprio patrimonio netto, importanti riserve di utili
Il caso potrebbe essere quello di una famiglia, precedentemente proprietaria di partecipazioni in una società operativa, che, avendo voluto cedere il proprio business, ha preferito creare una “cassaforte di famiglia” per la gestione unitaria dei mezzi finanziari rivenienti dalla vendita della società operativa, ed ha perciò proceduto al preventivo conferimento dell’azienda famigliare in una Newco ai sensi dell’art. 176, terzo comma, del TUIR, cedendo successivamente, per il tramite della conferente, le partecipazioni nella società operativa, con fruizione del regime di esenzione di cui all’art. 87 del TUIR (15) (questa soluzione, agevolmente percorribile ai fini delle imposte dirette quando si vuole disinvestire da un’azienda o da un ramo d’azienda, soffre, tuttavia, di un’annosa questione attinente l’imposta di registro che viene trattato, per completezza, al successivo paragrafo 2.2.1).
Supponiamo che qualche tempo dopo i vari componenti della famiglia decidano di dividersi il contenuto della “cassaforte di famiglia”.
A tal fine, se si esclude la scissione non proporzionale della holding – ipotesi che implicherebbe la conservazione degli asset finanziari all’interno di un veicolo societario – potrebbero essere adottate due diverse soluzioni con differenti effetti fiscali: la famiglia potrebbe, infatti, (i) liquidare la holding attribuendo a ciascuno quanto gli spetta, e tale ipotesi darebbe origine ad un “reddito di capitale” assoggettabile a tassazione ordinaria, oppure (ii) procedere alla rivalutazione delle partecipazioni nella holding (mediante pagamento dell’imposta sostitutiva dell’8%) cedendole successivamente a terzi. Ci si chiede, al riguardo, se questa seconda eventualità – nel caso, ovviamente, porti ad un minore carico fiscale in capo ai soci – possa rappresentare, o meno, un’operazione elusiva.
A noi pare che anche in questo caso la risposta debba essere negativa, poiché i soci, di comune accordo, hanno liberamente scelto “tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”, come consente testualmente il quarto comma dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000. La suddetta disposizione, infatti, ribadisce il principio generale secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio d’imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo. In questo caso, la famiglia si è indirizzata verso l’operazione meno onerosa dal punto di vista fiscale, scegliendo la vendita a terzi (previa rivalutazione del costo delle partecipazioni) rispetto alla liquidazione della società, senza, in tal modo, aggirare la ratio della legge di rivalutazione che tende a concedere il beneficio del prelievo sostitutivo dell’8% quando il contribuente pone in essere un effettivo disinvestimento partecipativo.
Del resto, i soci avrebbero anche potuto rivalutare le loro partecipazioni nella società operativa prima di procedere al conferimento dell’azienda in neutralità d’imposta e alla successiva vendita (da parte della holding, ex società operativa) delle partecipazioni nella società conferitaria. Questa diversa scansione degli eventi, con la quale si sarebbe raggiunto il medesimo risultato, dimostra, a nostro avviso, la natura non elusiva dell’operazione sopra descritta.
2.2.1 La problematica dell’imposta di registro
Secondo un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione, il conferimento d’azienda seguito, in un arco temporale molto ristretto, da una cessione delle quote della società conferitaria determina – ai fini dell’imposta di registro (e delle imposte ipotecarie e catastali) – l’effetto giuridico finale di un trasferimento d’azienda (16).
La norma del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, che porterebbe a tale determinazione sarebbe l’art. 20 (“Interpretazione degli atti”), a mente del quale “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
Più precisamente, la Corte di Cassazione ritiene che:
¬ l’art. 20 “impone il prevalere, ai fini dell’imposta di registro, della causa reale dell’operazione sull’assetto cartolare impresso dalle parti … La prospettiva del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, è tutt’altra [rispetto all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, n.d.r.] e postula soltanto che si proceda alla ricostruzione dell’obiettiva portata dell’attività negoziale sul piano degli effetti giuridici, quale che sia la scelta operata dalle parti del contratto sul piano della forma” (17);
¬ “Nel caso di pluralità di atti non contestuali va attribuita, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, preminenza alla causa reale dell’operazione economica rispetto alle forme negoziali in concreto adoperate dalle parti, di modo che, ai fini dell’individuazione del corretto trattamento fiscale, è consentito all’interprete considerare circostanze ed elementi di fatto diversi da quelli emergenti dal tenore letterale delle previsioni contrattuali. … Questa corte ha già statuito che … qualora l’ufficio ravvisi la sostanziale unitarietà del fenomeno negoziale – trattandosi di un contratto a formazione progressiva o, quantomeno, di un oggettivo collegamento strutturale e funzionale tra gli atti stipulati dalle parti – il termine triennale di decadenza per richiedere l’imposta, previsto dal successivo art. 76, decorre dalla domanda di registrazione dell’ultimo atto dell’unica fattispecie complessa”, ossia dalla vendita della partecipazione (18);
¬ «In tema di imposta di registro, la prevalenza che il D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20 attribuisce alla “intrinseca natura ed agli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, impone, nella relativa loro qualificazione di considerare preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni, non rivelandosi decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto. Pertanto, in caso di conferimento di azienda con contestuale cessione, in favore di un socio della conferitaria, delle quote ottenute in contropartita dal conferente, il fenomeno ha, a tal fine, carattere unitario (in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva ed all’evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell’imposta) ed è configurabile come cessione di azienda, e non costituisce operazione elusiva, per cui non grava sull’Amministrazione l’onere di provare i presupposti dell’abuso di diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui al citato art. 20» (19);
¬ trattandosi di una cessione d’azienda avvenuta tra il conferente e il soggetto acquirente le quote di partecipazione nella conferitaria, quest’ultima è priva di legittimazione passiva, per cui l’avviso di liquidazione non può essere ad essa notificato, a pena di nullità, essendo soltanto le parti del negozio di cessione (come sopra indicate) i soggetti passivi ai fini dell’imposta di registro (20).
