4 Maggio, 2018

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. I criteri per la qualifica di “amministratore di fatto” – 3. La responsabilità dell’amministratore di fatto per i reati tributari – 4. La riferibilità delle sanzioni amministrativo-tributarie all’amministratore di fatto – 5. Conclusioni.

1. Premessa

Negli ultimi decenni si è andata affermando la tendenza, da parte dell’Amministrazione finanziaria, ad utilizzare in modo disinvolto il concetto di “amministrazione di fatto”, al fine di soddisfare le pretese impositive e sanzionatorie originariamente dirette nei confronti di una persona giuridica, a scapito di soggetti estranei alla gestione sociale, o coinvolti nella stessa solo marginalmente.
Trattasi di un fenomeno in continua espansione, che interessa non solo il campo delle violazioni amministrative, ma anche quello dei reati tributari.
Sovente, infatti, accade che l’avviso di accertamento o l’atto di contestazione o irrogazione di sanzioni sia notificato ad un soggetto diverso dal rappresentante legale della società, che viene espressamente qualificato quale reale gestore della stessa e, per l’effetto, ritenuto solidalmente responsabile per la violazione contestata.
E ciò accade, incomprensibilmente, sia nel caso in cui il rappresentante legale “formale” sia considerato mera “testa di legno”, privo di reali poteri gestori e di fatto escluso dall’amministrazione della società, che nel caso in cui questi eserciti effettivamente le funzioni da lui assunte. Con la conseguenza, in quest’ultimo caso, di un trattamento deteriore dell’amministratore “di fatto”, rispetto a quello “di diritto”: in presenza di una pluralità di amministratori o di un consiglio di amministrazione, in effetti, risponde normalmente della violazione soltanto il soggetto che ha firmato la dichiarazione avendone i poteri (rappresentante legale), e non anche gli altri amministratori privi della rappresentanza legale della società. Quando invece viene contestata a taluno la qualifica di “amministratore di fatto”, la situazione si ribalta, e la responsabilità sanzionatoria viene ad essere addossata anche a quest’ultimo.

2. I criteri per la qualifica di “amministratore di fatto”

Il concetto di amministrazione di fatto ha trovato ingresso nel nostro ordinamento per il tramite dell’art. 1 del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, che, novellando l’art. 2639 c.c. relativo ai reati societari, ha disposto l’equiparazione, a chiunque sia formalmente investito di una qualifica prevista dalla legge civile, di chi «esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici interenti alla qualifica o alla funzione».
Con tale norma si è quindi codificato il cd. “principio funzionalistico”, a mente del quale, ai fini dell’individuazione del reale detentore del potere amministrativo di una società, non rileva soltanto l’investitura formale, ma altresì l’effettiva assunzione ed esercizio delle funzioni gestorie.
Il fine della riforma risponde – nell’intenzione del legislatore – ad una logica di concretezza nell’applicazione della sanzione, che deve essere comminata nei confronti del reale responsabile delle violazioni contestate e non, invece, del mero “prestanome”, il quale in alcuni casi risulta del tutto estromesso dalla gestione della società (pur continuando a rispondere del reato, in aggiunta a colui che ha realmente amministrato la società, proprio per aver accettato tale investitura ed essersi così consapevolmente assunto il rischio della commissione di violazioni).
Nonostante tale norma sia inserita nel titolo relativo ai reati societari – a cui, infatti, fa espresso riferimento – la giurisprudenza civile e penale ne hanno fin da subito sancito l’applicabilità anche ai reati e alle violazioni amministrative tributarie. Anche per le violazioni tributarie, quindi, la qualificazione di un soggetto alla stregua di “amministratore di fatto” va operata sulla base dei criteri enunciati dall’art. 2639 c.c., verificando se l’esercizio dell’attività gestoria avvenga «in modo continuativo e significativo».
Peraltro, la continuità e la significatività sono concetti alquanto astratti e connotati da vaghezza, che risulta necessario adattare alle singole fattispecie concrete e che pertanto non consentono di delineare un elenco tassativo di situazioni in cui la qualifica di amministratore di fatto è certa e indiscutibile.
