SOMMARIO: 1. La qualificazione del rapporto di lavoro dello sportivo – 2. La disciplina fiscale dei redditi derivanti da attività sportiva non professionistica – 3. La disciplina fiscale dei redditi derivanti da attività sportiva professionistica.
1. La qualificazione del rapporto di lavoro dello sportivo
Per affrontare il tema della tassazione delle prestazioni sportive, si rende innanzitutto necessario distinguere tra la categoria degli sportivi professionisti e quella degli atleti non professionisti.
Per effettuare tale distinzione, il nostro ordinamento non fornisce una completa e chiara distinzione delle due figure ma si limita a definire, attraverso l’art. 2 della legge 23 marzo 1981, n. 91, la figura dell’atleta professionista.
Secondo tale disposizione, «sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI, e che conseguono la qualificazioni dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica».
La definizione citata richiede, pertanto, che sussistano determinati e precisi requisiti per ricondurre la prestazione sportiva dell’atleta alla categoria di attività professionistica.
L’attività svolta dall’atleta professionista, in primo luogo, deve essere prestata a titolo oneroso e con carattere di continuità; in secondo luogo, essa deve rientrare nei parametri indicati dalle normative federali degli sport di riferimento, che quindi indicheranno la disciplina di dettaglio.
Per l’identificazione di tali caratteristiche, pertanto, è competente la singola federazione sportiva affiliata al CONI, che darà per ogni attività specifica una definizione diversa, e applicabile solo ad una determinata disciplina.
Tale rinvio, oltre a determinare un elevatissimo grado d’incertezza nell’identificazione della categoria di atleti professionisti, lasciando di fatto il potere alle singole federazioni nel definire autonomamente e arbitrariamente le caratteristiche necessarie per far rientrare l’attività degli sportivi nel perimetro dell’art. 2 della sopracitata norma, ha determinato che, ad oggi, solo sei federazioni hanno effettivamente identificato e qualificato il settore sportivo professionistico: la FIGC per il calcio, la FIP per la pallacanestro, la FIG per il golf, la FCI per il ciclismo, la FPI per il pugilato e la FMI per l’automobilismo.
Il risultato di tale assetto normativo è paradossale: solo per gli sport di cui le federazioni hanno introdotto la qualificazione si può parlare di attività sportiva professionistica.
Per tutte le altre discipline, quindi, anche se svolte a livelli altissimi, seguendo la ricostruzione normativa appena fatta, non si può parlare di attività sportiva “professionistica” (1).
Al di là di tale aspetto, quanto alla definizione di attività non professionistica essa viene ricavata a contrariis, e in via residuale, in riferimento alla previsione della legge n. 91/1981.
In sostanza, tutto ciò che non rientra nella fattispecie del professionismo come identificato dalla normativa sopracitata, e quindi negli statuti delle Federazioni sportive, è “dilettantismo”.
Per quanto riguarda quest’ultima nozione, si deve precisare che, vista l’origine della categoria di cui si parlerà in seguito, sarebbe più corretto fare una ulteriore distinzione tra attività sportiva “non professionistica” e “dilettantistica”.
Quest’ultima, infatti, in relazione a determinate attività sportive, oltre ad apparire anacronistica, ha perso la capacità di descrivere efficacemente lo spirito e le modalità di alcune attività svolte dagli atleti. Tale è la distanza della definizione di “dilettante” dalla realtà sportiva contemporanea che lo stesso CONI ha cessato di utilizzare il termine nelle sue delibere (2).
Il termine “dilettantistico”, ad esempio, difficilmente si può utilizzare per le attività degli atleti del circuito mondiale del tennis maschile e femminile, o per le discipline olimpiche come l’atletica e il nuoto.
Questi atleti, infatti, pur astrattamente rientrando nella categoria dei dilettanti, svolgono in maniera più che “professionale” la propria attività sportiva.
Inoltre, ad avviso di chi scrive, anche la distinzione tra attività sportiva “professionistica” e “non professionistica”, fondata sulla presunzione dell’assenza di scopo di lucro nel caso delle attività escluse dall’applicazione della legge n. 91/1981, è del tutto anacronistica.