Tale orientamento giurisprudenziale sostiene, in pratica, che l’art. 20 legittimi un’applicazione dell’imposta di registro sulla base degli effetti economici desumibili dalla combinazione di un atto con altri atti posti in essere tra le stesse parti o con soggetti diversi. In quest’ottica – osserva Assonime – “gli uffici avrebbero la possibilità di verificare se la combinazione tra i diversi atti evidenzi l’intento di effettuare un’operazione diversa o, comunque, di conseguire un risultato ulteriore rispetto a quello che può evincersi dagli atti autonomamente considerati, nel qual caso dovrebbero essere applicati i tributi (imposta di registro, ma anche le imposte ipotecaria e catastale) previste per l’operazione realmente voluta. Ciò, beninteso, nonostante la presenza – ripetiamo ancora – di una situazione esplicita, per l’appunto, l’art. 20 che impone di considerare gli effetti giuridici, non anche quelli economici” (21).
In questi anni la dottrina è stata compatta nello schierarsi unanimemente contro l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 (22), senza peraltro riuscire a scalfire l’indirizzo giurisprudenziale sopra illustrato. Solo recentemente si è verificata una importante discontinuità nell’impostazione della Cassazione, essendo stata pubblicata una sentenza che si pone in netta controtendenza rispetto al sopra illustrato orientamento. Con la sentenza n. 2054 del 27 gennaio 2017 (23) i giudici della Suprema Corte affermano, infatti, che «se è indubitabile che l’Amministrazione in forza di tale disposizione [art. 20 del registro, n.d.r.] non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici. In altre parole non deve ricercare un presunto effetto economico dell’atto tanto più se e quando – come nel caso di specie – lo stesso è il medesimo per due negozi tipici diversi per gli effetti giuridici che si vogliono realizzare. Infatti, ancorché da un punto di vista economico si possa ipotizzare che la situazione di chi ceda l’azienda sia la medesima di chi cede l’intera partecipazione, posto che in entrambi i casi si “monetizza” il complesso di beni aziendali, si deve riconoscere che dal punto di vista giuridico le situazioni sono assolutamente diverse».
C’è da sperare, naturalmente, che questa sentenza indichi il nuovo percorso interpretativo dei giudici di legittimità sull’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 (e non resti quindi una decisione isolata), al quale, prima o poi, anche gli Uffici dell’Agenzia delle entrate si adegueranno (24).
2.3 Cessione di partecipazioni in una società con importanti riserve di utili a favore di una Newco partecipata anche da alcuni dei cedenti
Si pensi al caso di una società operativa controllata da alcuni soci persone fisiche in relazione alla quale sorgono esigenze di riassetto partecipativo, a causa del fatto che (i) taluni di essi, proprietari di oltre il 50% del capitale della società, non sono più intenzionati a proseguire l’attività d’impresa, preferendo dismettere le loro quote partecipative, (ii) e gli altri soci non sono disponibili ad accrescere la loro percentuale di partecipazione. Supponiamo, quindi, che i terzi acquirenti della maggioranza del capitale della società operativa decidano di strutturare l’operazione costituendo una Newco che si porrà quale cessionaria del 100% delle partecipazioni nella predetta società: pertanto, anche i soci intenzionati a restare nella compagine societaria si pongono come venditori delle loro quote a favore della Newco, previo ingresso nella stessa con una quota di minoranza. Supponiamo, altresì, che la Newco finanzi l’operazione di acquisto per metà con capitale proprio e per metà con mezzi di terzi (ciò significa che i soci “superstiti” devono conferire nella Newco metà dei denari rivenienti dalla vendita delle loro partecipazioni) e che tutti i soci della società operativa abbiano in precedenza rivalutato il costo fiscale delle proprie partecipazioni tramite il pagamento dell’imposta sostitutiva.
Ci si domanda, in questo caso, se i soci “superstiti” abbiano posto in essere un’operazione elusiva, per aver parzialmente ed indirettamente monetizzato, tramite la vendita delle loro quote, gli utili presenti nel patrimonio netto della società operativa scontando il prelievo sostitutivo in luogo della maggiore imposizione ordinaria (25).
Il caso appare un po’ più complesso dei due precedenti e richiede qualche ulteriore distinzione.
Se, ad esempio, immaginassimo per un momento che i soci “superstiti” rinunciassero al credito verso la Newco, sorto per effetto della vendita delle loro partecipazioni (o avessero proceduto direttamente, in luogo della vendita, al conferimento delle partecipazioni da loro detenute nella società operativa a favore della Newco) – ipotesi in realtà “violente” poiché queste differenti azioni modificherebbero le percentuali partecipative nella Newco a discapito del (nuovo) socio di controllo, dato che l’acquisto del 100% è avvenuto non soltanto con equity ma anche con mezzi di terzi – non potrebbe porsi, in radice, alcuna questione di elusività dell’operazione. Infatti, i soci “superstiti” non avrebbero, in questo caso, monetizzato alcun dividendo, avendo di fatto concorso alla costituzione della Newco mediante conferimento, per cui, nel caso ipotizzato, dovrebbe fondatamente escludersi che l’operazione possa essere fiscalmente riqualificata, per la quota parte ad essi riferibile, come una distribuzione di dividendi tassabile in via ordinaria.
Non ci sembra, peraltro, che la conclusione debba mutare nel caso in cui i soci “superstiti” provvedano ad incassare la loro parte di prezzo dalla Newco. Infatti, il trasferimento del controllo della società operativa a favore di soggetti terzi pone questi ultimi in una posizione negoziale privilegiata, che in pratica permette loro di decidere le modalità con cui debba procedersi al passaggio di proprietà. Accade di frequente, nel contesto di tali operazioni, che i terzi acquirenti del controllo vogliano costituire una Newco che acquista il 100% del capitale della target, in modo da semplificare la governance della società operativa (26), garantendosi al contempo che eventuali dissidi con i soci di minoranza non abbiano la possibilità di riflettersi direttamente sulla gestione della società. I soci “superstiti”, dunque, subiscono una scelta fatta da altri, che impone loro sia la vendita delle partecipazioni a favore della Newco sia l’entità del reinvestimento nella predetta società.