In particolare, il criterio della “continuità” attiene al profilo quantitativo-temporale della gestione societaria, che deve concretarsi in attività sistematiche e ripetute nel tempo (1); il requisito della significatività, invece, riguarda l’aspetto qualitativo dell’ingerenza, che deve essere riconducibile all’attività tipica svolta dagli amministratori o dai direttori generali e che deve essere altresì connotata dai caratteri dell’autonomia decisionale, ovverosia dalla concreta assunzione delle decisioni strategiche, organizzative e commerciali (2). Ne dovrebbe derivare l’impossibilità di attribuire la qualifica di “amministratore di fatto” a chi si limiti a svolgere mansioni (ancorché di livello “direttivo”) che potrebbero essere attribuite a un lavoratore dipendente, come il coordinamento della produzione, le funzioni commerciali connesse ai rapporti con la clientela, il disbrigo delle pratiche amministrative inerenti la società, e così via. Per la qualifica in termini di “amministratore di fatto” dovrebbe dunque essere richiesto un quid pluris rispetto al mero svolgimento di mansioni aziendali, da individuare appunto nella reale titolarità degli indirizzi della gestione e delle scelte strategiche dell’impresa.
La giurisprudenza di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha comunque escluso la necessità di un esercizio di tutti i poteri attribuiti dalla legge agli amministratori, ritenendo sufficiente il compimento di quelle attività rientranti nel nucleo essenziale di questi ultimi (3).
Vale poi la pena di rammentare che l’ingerenza nella gestione della società può avvenire sia in via diretta – attraverso lo svolgimento in prima persona delle attività di amministrazione – sia in via indiretta – cioè impartendo direttive a coloro che sono investiti delle qualifiche formali, i quali poi compiranno le attività predette. In quest’ultimo caso gli amministratori di diritto, investiti formalmente della carica, si tramutano in “strumenti” dei voleri dell’amministratore di fatto, e vengono da lui eterodiretti. Situazione, questa, che connota talvolta le società estere c.d. “esterovestite”, in cui gli amministratori formali – residenti nel Paese in cui ha sede la società – sono dei professionisti che assumono la carica con la consapevolezza e l’intesa di esercitare poteri in via soltanto “mediata”, attraverso le stringenti direttive dei “veri” amministratori, che restano nell’ombra.
Spetta comunque ovviamente al giudice di merito accertare se, nel caso sottoposto al suo sindacato, siano state integrate le condizioni per poter ravvisare la responsabilità di soggetto formalmente “estraneo” all’amministrazione della società, per essersi lo stesso concretamente ingerito nell’attività gestoria.
Così, ad esempio, è stato qualificato alla stregua di amministratore di fatto un soggetto che aveva provveduto in prima persona a sottoscrivere contratti in nome e per conto della società (4) o che deteneva documentazione direttamente riferibile alla società o ad altre società strettamente collegate (5) o, ancora, che si presentava quale amministratore e legale rappresentate della società nei confronti dei terzi (6); parimenti, è risultato dirimente il fatto che un soggetto curasse i rapporti con clienti e fornitori (7), che desse disposizioni ai dipendenti, delegasse terzi al prelievo in banca e utilizzasse risorse finanziarie della società per fini personali (8) e che, infine, fosse stato presente alla verifica fiscale, sottoscrivendo i relativi verbali di constatazione (9).
Particolarmente chiara in merito risulta la posizione assunta dalla Cassazione penale in una recente sentenza, nella quale si legge: «Avuto riguardo all’oggetto dell’attività degli amministratori di una società di capitali, tra dette funzioni deve considerarsi in primo luogo il controllo della gestione della società sotto il profilo contabile ed amministrativo; a questa va poi aggiunta la stessa gestione della società con riferimento sia all’organizzazione interna che all’attività esterna costituente l’oggetto della società; e in particolare, con riferimento ad entrambe, la formulazione di programmi, la selezione delle scelte e la emanazione delle necessarie direttive; con riguardo all’organizzazione interna non deve poi prescindersi dai necessari poteri deliberativi i cui effetti si riflettono sull’attività esterna, mentre nell’ambito di quest’ultima deve tenersi conto della funzione di rappresentanza» (10).