Applicando l’attuale normativa, ad esempio e per paradosso, si dovrebbe accettare la ricostruzione secondo la quale l’attività svolta dal tennista Fabio Fognini, al momento al n. 43 nel ranking ATP, con un montepremi totale in carriera di $ 7.708.206,00 (3), non sarebbe perseguita con lo scopo di lucro e professionalmente, ma per puro spirito sportivo, con intenti esclusivamente ludico/ricreativi.
Insomma, in base all’attuale normativa sullo sport professionistico, l’ottimo tennista azzurro si allenerebbe tutti i giorni, girerebbe il mondo, e parteciperebbe a tornei con tasse di iscrizioni assai elevate solo ed esclusivamente per l’enorme amore che prova per la sua disciplina sportiva.
Evidentemente, anche alla luce dei criteri di distinzione tra sportivi professionisti e sportivi non professionisti, si deve evidenziare come l’attuale carenza normativa non solo porti a risultati paradossali, ma abbia conseguenze giuridiche notevoli, soprattutto sotto il profilo giuslavoristico e previdenziale, creando tra l’altro ingiustificate disparità di trattamento tra soggetti che si trovano nelle medesime situazioni (4).
È evidente come occorrerebbe una riforma del sistema normativo del settore sportivo, in maniera da eliminare tali disparità di trattamento.
Fino a questo momento, infatti, per rimediare all’attuale situazione (a cui solo in parte ha ovviato l’ordinamento tributario) sia la giurisprudenza sia la dottrina, attraverso la valorizzazione di tesi meno formalistiche, hanno tentato di “ricondurre ad equità” le differenze che sono frutto della scelta del legislatore.
2. La disciplina fiscale dei redditi derivanti da attività sportiva non professionistica
Se nell’ordinamento è assente una disciplina degli sportivi “non professionisti” e dell’attività sportiva da essi svolta, lasciando all’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza la scelta circa i trattamenti da applicare a questa categoria di soggetti, il diritto tributario è stato il primo settore in cui la problematica in analisi è stata affrontata, e in cui è stata introdotta una normativa ad hoc per sottoporre ad imposizione queste manifestazioni di capacità contributiva.
La disciplina tributaria dei redditi derivanti da attività sportive non professionistiche è prevista dagli artt. 67, primo comma, lett. m), e 69, secondo comma, del TUIR, nonché dal primo comma dell’art. 25 della legge 13 maggio 1999, n. 133.
L’art. 67 del TUIR prevede che il reddito degli sportivi non professionisti debba essere ricompreso nella categoria reddituale dei redditi diversi, ossia fra tutti quei redditi che non possono essere ricondotti ad altre categorie reddituali.
Da questo punto di vista, quindi, l’art. 67 identifica questi redditi come se fossero generati da un tertium genus, non riconducibile a nessuna categoria di rapporto lavorativo previsto dall’ordinamento, come se non potesse configurarsi per gli atleti “dilettanti” (leggasi, “non professionisti”) un rapporto di lavoro riconducibile alle categorie indicate dagli artt. 2094 e 2222 c.c. (5), rendendo assai complessa l’individuazione della causa del rapporto tra lo sportivo e la società dilettantistica a favore della quale questi presta la propria attività (6).
Entrando nel merito della disciplina fiscale indicata dalle norme richiamate, la lett. m) del primo comma dell’art. 67 prevede espressamente tra i redditi diversi «le indennità di trasferta, i rimborsi forfettari di spesa e i compensi erogati … nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche dal CONI, dalle Federazioni sportive nazionali, dall’Unione Nazionale per l’incremento delle Razze Equine (UNIRE), dagli enti di promozione sportiva e da qualunque organismo, comunque denominato, che persegua finalità sportive dilettantistiche e che da essi sia riconosciuto. Tale disposizione si applica anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo – gestionale di natura non professionale resi in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche».
In primo luogo si deve sottolineare l’estensione del regime fiscale del quale stiamo parlando anche a quei soggetti (come avviene nel caso dell’attività sportiva professionistica), che svolgono attività correlata a quella dell’atleta (tecnici, preparatori atletici, etc.) e a tutte le attività collaterali di tipo amministrativo, che sono svolte nelle associazioni sportive dilettantistiche (dirigenti, segretari, etc.).
Tale interpretazione è stata confermata da una norma di interpretazione autentica, ossia l’art. 35, quinto comma, del D.Lgs. 30 dicembre 2008, n. 207, secondo cui «Nelle parole “esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche” contenute nell’articolo 67, comma 1, lettera m), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, sono ricomprese la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva dilettantistica».