Si dovrebbe, quindi, escludere, a nostro avviso, una ricaratterizzazione (parziale) dell’operazione in termini elusivi, sebbene per i soci “superstiti” l’operazione possa sembrare, in parte, a “natura circolare”. Un utile spunto interpretativo, che sembra confermare la conclusione cui si è appena giunti, si rinviene nella recente circolare 30 marzo 2016, n. 6/E (27), avente ad oggetto il trattamento fiscale delle “operazioni di acquisizione con indebitamento”, ove si legge che:
¬ “Le operazioni di MLBO [merger leverage buy out, n.d.r.] vedono nella fusione (anche inversa) il logico epilogo dell’acquisizione mediante indebitamento, necessario anche a garantire il rientro, per i creditori, dell’esposizione debitoria. Di fatto, la struttura scelta, rispondendo a finalità extra-fiscali, riconosciute dal Codice Civile e, spesso, imposte dai finanziatori terzi, difficilmente potrebbe essere considerata finalizzata essenzialmente al conseguimento di indebiti vantaggi fiscali” (28);
¬ “Pertanto, le contestazioni formulate sulla base del principio del divieto di abuso del diritto in relazione al vantaggio fiscale conseguito attraverso la deduzione degli oneri finanziari, per effetto del debt push down, dovranno essere riconsiderate dagli Uffici ed eventualmente abbandonate, salvo che, nei singoli casi, non si riscontrino altri specifici profili di artificiosità dell’operazione, così come posta in essere nel caso concreto, come nel caso in cui all’effettuazione dell’operazione di LBO abbiano concorso i medesimi soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano la società target” (29).
Con i due passaggi sopra riportati l’Agenzia delle entrate ammette esplicitamente che certi schemi acquisitivi sono spesso voluti e imposti da soggetti terzi (i.e. i finanziatori nelle operazioni di leverage buy out, i terzi acquirenti del controllo nelle operazioni descritte nel presente paragrafo) per finalità extra-fiscali (tendenzialmente volte a garantire, con maggior efficacia, il rimborso del debito o a semplificare la gestione della partecipazione) e che, pertanto, difficilmente l’operazione può ritenersi contaminata da essenziali finalità elusive, salvo, naturalmente, il caso che “all’effettuazione dell’operazione di LBO abbiano concorso i medesimi soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano la società target”.
A nostro avviso, con tale ultima avvertenza, l’Agenzia ha voluto riferirsi a quei casi in cui allo schema acquisitivo abbiano concorso con un ruolo preminente (ad esempio in veste di “controllanti”) i medesimi soggetti che, direttamente o indirettamente, controllavano la società target, nel qual caso l’operazione potrebbe essere, in effetti, principalmente finalizzata al conseguimento di indebiti vantaggi fiscali. Diversamente, se qualche “vecchio” socio dovesse partecipare nella SPV o nella Newco con una percentuale minoritaria dovrebbe ragionevolmente escludersi, per i motivi sopra rappresentati, la presenza di uno scopo elusivo nel contesto dell’operazione (30).
2.4 Cessione di partecipazioni in una società con importanti riserve di utili a favore di una Newco partecipata da tutti i cedenti
Supponiamo ora che una famiglia proprietaria di una società operativa abbia l’obiettivo di concentrare le partecipazioni possedute in detta società sotto una holding e che, a tal fine, ponga in essere un’operazione così articolata: (i) costituzione di una Newco partecipata nella stessa misura in cui i componenti della famiglia partecipano nella società operativa, (ii) rivalutazione del costo fiscale delle partecipazioni in quest’ultima società mediante pagamento dell’imposta sostitutiva, (iii) vendita alla Newco delle partecipazioni nella società operativa al valore periziato di affrancamento, (iv) pagamento da parte della Newco (in unica soluzione o per rate) del prezzo di acquisto delle partecipazioni nella società operativa con utilizzo di risorse finanziarie prese a prestito da terzi.
In questo caso sembra difficile poter sostenere che la descritta operazione di leverage cash out non contrasti con la ratio della norma che istituisce l’imposta sostitutiva e che è volta ad attenuare il carico fiscale gravante sulla potenziale plusvalenza (rispetto al costo storico della partecipazione nelle mani del socio) solo in ipotesi di effettiva circolazione delle partecipazioni. Dal punto di vista sostanziale, infatti, nessun componente della famiglia ha realmente disinvestito, trovandosi a partecipare nella società operativa esattamente nella stessa misura con cui vi partecipava prima di porre in atto la descritta architettura, sebbene il possesso sia intermediato da una holding.
Pertanto, sebbene l’obiettivo di concentrare le partecipazioni nella società operativa sotto una holding di famiglia sia astrattamente lecito, la scelta di realizzare questo scopo attraverso un’operazione di leverage cash out, anziché tramite il conferimento delle partecipazioni in regime di sostanziale “neutralità” ex art. 177, secondo comma, del TUIR, sembra tradire la ratio della legge di rivalutazione fiscale delle partecipazioni. Potrebbe dunque sostenersi che, con la cessione “a se stessi” delle partecipazioni, l’effetto conseguito sia stato, in pratica, quello di monetizzare le riserve di utili della società operativa al costo del prelievo sostitutivo, inferiore all’imposizione ordinaria che detti utili avrebbero subito qualora fossero stati oggetto di distribuzione ai soci.
Nello stesso senso si esprime anche Assonime nella circolare 4 agosto 2016, n. 21, in cui osserva che “nell’ipotesi in esame si potrebbe in effetti riscontrare una violazione anche di questa ratio, in quanto in esito alla cessione alla holding intermedia, tutti i soci conservano sostanzialmente – anche se in via indiretta – la medesima cointeressenza nella società originariamente posseduta, sicché non saremmo di fronte ad una monetizzazione dei plusvalori maturati sulle partecipazioni, ma solo ad un incasso dei dividendi. Il requisito del vantaggio indebito così ricostruito potrebbe poi cumularsi con quello del difetto di sostanza economica dell’operazione prospettata (ed integrare l’abuso) in considerazione del fatto che l’effetto giuridico-economico di far affluire ai soci somme corrispondenti ai dividendi della partecipata era senz’altro attuabile attraverso una loro semplice distribuzione anziché mediante una trasformazione dei dividendi in capital gains” (31).