Ci si potrebbe anche chiedere se possa essere data rilevanza, ai fini dell’attribuzione della qualifica di “amministratore di fatto”, alla destinazione dei risultati dell’attività economica: se cioè risultasse – da indagini bancarie o altri elementi e fonti probatorie – che la persona accusata di essersi “ingerita” si è appropriata dei frutti dell’evasione, cioè degli utili occultati al fisco, si potrebbe da ciò inferire che, appunto, il soggetto amministrava nei fatti la società.
Vero è che l’apprensione degli utili occultati farebbe a rigore assumere al soggetto in questione la qualifica di socio occulto, più che di amministratore occulto; tuttavia, proprio la “vicinanza” del soggetto rispetto a tali utili, e la stessa possibilità di apprenderli materialmente, rende plausibile l’attribuzione della qualifica di amministratore occulto, oltre che di socio occulto.
Sempreché, naturalmente, non si verta nella diversa ipotesi, ad esempio, di un dipendente infedele che approfitti ad esempio dei suoi contatti diretti con la clientela per trarne illecitamente delle utilità all’insaputa della compagine sociale e degli amministratori. È in effetti tendenzialmente da escludere che possa sussistere un soggetto che agisce da “amministratore di fatto” senza un previo accordo od intesa con gli amministratori legalmente nominati dall’assemblea, che accettano di svolgere un ruolo solo “formale” coprendo l’attività dei “veri” amministratori. In caso contrario si assisterebbe ad un contrasto di strategie e a incongruenze gestorie destinate fatalmente ad emergere; se un soggetto “spende” il nome della società, ingenerando nei terzi la convinzione di trattare con l’amministratore della medesima, è poi difficile che questa situazione non venga prima o poi conosciuta dai veri amministratori, che a quel punto si attiveranno per farla cessare.
Dal punto di vista pratico, le prove fornite in sede penale per dimostrare la qualità di reale gestore della società in capo ad un soggetto consistono per la maggior parte in dichiarazioni testimoniali e riscontri documentali (movimentazioni bancarie, documenti o contratti firmati dal soggetto in nome e per conto della società, detenzione di materiale a questa direttamente riferibile), mentre in sede tributaria-amministrativa il giudice è di regola chiamato a fondare il proprio convincimento sulle risultanze del processo verbale di constatazione redatto a seguito di una precedente verifica fiscale.

3. La responsabilità dell’amministratore di fatto per i reati tributari

Una volta verificata la sussistenza delle condizioni per poter qualificare un soggetto alla stregua di amministratore di fatto, si pone il problema dell’imputabilità allo stesso di imposte e sanzioni originariamente accertate in capo alla società dallo stesso gestita.
Il quadro cambia a seconda che si tratti di violazioni di carattere amministrativo o di reati tributari.
In questo secondo caso, ci si deve interrogare sul titolo di responsabilità che può essere ascritta all’amministratore di fatto, al fine di irrogare nei suoi confronti una sanzione penale per il reato tributario accertato in occasione di violazioni alla normativa tributaria contestate alla persona giuridica.
A tale proposito, sebbene tutti i delitti di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, possano essere astrattamente commessi da “chiunque” – questo essendo il termine utilizzato dal legislatore – la dottrina e la giurisprudenza sono compatte nel ritenere che quelli dichiarativi abbiano in realtà la natura di reati propri, che quindi possono essere commessi unicamente dal soggetto legalmente tenuto alla presentazione delle dichiarazioni annuali dei redditi e IVA: dunque, di fatto, dal rappresentante legale della persona giuridica.