In secondo luogo si deve ribadire come il legislatore tributario, indicando nella norma anche i compensi erogati nell’esercizio diretto di attività sportive, abbia confermato la volontà, anche in presenza di una prestazione di natura corrispettiva, di non ricondurre le prestazioni degli atleti “non professionisti” a rapporti di lavoro subordinati o autonomi e, di conseguenza, i redditi derivanti da essi alle categorie reddituali di riferimento.
Nel dettaglio, e oltre alla definizione, il trattamento fiscale dei redditi derivanti da attività sportive dilettantistiche si ricava dal combinato disposto del secondo comma dell’art. 69 del TUIR e del primo comma dell’art. 25 della legge n. 133/1999.
Ora, come si vedrà di seguito, il trattamento fiscale applicato a questa categoria di contribuente, del tutto agevolativo, denota una volta di più la volontà del legislatore di incoraggiare l’attività sportiva dilettantistica, prevedendo un regime di favore per gli atleti non professionisti.
Il terzo comma dell’art. 69 dispone che «le indennità, i rimborsi forfetari, i premi e i compensi di cui alla lettera m) del comma 1 dell’articolo 81 [ora art. 67] non concorrono a formare il reddito per un importo non superiore complessivamente nel periodo d’imposta a 7.500 euro. Non concorrono, altresì, a formare reddito i rimborsi spese documentate relative al vitto, all’alloggio, al viaggio e al trasporto sostenute in occasione di prestazioni effettuate fuori dal territorio comunale».
La prima previsione in merito al trattamento fiscale, quindi, prevede una esclusione dalla determinazione del reddito imponibile delle somme percepite dallo sportivo nell’anno d’imposta sino alla soglia indicata dalla norma.
Per quanto riguarda i redditi eccedenti 7.500 euro, il primo comma dell’art. 25 della legge n. 133/1999 individua due “fasce” di imposizione.
Per i redditi da 7.501 a 28.158,28 euro la società sportiva o l’ente sportivo che erogano il premio o il compenso opereranno una ritenuta a titolo d’imposta nella misura fissata per il primo scaglione di reddito previsto per l’IRPEF (23 per cento), maggiorata delle addizionali di compartecipazione all’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Per i redditi superiori a 28.158,28 euro è sempre prevista una ritenuta alla fonte del 23 per cento, ma in questo caso a titolo d’acconto.
Per i redditi inferiori a 28.158,28 euro, dunque, il contribuente, se non percepisce altri redditi da altre attività, non ha l’obbligo di presentazione della dichiarazione d’imposta per l’anno in cui ha percepito i redditi.
Viceversa, dovrà indicare in dichiarazione anche le somme sottoposte a ritenute alla fonte a titolo d’imposta che concorreranno alla formazione del reddito solo in relazione all’individuazione del corretto scaglione (7).
Il regime fiscale appena descritto si applica, però, esclusivamente ai redditi generati come compenso dell’attività sportiva dell’atleta o che siano direttamente riconducibili ad essa.
Per quanto riguarda lo sfruttamento dei diritti d’immagine dell’atleta non professionista, invece, rappresentando essi una manifestazione di capacità contributiva totalmente diversa, non possono essere assoggettati al medesimo regime agevolato.
L’utilizzo a fini commerciali del nome dell’atleta, e i redditi derivanti da esso, non possono essere ricondotti, neanche indirettamente, all’attività sportiva.
L’attività oggetto del rapporto giuridico, non essendo contemplata dall’ordinamento tributario, deve essere necessariamente ricondotta alla categoria delle “obbligazioni di permettere”, disciplinate dalla lett. l) del primo comma dell’art. 67 del TUIR, identificando i redditi derivanti anch’essi come redditi diversi da una differente fattispecie giuridica.
Per la determinazione della base imponibile dei ricavi ottenuti dallo sfruttamento dei diritti d’immagine, quindi, si dovrà applicare il secondo comma dell’art. 71 del TUIR che prevede che «i redditi di cui alle lettere h), i) e l) [la lettera che interessa nel nostro caso] del comma 1 dell’art. 81 [ora art. 67] sono costituiti dalla differenza tra l’ammontare percepito nel periodo d’imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione».
Tali redditi, ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, subiranno una ritenuta all’atto del pagamento che varia a seconda che il soggetto passivo dell’imposta sia o meno residente in Italia.