2.5 Acquisto di azioni proprie da tutti i soci in proporzione alle rispettive percentuali di partecipazione
Va ricordato, preliminarmente, che l’acquisto di azioni proprie, seguito o meno dal loro annullamento, non è una fattispecie espressamente regolata dal legislatore fiscale. Salvo quanto si dirà in seguito in tema di riduzione del capitale, le norme che disciplinano il regime fiscale dei dividendi – sostanzialmente gli artt. da 44 a 47 del TUIR – non contengono nulla che possa far pensare che l’acquisto di azioni proprie sia assimilato alla distribuzione di utili. D’altro canto, le norme fiscali che disciplinano le plusvalenze si riferiscono genericamente alla “cessione a titolo oneroso” di titoli e partecipazioni, senza distinguere quanto all’identità del compratore e dunque tra il caso in cui l’azione sia acquistata dalla società che l’ha emessa o da un terzo.
Ciò detto, sussistono alcune ipotesi, specificamente disciplinate ai fini fiscali, di operazioni tra socio e società che comportano la cessione della partecipazione (o comunque la perdita della qualità di socio) e che sono assimilate alla distribuzione di utili, comportando, pertanto, l’imposizione a tale titolo. Si tratta, in particolare, dei seguenti casi, già menzionati nelle pagine iniziali del presente scritto, tutti disciplinati dall’art. 47, settimo comma, del TUIR:
¬ recesso del socio;
¬ esclusione del socio;
¬ riscatto delle partecipazioni;
¬ riduzione di capitale (esuberante) della società;
¬ liquidazione, anche concorsuale della società.
L’acquisto di azioni proprie può dar origine a “reddito di capitale” solo se si inserisce in una delle sopra elencate ipotesi; in caso contrario, dalla vendita delle sue azioni il socio ritrae sempre un capital gain.
Ciò premesso, con specifico riferimento all’operazione di “riduzione di capitale” va ricordato che esiste una consolidata posizione dell’Amministrazione finanziaria secondo la quale l’acquisto di azioni proprie “finalizzato all’annullamento delle stesse nell’ambito di una programmata operazione di riduzione del capitale” è da qualificarsi, ai fini fiscali, come una distribuzione di utili (32). Va da sé, dunque, che qualora gli acquisti di azioni proprie non siano finalizzati all’annullamento delle azioni nell’ambito di una programmata operazione di riduzione del capitale non possono dare luogo ad una tassazione a titolo di dividendo in capo al socio cedente. È quindi sufficiente, in linea di principio, che la società deliberi l’acquisto di azioni proprie senza deliberarne contestualmente l’annullamento, per escludere di trovarsi in presenza di una fattispecie equiparata, a fini fiscali, alla distribuzione di utili.
Ci si chiede, a questo punto, se può considerarsi elusiva del regime fiscale dei dividendi un’operazione che prevede l’acquisto di azioni proprie da tutti i soci in misura proporzionale alle quote di partecipazione da ognuno di essi possedute, deliberato dalla società con lo scopo di mantenerle in portafoglio (ad esempio, con la finalità di concambiarle con altre partecipazioni o a mero scopo di investimento) e, dunque, senza prevedere il loro annullamento con riduzione del capitale sociale.
Al riguardo, riteniamo che la suddetta operazione presenti, in effetti, un forte profilo di criticità fiscale. Tale operazione permette, infatti, di mantenere invariata la quota di capitale riferibile ad ogni socio e dunque, in buona sostanza, i rapporti partecipativi all’interno della compagine sociale. Non è improbabile che il vero scopo che i soci intendono perseguire sia proprio quello della distribuzione di utili in elusione fiscale, ricevendo in pratica, ogni socio, una quota di patrimonio netto proporzionale alla sua partecipazione azionaria, senza che il rapporto di tale partecipazione con quella degli altri soci subisca alcuna variazione (33).
Ci pare, quindi, si debba concludere osservando che qualora tutti i soci vendano azioni in proporzione identica alla quantità globale di esse da ognuno posseduta ci si trova in presenza di un’operazione con una forte connotazione elusiva, essendosi di fatto trasformato un utile da partecipazione in una plusvalenza azionaria (che può essere stata anche annullata o ridotta dalla preventiva rivalutazione a pagamento delle partecipazioni sociali), con la conseguenza che i soci avranno l’onere di dimostrare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustificano la suddetta operazione.
3. CALCOLO DEL VANTAGGIO FISCALE INDEBITO E RISCHIO DI DOPPIA TASSAZIONE DEGLI UTILI SOCIETARI
Ai sensi dell’art. 10-bis, primo comma, della legge n. 212/2000, nel caso in cui venga riscontrata la presunta natura elusiva di un’operazione, l’Ufficio dovrà procedere all’accertamento “determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.
Nel caso di specie, l’Ufficio dovrà, pertanto, calcolare, per ciascun socio, il carico fiscale che sarebbe derivato dalla distribuzione degli utili societari – computo che dovrà tener conto del reddito complessivo del contribuente ove riferito a soci qualificati (dipendendo, l’entità del prelievo, dalla loro situazione reddituale complessiva) (34) – e sottrarre da tale risultato (una parte di) quanto versato da ciascun socio a titolo di imposta sostitutiva sulla rivalutazione.