Ebbene, poiché manca nel D.Lgs. n. 74/2000 una norma che, al pari dell’art. 2639 c.c., parifichi espressamente l’amministratore di fatto a quello di diritto, tale equiparazione è stata sancita in via interpretativa, in forza dell’art. 62 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (11) e dell’art. 1, quarto comma, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. Quest’ultima norma, in particolare, prevede che la dichiarazione della persona giuridica debba essere sottoscritta, a pena di nullità, dal rappresentante legale e, in mancanza di questi, da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto; ora, l’inciso “in mancanza di questi” viene interpretato dalla giurisprudenza in modo estensivo, riferendolo non solo ai veri e propri casi di mancanza “fisica” del rappresentante legale, di sua inabilità o impossibilità a sottoscrivere la dichiarazione, ma altresì a impedimenti di tipo relativo, che si verificano ad esempio quando il rappresentante formale è in realtà una testa di legno e non sia in grado di sottoscrivere la dichiarazione assumendosene consapevolmente la paternità (si pensi al caso in cui venga nominato rappresentante legale un soggetto che risiede all’estero, che non conosce la lingua del nostro Paese e che nulla conosce delle attività esercitate dalla società rappresentata). Pertanto, considerando che – secondo la Suprema Corte – il rappresentante legale deve considerarsi mancante anche quando non ha alcun potere o possibilità di ingerenza nella gestione della società, l’autore del reato diventa colui il quale effettivamente gestisce la società, in quanto è solo lui in condizione di compiere l’azione prescritta dalla norma (sottoscrivere la dichiarazione assumendosi la paternità dei dati ivi indicati).
Su tali basi, la giurisprudenza ha affermato che l’amministratore di fatto è gravato di tutti gli obblighi che incombono sull’amministratore di diritto, il che consente di ritenerlo responsabile non solo per i reati dichiarativi commissivi (i.e. presentazione di dichiarazione infedele o fraudolenta), ma anche per quelli omissivi (i.e. omessa presentazione della dichiarazione) (12).
In altre parole, la Suprema Corte qualifica come intraneo – ossia come soggetto qualificato a cui è imputabile la responsabilità – proprio l’amministratore di fatto, mentre quello di diritto è comunque ritenuto corresponsabile in base alla posizione di garanzia che riveste a norma dell’art. 2392 c.c. (13) e, inoltre, in forza dell’art. 40, cpv., c.p., quando vi sia la prova dell’esistenza, in capo a questi, del cosiddetto “dolo eventuale”, che consiste nell’essere stato a conoscenza della gestione illecita da parte dell’amministratore di fatto e nell’averne accettato le conseguenze, omettendo di intervenire.
Quanto agli altri reati (ad esempio emissione di fatture per operazioni inesistenti) l’ascrivibilità del delitto all’amministratore di fatto risulta più semplice, in quanto, non trattandosi di reati propri, chiunque potrà essere considerato soggetto attivo.

4. La riferibilità delle sanzioni amministrativo-tributarie all’amministratore di fatto

Diverso è il panorama quando si tratta di violazioni amministrativo-tributarie.
Il complesso normativo di riferimento per la disciplina del sistema sanzionatorio tributario è il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, improntato al principio della personalità della pena, che consiste nella riferibilità alla persona fisica delle conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione commessa dalla persona giuridica. L’art. 2 del predetto decreto, invero, sancisce la responsabilità diretta della sanzione in capo alla persona fisica che ha commesso materialmente l’illecito; l’art. 11, inoltre, prevede che, se la violazione è commessa nell’esercizio delle funzioni di dipendente, rappresentante o amministratore anche di fatto di una società, associazione o ente con o senza personalità giuridica, nell’interesse di questa, quest’ultima è coobbligata solidale al pagamento della sanzione. In questo modo, il decreto legislativo in parola scinde chiaramente la figura del trasgressore da quella del contribuente: al primo è direttamente riferibile la sanzione, che sarà contestata e irrogata facendo applicazione delle norme relative alla colpevolezza, all’eventuale sussistenza di cause di non punibilità e ai criteri di commisurazione di cui all’art. 7; alla seconda, invece, la sanzione è irrogabile solo in quanto soggetto coobbligato al pagamento della stessa, in virtù del vincolo di solidarietà previsto dalla legge (per una sorta di “tutela” del credito erariale sanzionatorio).