Nel caso in cui sia fiscalmente residente in Italia, subirà una ritenuta a titolo d’acconto del 20 per cento sul risultato della somma algebrica come stabilito dall’art. 71. Invece, se i compensi sono percepiti da soggetti non residenti «deve essere operata una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 30 per cento» (8).
Come più volte anticipato in precedenza, la normativa fiscale delle prestazioni “dilettantistiche” risulta dunque assai favorevole rispetto a quella degli sportivi “professionisti”.
La formalistica distinzione imposta dall’ordinamento rischia però di creare una grave disparità di trattamento tra soggetti che di fatto svolgono la propria attività sportiva in maniera simile se non identica con scopo di lucro, in via abituale e continuativa, all’interno di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo.
La tendenza alla professionalizzazione dell’attività sportiva considerata alla luce della normativa attuale “dilettantistica” crea discrepanze tra la realtà dell’economia dello sport attuale e quella giuridica.
L’eccessivo formalismo della norma del 1981 è stato mitigato inizialmente dalla giurisprudenza comunitaria (9) che, sin dagli anni ‘70, si è sempre pronunciata a favore del riconoscimento della qualifica di lavoratore a chi pratica un’attività sportiva abituale e retribuita indipendentemente dalla qualificazione della stessa.
Il principio immanente nell’ordinamento della prevalenza della sostanza sulla forma richiede che sia rispettato il reale rapporto obbligatorio tra società sportiva e atleta a prescindere dalla forma del contratto o dalle qualificazioni giuridiche formali, e che il conseguente rapporto d’imposta rispecchi tale sostanza.
La più recente dottrina, infatti, ormai ritiene che la distinzione fra prestazione professionistica e dilettantistica non possa che avvenire sulla base del concetto di prevalenza.
Solo valutando caso per caso la singola prestazione sportiva si può desumere il reale carattere del rapporto tra sportivo e società.
Tale conclusione si desume sia dai principi generali sia dalla giurisprudenza di origine comunitaria (10) e nazionale, che hanno confermato l’importanza di prestare maggiore rilevanza ai profili concreti del rapporto, piuttosto che all’inquadramento formale del rapporto stesso (11).
Del resto la stessa scelta di inserire i redditi derivanti da queste attività sportive nella categoria dei redditi diversi permette di effettuare tale riclassificazione dei compensi degli atleti non professionisti che svolgono la loro attività con scopo di lucro nell’ambito di un rapporto abituale e continuativo alle dipendenze di una società o che prestano in forma autonoma la propria attività.
Al primo comma l’art. 67, infatti, prevede i redditi diversi come categoria reddituale, in cui includere tutte quelle manifestazioni di capacità contributiva che non possono essere ricondotte ad altre categorie reddituali.
La possibilità offerta dalla natura della categoria reddituale dei “redditi diversi” è stata utilizzata dall’Amministrazione finanziaria per fugare ogni dubbio circa la possibilità di riqualificare i compensi degli atleti dilettanti. Nella citata risoluzione n. 38/E/2014 in materia di rimborsi chilometrici per le attività sportive dilettantistiche, l’Amministrazione alla fine, nell’ultimo capoverso, dispone «quanto precede vale nel presupposto che l’attività svolta sia effettivamente riconducibile all’art. 67, comma 1, lett. m), e non sia riscontrabile l’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente o autonomo, nel qual ultimo caso si applicherebbero le diverse regole previste per le rispettive categorie reddituali».
In sostanza, la risoluzione appena citata consegna un nuovo punto di vista relativo alla disciplina di favore sopra descritta ed è, quindi, applicabile solo nei casi in cui sia impossibile configurare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo.
3. La disciplina fiscale dei redditi derivanti da attività sportiva professionistica
Come già detto, l’ordinamento giuridico ha identificato la categoria degli sportivi professionisti nell’art. 2 della legge n. 91/1981.
In base a tale norma, l’attività rientrante nella categoria prevista è quella «esercitata a titolo oneroso con carattere di continuità».
Già dalla lettera della norma si potrebbe intuitivamente ricondurre, quindi, il rapporto tra sportivo e società a quello di lavoro subordinato.
Ma l’indizio che il legislatore lascia trapelare nella definizione di professionismo diventa certezza nel primo comma dell’art. 3 della medesima previsione legislativa, in cui si legge espressamente che «la prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato».