Una possibile complicazione può derivare dal fatto che il prezzo della partecipazione potrebbe essere pagato in più rate il cui termine di pagamento scade in anni differenti. In tal caso, l’Ufficio dovrebbe accertare solo la parte di utili che risulta ricompresa nella rata di prezzo percepita dal socio in un determinato periodo d’imposta, non essendo, infatti, ancora avvenuta l’intera monetizzazione degli utili e delle riserve di utili presenti nel bilancio della società all’atto della vendita della partecipazione (35). In altre parole, l’Ufficio nel quantificare il vantaggio fiscale indebito non può prescindere dal fatto che i dividendi sono redditi tassabili “per cassa” e, dunque, non vi può essere monetizzazione degli utili societari se non è avvenuto l’incasso del prezzo di vendita della partecipazione.
Si consideri, al riguardo, il seguente esempio.
Tizio e Caio sono proprietari, rispettivamente, di una quota pari al 20% e all’80% di una società operativa Alfa, il cui stato patrimoniale può essere così schematizzato:
Stato patrimoniale Alfa
Depositi Bancari
€ 6 mil.
Debiti
€ 1 mil.
Cespiti Aziendali
€ 6 mil.
Capitale sociale
€ 1 mil.
Riserve di utili
(post 2007) € 10 mil.
I due soci pongono in essere un’operazione come quella descritta al precedente paragrafo 2.4, previa rivalutazione del costo fiscale delle loro partecipazioni in Alfa fino al valore di mercato risultante dall’apposita perizia, che supponiamo pari a € 25 milioni, con versamento dell’imposta sostitutiva dell’8% per complessivi € 2 milioni. Le partecipazioni vengono vendute alla Newco al valore di affrancamento (€ 5 milioni per Tizio e € 20 milioni per Caio), con la pattuizione che il prezzo di acquisto sia pagato ai due soci in cinque rate annuali di pari importo.
In seguito all’acquisto della partecipazione in Alfa, lo stato patrimoniale della Newco è il seguente (si assume che l’acquisto sia finanziato quasi totalmente con risorse prestate da terzi):
Stato patrimoniale Newco
Partecipazione in Alfa
€ 25 mil.
Debiti
€ 24 mil.
Capitale sociale
€ 1 mil.
Decorsi tre anni dall’operazione (36), l’Ufficio periferico competente procede ad accertare in capo ai due soci, Tizio e Caio, maggiori imposte sul reddito per presunta “monetizzazione” delle riserve di utili della società Alfa, come segue:
Tizio
Caio
Importo delle riserve “monetizzate” (3/5)
€ 1,2 mil.
€ 4,8 mil.
Maggior imposta “lorda” accertata
(rispettivamente pari al 26% e al 21,38%*) € 312.000
€ 1.026.240
Imposta sostitutiva sulla rivalutazione
€ 96.000**
€ 384.000**
Maggior imposta “netta” accertata
€ 216.000
€ 642.240
* La percentuale del 21,38% è stata determinata prendendo in considerazione l’aliquota marginale IRPEF del 43% e assumendo che non vi siano addizionali regionali e comunali (49,72% x 43%).
** Così determinata: per Tizio, € 1,2 milioni x 8% = € 96.000; per Caio, € 4,8 milioni x 8% = € 384.000.
Nell’esempio si è assunto che l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate abbia:
(i) considerato “monetizzate” le riserve di utili di Alfa in misura proporzionale alla parte di esse ricompresa nelle rate di prezzo pagate dalla Newco ai due soci nel corso dei tre anni (€ 6 milioni rispetto al totale delle riserve di utili di € 10 milioni), in ottemperanza al principio di tassazione “per cassa” degli utili distribuiti da società soggette all’IRES (37).
Un possibile comportamento alternativo dell’Ufficio potrebbe essere quello di considerare interamente “monetizzate” le riserve di utili (€ 10 milioni), in quanto già ricomprese, in valore assoluto, nella parte di prezzo pagata dalla Newco a Tizio e Caio nel corso del triennio (€ 15 milioni). Questa alternativa non ci pare, tuttavia, condivisibile, in quanto postula arbitrariamente che il pagamento del prezzo della partecipazione sia prioritariamente imputabile alle riserve di utili di Alfa;
(ii) sottratto, dalla maggior imposta “lorda” accertata, la sola imposta sostitutiva sulla rivalutazione attribuibile alle riserve di utili di Alfa, calcolata anch’essa in misura proporzionale alla parte delle predette riserve presuntivamente già monetizzata dai due soci Tizio e Caio (cfr. nota 32).
A questo punto, in relazione ai due periodi d’imposta successivi (all’ultimo oggetto di accertamento), in cui la Newco dovrebbe corrispondere a Tizio e Caio la restante parte di prezzo, si prospetteranno, ai due soci, le seguenti alternative:
¬ incassare le ultime due rate di prezzo dalla Newco ed attendere i due ulteriori avvisi di accertamento con riferimento a tali annualità, difendendosi poi in sede contenziosa (tale alternativa presuppone, ovviamente, che i due soci non abbiano aderito agli accertamenti precedenti);
¬ concordare con l’Ufficio la rinuncia al credito nei confronti della Newco, senza che sorga il presupposto impositivo per i due anni rimanenti (tale alternativa presuppone, al contrario di quella precedente, che i due soci abbiano deciso di aderire agli accertamenti precedenti).
Occorre, infine, formulare un’ultima osservazione, concernente il tema del possibile verificarsi di una doppia imposizione degli utili societari come conseguenza dell’accertamento “antielusivo” dell’Ufficio, nell’ipotesi in cui il contribuente vi abbia aderito o l’accertamento sia comunque divenuto definitivo.
Va rilevato, al riguardo, che le riserve di utili, già tassate in capo ai soci come “dividendi presuntivamente distribuiti”, non dovrebbero più essere tassate, né quando distribuite dalla società operativa alla Newco né quando da quest’ultima defluiscono ai soci persone fisiche (è peraltro probabile che una parte consistente di esse sia assorbita, al livello della Newco, dagli interessi passivi pagati ai finanziatori, per cui il deflusso a favore dei soci persone fisiche potrebbe anche non verificarsi o verificarsi solo in parte; questo dipenderà da vari fattori, quali il mix fra capitale proprio e di terzi, il tasso degli interessi passivi, l’eventuale distribuzione in unica soluzione delle riserve a favore della Newco, ecc.).