Tale impianto, tuttavia, è stato parzialmente superato dall’emanazione del D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), il cui art. 7 ha espressamente previsto che «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica».
Il superamento, come detto, è solo parziale in quanto la novella è limitata sotto alcuni aspetti, per quanto sia intervenuta su un settore di grande rilevanza quale quello delle società a base capitalistica. Anzitutto, la norma si applica unicamente alle violazioni per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (i.e. 2 ottobre 2003), non vi era ancora stata contestazione o irrogazione di sanzioni. In secondo luogo, e soprattutto, essa si applica solo alle «società o enti con personalità giuridica», ovvero, per quanto qui più interessa, alle società di capitali.
L’intervento del legislatore, pertanto, ha dato vita ad una sorta di doppio binario nella responsabilità sanzionatoria amministrativa: per le società ed enti con personalità giuridica la sanzione sarà irrogata unicamente nei confronti di questa e non della persona fisica che materialmente ha posto in essere le condotte sanzionate; per le società ed enti che invece difettano di personalità giuridica, al contrario, continua ad applicarsi l’originario principio personalistico, per il quale il responsabile della violazione è individuato nell’effettivo trasgressore, cioè nella persona fisica che ha agito per conto della società (14).
Secondo l’Amministrazione finanziaria, peraltro, l’art. 7 dovrebbe essere letto alla luce dell’art. 2, lett. l), della legge delega 7 aprile 2003, n. 80, che ha affermato il principio secondo il quale la sanzione fiscale amministrativa avrebbe dovuto concentrarsi «sul soggetto che ha tratto effettivo beneficio dalla violazione». Pertanto, essa ritiene che l’art. 7 possa escludere l’imputabilità dell’autore materiale della violazione tributaria solo se si dimostra che questi non abbia tratto effettivo beneficio dalla violazione medesima.
In effetti, tale impostazione è stata condivisa anche da alcuni giudici di merito, che, per stabilire la sanzionabilità della persona fisica, hanno preliminarmente valutato se la stessa avesse avuto un ruolo attivo, di ispirazione della condotta illecita, e se, inoltre, avesse tratto un effettivo e personale beneficio dalla violazione contestata (15).
Diverso ragionamento si ritrova invece in una recente sentenza della Commissione tributaria provinciale di Vicenza, che – proprio in relazione alla sanzionabilità di un soggetto qualificato alla stregua di amministratore di fatto – ha affermato che «[non] può trovare applicazione … il principio contenuto nell’art. 2, comma 1, della legge delega n. 80/2003, secondo cui la sanzione si concentra sul soggetto che ha tratto effettivo beneficio dalla violazione. Detto ordine di idee … non pare, quanto meno allo stato, da condividere, posto che, per un verso, tale principio per trovare immediata applicazione deve essere recepito da un decreto legislativo e, per altro verso, l’unica norma attualmente applicabile è il menzionato art. 7 D.L. n. 269 del 2003, che espressamente esclude … una responsabilità personale dell’amministratore per le violazioni contestate alle società con personalità giuridica» (16).
Riguardo a tale questione, si può osservare che la norma sanzionatoria – che peraltro va sempre intesa secondo il principio di tassatività e interpretata in modo da non espandere la sanzionabilità oltre i casi espressamente previsti – non consente di distinguere a seconda che la persona fisica che ha agito in rappresentanza dell’ente con personalità giuridica abbia o meno tratto beneficio dalla violazione contestata. E ciò anche perché, in caso contrario, la disposizione in commento diventerebbe di fatto sempre inapplicabile, visto che – a ben vedere – un qualche vantaggio e beneficio (diretto o indiretto), per la persona fisica che ha agito in veste di amministratore, è quasi sempre presente.
L’amministratore non socio potrebbe ad esempio, come spesso accade, beneficiare di compensi commisurati all’utile netto della gestione, dunque una violazione che comporta il pagamento di minori imposte rispetto a quanto dovuto lo avvantaggerebbe, in termini di una maggiore retribuzione e di una maggiore soddisfazione da parte della compagine sociale, che sarà evidentemente indotta a confermarlo in carica anche per il futuro. Quanto agli amministratori-soci, poi, è evidente che la violazione tributaria, implicando un risparmio di imposta per la società partecipata, ridonda direttamente a loro favore, sotto forma di un maggior valore della partecipazione societaria e/o della possibilità di percepire maggiori dividendi, palesi (si pensi alla deduzione di un costo che non poteva essere dedotto, con evidenziazione di un maggior utile di bilancio) od occulti (si pensi al nascondimento di un ricavo a diretto beneficio dei soci-amministratori).
Insomma, è vero che la norma del 2003 ha voluto escludere una sanzionabilità proporzionata all’imposta evasa in capo a soggetti (gli amministratori) diversi da quello (la società) nel cui patrimonio si riflettono i benefici dell’evasione. Tuttavia, ciò non legittima interpretazioni della norma “a contrario”, onde continuare ad affermare la sanzionabilità delle persone fisiche che hanno agito in rappresentanza della società laddove sia riconoscibile in capo alle stesse un interesse o beneficio correlato all’evasione perpetrata, poiché ciò equivarrebbe ad una interpretazione abrogante della norma, e alla creazione di una nuova ipotesi di sanzionabilità non prevista dalla legge.
L’Agenzia delle entrate, inoltre, ha tentato di circoscrivere ulteriormente la portata dell’art. 7 del D.Lgs. n. 269/2003, espandendo il perimetro sanzionatorio, affermando che la norma non si applicherebbe alle persone fisiche estranee alla società, ma solo a quelle interne (manager, dipendenti, etc.), non essendo stato abrogato l’istituto del concorso di persone nel reato (17).
A tale ricostruzione possono tuttavia essere mosse due critiche: in primo luogo, gli “amministratori di fatto” sono equiparati – ai sensi dell’art. 2639 c.c. (18) e secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato – agli amministratori di diritto, così che ai primi sono applicabili tutte le disposizioni che si applicano ai secondi; dunque, se per le violazioni tributarie relative agli obblighi delle società di capitali risponde soltanto la società, e non i suoi amministratori, non sembra poi agevole né plausibile distinguere a seconda dell’esistenza di una nomina formale (amministratore di diritto) o dello svolgimento in concreto della funzione (amministratore di fatto). In secondo luogo, se si pretende di far valere – come fa l’Amministrazione finanziaria – il principio della punibilità di chi ha tratto beneficio dall’illecito, allora non si vede la ragione per la quale debbano essere destinatari della sanzione, a titolo di concorso, persone esterne alla società, che quindi non hanno tratto a rigore alcun vantaggio dalla violazione contestata; se poi anche avessero da ciò tratto un vantaggio di qualche tipo (si pensi all’onorario del consulente), si tratterebbe di una “remunerazione” non commisurata all’imposta oggetto di evasione.
Una lettura meno angusta dell’art. 7 del D.L. n. 269/2003, d’altronde, è stata condivisa anche da alcuni giudici di merito che, facendone un’interpretazione più aderente al dato letterale, hanno fatto discendere dalla norma l’impossibilità di imputare le sanzioni amministrative ad amministratori di fatto, consulenti e terzi (19).
Parte della dottrina condivide tale orientamento, ritenendo esclusa la configurabilità del concorso di cui all’art. 9 del D.Lgs. n. 472/1997, in forza del fatto che l’art. 7 del D.L. n. 269/2003 sancisce espressamente l’esclusiva responsabilità della persona giuridica, non lasciando spazio ad un coinvolgimento di soggetti terzi quali consulenti o amministratori di fatto (20).