Tuttavia, manca una norma specifica che consenta di rendere intassabili, in sede di distribuzione, le riserve di utili che per effetto di un accertamento fiscale (divenuto definitivo) sono già state tassate in capo ai soci sul presupposto che siano state ad essi presuntivamente già distribuite, salvo ammettere – con una buona dose di temerarietà – che si possa procedere con delle variazioni in diminuzione nella dichiarazione dei redditi della Newco, corrispondenti ai dividendi erogati dalla società operativa e che, successivamente, si possano considerare non tassabili le distribuzioni di utili fatte dalla Newco a favore dei soci persone fisiche. Più concretamente, si potrebbe pensare, in sede di adesione all’accertamento, di concordare con l’Ufficio l’intassabilità delle riserve di utili già tassate in capo ai soci in virtù del principio del divieto della doppia imposizione sancito dall’art. 163 del TUIR, ai sensi del quale “La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi”.
Resta il fatto che la società operativa potrebbe aver già distribuito parte o tutte le riserve di utili in epoca antecedente alla notifica degli accertamenti, con conseguente tassazione delle stesse in capo alla Newco. Pertanto, la tassazione delle riserve di utili della società operativa per effetto dell’accertamento “antielusivo” in capo ai soci porta con sé, immancabilmente, un problema di doppia (o tripla) imposizione dello stesso reddito. L’unica possibilità effettiva di evitare questa situazione penalizzante è che la Newco proceda, prima di qualunque distribuzione di utili da parte della società operativa, alla fusione per incorporazione di quest’ultima società, la qual cosa determinerebbe l’emersione di un disavanzo e quindi la scomparsa delle riserve di utili (e delle altre poste ideali del patrimonio netto) della società operativa incorporata.
Dott. Paolo Scarioni – Dott. Pierpaolo Angelucci
(1) Nel presente scritto l’analisi viene estesa a casi e ad aspetti attinenti le imposte indirette che non erano stati affrontati, per economia di tempo, in P. SCARIONI – P. ANGELUCCI, La gestione straordinaria delle imprese, in Eutekne, 2016, 25.
(2) Per la tassazione dei dividendi e delle plusvalenze da partecipazioni non qualificate (diverse dalle black list) si vedano, rispettivamente, l’art. 27, primo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e l’art. 5 del D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, così come da ultimo modificati dall’art. 3, primo comma, del D.L. 24 aprile 2014, n. 66 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89).
(3) Per la tassazione dei dividendi e dei capital gains da partecipazioni qualificate (diverse dalle black list) si vedano, rispettivamente, l’art. 47, primo comma, del TUIR, e l’art. 68, terzo comma, del TUIR.
(4) Si segnala che, come previsto dall’art. 1, comma 64, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, con apposito D.M. sarà rideterminata la quota imponibile dei dividendi e dei capital gains, la quale dovrebbe aumentare al 58,14%, con un prelievo effettivo sul socio pari al 25% senza calcolare eventuali addizionali regionali e comunali, per effetto della riduzione, a partire dal 1° gennaio 2017, dell’aliquota IRES al 24% (come accaduto in passato, l’incremento della quota imponibile delle plusvalenze potrebbe essere differito di un anno: cfr. D.M. 2 aprile 2008).
(5) Modificato e integrato dall’art. 2 del D.L. 24 dicembre 2002, n. 282 (convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27), e dall’art. 1, commi 887 e 888, della legge n. 208/2015. Quest’ultima legge, come si ricorderà, ha stabilito un’unica aliquota sia per le partecipazioni qualificate sia per quelle non qualificate, nella misura dell’8% da applicare al valore di perizia.
(6) Cfr. il combinato disposto dei primo e sesto comma dell’art. 5 della legge 28 dicembre 2001, n. 448.
(7) Più precisamente, come differenza tra l’ammontare di denaro ricevuto dal socio (o il valore normale dei beni a questo attribuiti) in dipendenza della riduzione di capitale della società, del recesso o esclusione dalla società, del riscatto delle sue azioni o quote oppure della liquidazione della società e il costo sostenuto dal socio per l’acquisto o sottoscrizione delle azioni o quote annullate per effetto delle suddette operazioni.
(8) Cfr. R. RIZZARDI, Rivalutazione delle partecipazioni: quando l’imposta sostitutiva non raggiunge lo scopo, in Corr. trib., 2011, 3716.
(9) Cfr., tra gli altri, S. MARCHESE, Rivalutazione del costo fiscale delle partecipazioni detenute da persone fisiche e abuso del diritto, in L. MIELE (a cura di), Il nuovo abuso del diritto, in Eutekne, 2016, 254 ss.; e A. MALGUZZI, Sull’ingiustificata (e incomprensibile) irrilevanza del valore affrancato in caso di recesso e la correttezza sistematica delle costruzioni per evitare penalizzazioni, in Dial. trib., 2009, 170 ss.
(10) Cfr., al riguardo, anche circ. 22 aprile 2005, n. 16/E (in Boll. Trib., 2005, 705), che giunge a escludere la possibilità di far valere i maggiori valori risultanti dalla rivalutazione in caso di recesso tipico: «Con specifico riferimento alle partecipazioni, si ricorda che tale valore è altresì utilizzabile in occasione del recesso atipico del socio dalla società, realizzato mediante acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro partecipazioni oppure da parte di un terzo concordemente individuato dai soci medesimi. Nell’ipotesi invece di recesso tipico, il valore rideterminato non può essere utilizzato in quanto le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci costituiscono “utile” per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate e ciò vale anche per la parte di tali eccedenze che derivano da riserve di capitale (cfr. circolare n. 26/E del 16 giugno 2004)».
(11) Differenza tra il prelievo ordinario che grava sui dividendi di formazione “storica” (17,2%) e il prelievo sostitutivo per l’affrancamento (8%).
(12) Differenza tra l’imposta sostitutiva del 26% e l’onere da affrancamento (8%).
(13) Cfr. S. MARCHESE, op. cit., 263.