Questa conclusione appare in linea di massima da condividere, anche se forse una ragionevole soluzione di compromesso rispetto alle tesi più attente agli interessi erariali potrebbe ravvisarsi in quella posizione, a volte affacciata in giurisprudenza, propensa a sanzionare l’amministratore di fatto laddove la società si riveli un mero schermo fittizio interposto a fini evasivi. Si tratta in effetti di una posizione tesa comprensibilmente a contrastare gli abusi dello strumento societario.
Un conto è infatti una società realmente operante, con una propria attività e patrimonio, che abbia putacaso commesso delle violazioni tributarie i cui riflessi sanzionatori andranno su tale patrimonio a soddisfarsi. Caso diverso è quello di chi, interponendo uno schermo societario privo di ogni consistenza e sostanza, non dedito ad alcuna attività commerciale effettiva, ed utilizzato come mero centro di imputazione di rapporti giuridici col fine di perpetrare un’evasione senza sopportarne conseguenze e rischi sanzionatori, potrebbe essere ritenuto responsabile per la sanzione non già in veste di “amministratore di fatto” dello schermo giuridico così creato, bensì quale “vero” contribuente e soggetto passivo dell’imposta, oltre che autore della violazione.

Avv. Sara Comin – Prof. Dario Stevanato

(1) Ved. Cass., sez. I, 1° marzo 2016, n. 4045 (in Boll. Trib. On-line), che ha ritenuto insufficiente, ai fini della qualificazione di un soggetto alla stregua di amministratore di fatto, il mero pagamento di debiti e la riscossione di somme per conto della società, dato il carattere episodico e la limitatezza di atti di questo tipo rispetto al complesso della gestione sociale.
(2) Ved. anche Cass., sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2952 (in Boll. Trib. On-line), secondo la quale atti di gestione di notevolissima consistenza economica, per quanto sporadici, integrano la fattispecie dell’amministrazione di fatto.
(3) Cass., sez. VI pen., 19 dicembre 2014, n. 22108, in Boll. Trib. On-line.
(4) Cass., sez. III pen., 18 marzo 2016, n. 10974, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cass., sez. III pen., 14 aprile 2015, n. 15236, in Boll. Trib. On-line.
(6) In particolare dei soci, ved. Cass., sez. III pen., 29 agosto 2012, n. 33385, in Boll. Trib., 2012, 1349.
(7) Cass., sez. III pen., 21 giugno 2011, n. 24811, in Boll. Trib. On-line.
(8) Cass., sez. III pen., 4 ottobre 2011, n. 35864, in Boll. Trib. On-line.
(9) Cass., sez. III pen., 5 novembre 1999, n. 12568, in Dir. e prat. soc., 2000, 79.
(10) Così Cass., sez. V pen., 8 ottobre 1991, n. 1154, in Mass. cod. pen., 1992, 11, 88, ripresa di ultimo da Cass., sez. III pen., 27 maggio 2015, n. 22108, in Boll. Trib. On-line.
(11) Ai sensi dell’art. 62 del D.P.R. n. 600/1973 «La rappresentanza dei soggetti diversi dalle persone fisiche, quando non sia determinabile secondo la legge civile, è attribuita ai fini tributari alle persone che ne hanno l’amministrazione anche di fatto».
(12) Cfr. Cass., sez. III pen., 19 novembre 2013, n. 47110, in Boll. Trib., 2014, 1195, con nota di F. BRIGHENTI; Cass., sez. III pen., 19 giugno 2014, n. 26468, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. IV pen., 10 giugno 2015, n. 24650, ivi; Cass., sez. III pen., 3 ottobre 2016, n. 41148, ivi; Cass., sez. III pen., 24 settembre 2015, n. 38780, ivi; Cass., sez. III pen., 29 maggio 2012, n. 20678, ivi; Cass., sez. III pen., 29 agosto 2012, n. 33385, in Boll. Trib., 2012, 1349; Cass., sez. III pen., 10 giugno 2011, n. 23425, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. III pen., 21 giugno 2011, n. 24811, ivi.