(14) Cfr. primo e secondo comma dell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente).
(15) La richiamata norma statuisce che “Non rileva ai fini dell’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, il conferimento dell’azienda secondo i regimi di continuità dei valori fiscali riconosciuti o di imposizione sostitutiva di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell’esenzione di cui all’articolo 87, o di quella di cui agli articoli 58 e 68, comma 3”.
(16) Com’è noto, il vantaggio fiscale derivante dallo schema operativo sopra descritto deriva dal fatto che il conferimento d’azienda, come pure la cessione delle partecipazioni, sono atti soggetti all’imposta di registro in misura fissa (€ 200), mentre le cessioni d’azienda sono soggette all’imposta di registro in misura proporzionale (con applicazione di aliquote differenti che variano in funzione della tipologia dei cespiti aziendali traferiti).
(17) Così Cass., sez. trib., 29 aprile 2015, n. 8655, in Boll. Trib. On-line.
(18) Così Cass., sez. trib., 11 dicembre 2015, n. 25001, in Boll. Trib. On-line.
(19) Così Cass., sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25484, in Boll. Trib. On-line.
(20) Così Cass., sez. trib., 29 aprile 2016, n. 8542, in Boll. Trib. On-line.
(21) Cfr. circ. Assonime 4 agosto 2016, n. 21.
(22) Cfr., tra gli altri, G. ZIZZO, Imposta di registro e atti collegati, in Rass. trib., 2013, 874. L’autore osserva che «Non potendo questa cessione di partecipazioni [ossia quella preceduta, a breve distanza di tempo, dal conferimento dell’azienda, n.d.r.] essere distinta dalle altre, per imputare alla stessa il medesimo regime della cessione di azienda occorrerebbe concludere nel senso che tutte le cessioni che interessano partecipazioni di controllo (non necessariamente totalitarie), in quanto parimenti classificabili come cessioni indirette di azienda, debbano scontare l’imposta di registro come cessione di azienda. Si tratta però di una conclusione da respingere, in quanto palesemente contrastante con una scelta univoca e consapevole del legislatore (di differenziare il regime delle due operazioni) che non può certo essere sovvertita in sede interpretativa. Come palesemente contrastante con una scelta univoca e consapevole del legislatore sarebbe pretendere di ricavare dall’art. 20 l’investitura a mettere da parte le forme e gli effetti giuridici degli atti portati alla registrazione per applicare l’imposta in ragione del “fine pratico”, della “sostanza economica”»; in altre parole, a sostituire gli atti portati alla registrazione con altri atti, che implicano effetti giuridici che non si sono mai realizzati (né a livello di singolo atto, né a livello di aggregato di atti). Vedasi anche D. BUONO, Conferimenti di immobili e d’aziende e art. 20 del TUR, in L. MIELE (a cura di), Il nuovo abuso del diritto, cit., 139; D. CANÉ, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. registro, in Rass. trib., 2016, 649; e G. TABET, L’applicazione dell’art. 20 T.U. registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, ibidem, 913.
(23) In Boll. Trib. On-line.
(24) In ogni caso, il contribuente (ossia il soggetto cedente le partecipazioni nella conferitaria) che voglia beneficiare dell’art. 176, terzo comma, del TUIR, dovrà tener conto del rischio che l’operazione possa essere riqualificata come vendita d’azienda. In tale ottica, un comportamento prudente potrebbe essere quello di “giocare a carte scoperte”, ossia: (i) portare alla registrazione l’atto di vendita delle quote di partecipazione nella società conferitaria, magari evidenziando all’Ufficio che il prezzo di cessione delle partecipazioni rispecchia la valutazione dei diversi cespiti aziendali che è stata fatta dal perito in sede di conferimento dell’azienda, in modo da ridurre il rischio che, in presenza di immobili, nell’avviso di liquidazione sia applicata sull’intero prezzo di cessione delle partecipazioni l’aliquota prevista per i beni immobiliari (9%) e (ii) successivamente chiedere a rimborso l’imposta pagata instaurando il relativo contenzioso con l’Amministrazione finanziaria. Così facendo, il contribuente può evitare l’applicazione di sanzioni, che sono state talvolta comminate dall’Ufficio, e dedurre in unica soluzione dal reddito d’impresa tassabile ai fini IRES l’ammontare dell’imposta di registro pagata (cfr. art. 99 del TUIR), nonché l’ammontare degli interessi passivi liquidati nell’avviso (che, non riguardando un rapporto di natura finanziaria, sono esclusi dalle limitazioni di cui all’art. 96 del TUIR).
(25) Si noti che il tema non si pone per i soci che escono definitivamente dalla compagine sociale, trattandosi, per essi, della stessa situazione già analizzata al punto 1 del presente lavoro.
(26) Ad esempio, può essere evitata, in tal modo, la stesura di complesse clausole di drag along e di tag along che invece sarebbero necessarie ove la società operativa fosse partecipata da soci di minoranza.
(27) In Boll. Trib., 2016, 616.
(28) I leverage buy out sono nella sostanza molto simili all’operazione ipotizzata nel presente paragrafo, trattandosi dell’acquisizione, da parte di soggetti estranei all’attuale compagine sociale, di una partecipazione, di controllo o totalitaria, in una determinata società (società target), posta in essere mediante la creazione di un’apposita società veicolo (Special Purpose Vehicle o Newco) che viene finanziata in parte con capitale proprio (equity) e in parte mediante prestiti onerosi (debt).
(29) Cfr. circ. n. 6/E/2016, cit.