(13) L’art. 2392 c.c., primo e secondo comma, recitano: «Gli amministratori devono adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’osservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori» e «In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose».
(14) Cfr. L. CINQUEMANI, L’attività sanzionatoria dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2008, il quale ritiene però che tale novella non abbia inteso sostituire il principio di personalità in favore di quello del beneficio o dell’interesse, ma che essa abbia semplicemente posto un limite alla riferibilità alla persona fisica della sanzione, di modo che, pur essendo la violazione imputabile a quest’ultima, sia la persona giuridica a subirne gli effetti sfavorevoli.
(15) Cfr. Comm. trib. reg. dell’Emilia Romagna, sez. IX, 23 gennaio 2013, n. 5, in Boll. Trib. On-line; Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. I, 26 marzo 2012, n. 135, in Boll. Trib., 2012, 869; Comm. trib. reg. del Piemonte, sez. XXXI, 16 aprile 2008, nn. 6 e 7, confermate poi da Cass., sez. trib., 28 agosto 2013, n. 19716; tutte in Boll. Trib. On-line. Quest’ultima, in particolare, ha ritenuto non applicabile l’art. 7 del D.L. n. 269/2003 in quanto, ritenendo la società una fictio iuris creata artificiosamente dalla persona fisica nel suo esclusivo interesse, il rapporto fiscale risultava essere proprio della seconda.
(16) Cfr. Comm. trib. prov. di Vicenza, sez. III, 27 ottobre 2015, n. 866, in Boll. Trib. On-line. Ved. anche R. FANELLI, Eliminata (in parte) la responsabilità personale per le sanzioni tributarie, in Corr. trib., 2003, 3369.
(17) Cfr. circ. 21 giugno 2004, n. 28/E, in Boll. Trib., 2004, 1000.
(18) Recita l’art. 2639 c.c.: «Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. Fuori dei casi di applicazione delle norme riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni alla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi».
(19) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. LXVII di Brescia, 15 marzo 2016, n. 1512; Comm. trib. reg. del Lazio, sez. XXIX, 27 gennaio 2011, n. 18; e Comm. trib. reg. del Piemonte, sez. XXXII, 14 maggio 2008, n. 8; tutte in Boll. Trib. On-line.
(20) Cfr. C. CIPOLLINI, Non è ammessa l’estensione al legale rappresentante della responsabilità per le sanzioni tributarie direttamente imputabili all’ente, in nota a Cass., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17223, in Boll. Trib., 2007, 476; F. BRIGHENTI, Procedure concorsuali e sanzioni tributarie: i soggetti passivi tra riforme e controriforme, ivi, 2005, 1449; A. MESSINA, Controriforma delle sanzioni. Societas delinquere potest, ibidem, 418; F. CERIONI, L’irrogazione delle sanzioni tributarie alle persone giuridiche in base all’articolo 7 del D.L. n. 269/2003: problemi irrisolti e profili di illegittimità costituzionale, ibidem, 257; U. PERRUCCI, Sanzioni non penali a carico delle persone giuridiche, ivi, 2003, 1525; V. FICARI, Sulla responsabilità del rappresentante legale di un’associazione per sanzioni amministrative da obbligazioni tributarie dell’ente, in nota a Cass., sez. trib., 1° febbraio 2002, n. 1324, ibidem, 712; R. FANELLI, Valenza generale dei principi sanzionatori a carico delle persone giuridiche, in Corr. trib., 2005, 2675; A. TOMASSINI, La riferibilità delle sanzioni agli enti con personalità giuridica, ivi, 2004, 1340; E. COMASCHI, Sanzioni amministrative fiscali: riflessioni sulla lesione del principio di irretroattività in malam partem a danno della persona giuridica, in Dir. prat. trib., 2006, 365; contra M. MEOLI, Riferibilità delle sanzioni amministrative tributarie agli enti con personalità giuridica, in Prat. fisc. prof., 2004, 27.

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