(30) Nello stesso senso vedasi, in dottrina, M. AMPOLILLA – L. ROSSI, Elusione e abuso del diritto nelle operazioni di leveraged buy out, in L. MIELE (a cura di), Il nuovo abuso del diritto, cit., 215. I due autori osservano, in particolare, che: “Ugualmente, non ci pare possano essere sindacate – adducendo l’assenza di valide ragioni economiche – quelle operazioni in cui il socio di controllo (per ipotesi totalitario) ceda la sua partecipazione ad un terzo, rientrando con una quota di minoranza (pari, ad esempio, al 20%) nel veicolo utilizzato per l’acquisizione. Stando a quanto ci risulta, in ipotesi simili l’Amministrazione finanziaria avrebbe contestato la deducibilità degli interessi, sostenendo che l’accensione del finanziamento, per la quota proporzionalmente riferibile al socio che già deteneva il controllo della Target (nell’esempio, il 20%), non sarebbe giustificata da valide ragioni economiche e che l’alternativa più lineare, in questo caso, sarebbe stata quella di cedere al veicolo (indebitato) solo la quota che l’originario socio di controllo intendeva effettivamente alienare (pari all’80%), mantenendo la quota residua (il restante 20%) ed evitando così di gravare di ulteriori debiti il veicolo utilizzato per l’acquisizione. Le considerazioni svolte dall’Amministrazione finanziaria non possono essere condivise per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, l’alternativa ipotizzata non è in realtà praticabile, o meglio non conduce agli stessi risultati. Infatti, per effetto della successiva fusione, per incorporazione della Target da parte del veicolo (indebitato), il nuovo socio verrebbe immediatamente a diluirsi, pregiudicando così il conseguimento dell’obiettivo dell’intera operazione (ossia la cessione dell’80% da parte dell’originario socio di controllo). Inoltre, anche ammettendo di non procedere alla fusione, non si può escludere che – laddove sussistano le condizioni per garantire la sostenibilità del debito – le banche siano comunque disposte ad erogare al veicolo un finanziamento pari a quello che avrebbero messo a disposizione nell’ipotesi in cui il veicolo avesse acquistato l’intero capitale della Target, con la possibilità quindi di conseguire – mediante il regime del consolidato – i medesimi risultati fiscali”. Vedasi, altresì, sempre in senso conforme all’interpretazione da noi prospettata nel testo, G. FORMICA – M. DE NICOLA, Change of control ed elusività delle operazioni di LBO/MLBO, in il fisco, 2016, 3922 e 3923, ove è scritto che: “Quando, invece, i soggetti preesistenti partono da una posizione di controllo (congiunto o individuale, diretto o indiretto), la questione si presenta più complessa. In tal caso, si ritiene che le conclusioni della circolare debbano interpretarsi nel senso di valutare non rispondente a finalità economiche rilevanti, ma diretta al conseguimento di un mero vantaggio fiscale indebito …, l’operazione di LBO/MLBO che non si risolva in un mutamento significativo del profilo partecipativo di riferimento degli asset oggetto dell’operazione, nel senso che non si realizzi, all’esito della stessa, una variazione del controllo della società bersaglio rispetto alla situazione preesistente (change of control)”.
(31) Cfr. circ. Assonime n. 21/2016, cit.; alla medesima conclusione giunge anche S. MARCHESE, op. cit., 267 ss. Contra ved. Comm. trib. prov. di Vicenza, sez. II, 6 luglio 2016, n. 735, in Boll. Trib. On-line, con la quale i giudici accolgono il ricorso dei contribuenti sulla base di non ben specificate motivazioni di “riassetto societario”.
(32) Cfr. circ. 3 settembre 1992, n. 24/9/035, in Boll. Trib., 1992, 1526.
(33) Cfr., in questo senso, Trib. di Torino, decreto 27 aprile 1989, n. 952/99, in Boll. Trib., 1989, 1508, con nota di R. LIZZUL, Elusione fiscale e acquisto di azioni proprie, in relazione a una delle prime vicende attinenti l’acquisto di azioni proprie che il Secit, all’epoca, aveva cercato di riqualificare in distribuzione di utili.
(34) Si osservi che potrà esserci più di un Ufficio territoriale competente all’emissione dell’accertamento qualora i soci abbiano, tra loro, residenze fiscali diverse.
(35) Circa la questione di quali siano i dividendi “trasformati” in capital gains, condividiamo l’opinione di Assonime, espressa nella nota n. 177 della circ. n. 21/2016, cit., che riportiamo, per intero, qui di seguito: “L’operazione di c.d. leverage cash out può presentare una serie di varianti rispetto allo schema tipo da noi ipotizzato. Ad esempio, in luogo del pagamento rateale del corrispettivo in concomitanza dell’incasso dei dividendi, la holding intermedia potrebbe saldare il corrispettivo in un’unica soluzione ricorrendo all’indebitamento verso terzi e poi pagare gli interessi passivi sul debito con i dividendi incassati dalla società target. Come ulteriore alternativa si potrebbe pensare ad una fusione della holding intermedia nella società target con l’effetto di riportare il debito contratto per il cash out in favore dei soci nella stessa società target. Nell’ambito di queste varianti dell’operazione, taluno ritiene che possa qualificarsi come abusivo qualsiasi impiego degli utili della società target a fronte della restituzione del finanziamento, e che si debba perciò tener conto sia degli utili già presenti al momento dell’accensione del debito, sia di quelli eventualmente conseguiti dopo. Altri ritengono, forse più correttamente, che la trasformazione dei dividendi in capital gain possa ipotizzarsi solo per gli utili già conseguiti dalla società target e non per quelli da conseguire eventualmente in futuro, tenuto conto che le aspettative di utili futuri costituiscono tipicamente una componente dei capital gains per la quale non vi sarebbe alcun contrasto con la ratio della disciplina della rivalutazione”.
(36) Essendo trascorso un triennio dalla rivalutazione, può assumersi che l’imposta sostitutiva dell’8% sia già stata interamente versata da Tizio e Caio (ai sensi dell’art. 2, secondo comma, secondo periodo, del D.L. n. 282/2002, “Le imposte sostitutive possono essere rateizzate fino ad un massimo di tre rate annuali di pari importo”).
(37) Si ricorda che la tassazione dei dividendi secondo il principio di cassa è stabilita dall’art. 45, primo comma, del TUIR. Si precisa, inoltre, che, sotto il profilo procedurale, l’Ufficio dovrà emettere un distinto atto di accertamento per ciascun periodo d’imposta di incasso delle rate di prezzo.