Il rapporto tra l’atleta professionista e la società sportiva, quindi, ad eccezione dei casi previsti dal secondo comma dell’art. 3, deve essere ricondotto alla categoria del lavoro subordinato.
Il contratto tra società e atleta è regolato proprio dalla legge n. 91/1981, che lo delinea come un particolare rapporto di subordinazione con caratteristiche assai diverse da un comune contratto di lavoro subordinato, evidenziando la peculiarità della prestazione e delle modalità di svolgimento della prestazione di lavoro nel caso degli sportivi professionisti.
Conseguentemente, sotto il profilo fiscale i redditi derivanti dalle prestazioni sportive dell’atleta a favore della società destinataria devono essere tassati in base alle disposizioni previste dal TUIR agli artt. 49 e seguenti in materia di lavoro dipendente.
In questa circostanza, quindi, il reddito sottoposto a prelievo sarà determinato in base alla disciplina ordinaria dell’art. 51.
Se in relazione ai redditi ottenuti direttamente dalla prestazione sportiva l’applicazione della disciplina degli artt. 49 e seguenti non presenta particolari problemi, la tassazione delle somme e dei valori derivanti da prestazioni collaterali e dei fringe benefits, nel caso dell’atleta professionista, presentano più di una particolarità.
Innanzitutto si deve precisare che, per «attività sportiva dell’atleta professionista», non si intende solo la partecipazione alle gare o alle partite di campionato della società sportiva ma anche gli allenamenti, la preparazione atletica, i ritiri, gli eventi pubblicitari e pubblici della società e degli sponsor di questa. Tutte queste attività sono da ricomprendere nel perimetro del contratto di lavoro sottoscritto dall’atleta professionista.
Come avviene per la generalità dei lavoratori dipendenti, infatti, vanno assoggettate ad IRPEF tutte le somme in qualunque modo percepite in relazione al rapporto di lavoro.
Tutte le attività sopra descritte, quindi, devono essere ricondotte nell’ambito dell’art. 51 del TUIR e considerate come parte accessoria della retribuzione.
La varietà di queste attività collaterali è tale che l’Amministrazione finanziaria, con la circolare 20 dicembre 2013, n. 37/E (12), ha tentato di dare risposta ad alcune delle questioni fiscali più particolari e difficilmente inquadrabili, emerse nel corso dei Tavoli tecnici tra l’Agenzia, la FIGC e le leghe professionistiche (13).
Vediamone alcune.
La prima fattispecie riguarda le spese di vitto e alloggio sostenute dalla società in favore di giocatori. È nella prassi delle società sportive, infatti, incentivare il trasferimento di un atleta da una città a un’altra attraverso la concessione in uso gratuito di immobili di proprietà della stessa, e di farsi carico della maggior parte delle spese riguardanti la permanenza dei “campioni” nei nuovi luoghi di destinazione. In alcuni casi estremi tali benefits sono stati estesi anche a familiari ed entourage dell’atleta, sollevando dubbi sul trattamento fiscale di queste “regalie” concesse dalle società.
Dato il nesso inscindibile tra tali spese, effettuate dalla società a favore dell’atleta, e la prestazione sportiva che lo stesso dovrà effettuare a favore della società che si assume le spese di vitto e alloggio, esse devono essere considerate parte integrante del compenso percepito dallo sportivo professionista. Il vitto e l’alloggio concessi gratuitamente dalla società verranno considerati un reddito in natura percepito nell’ambito del rapporto di subordinazione sottoscritto con la società sportiva.
Il vitto a carico della società sportiva, quindi, deve essere tassato come fringe benefit, e anche l’alloggio, conseguentemente, seguirà il medesimo trattamento impositivo, applicando ad esso le valorizzazioni previste dai commi terzo e quarto dell’art. 51, lett. c), del TUIR.
Più interessante e meno immediato è il tema, sempre affrontato nella circolare n. 37/E/2013 dall’Amministrazione finanziaria, riguardante i ritiri di preparazione atletica, precampionato o pre-partita/pre-gara.
È normale infatti che, nel corso della stagione sportiva, le società organizzino, in luoghi che di solito sono differenti da quelli in cui avviene il rapporto di lavoro, un periodo di allenamento/formazione tecnico-tattica/preparazione atletica, in vista di eventi particolarmente importanti nella stagione o in occasione della preparazione di inizio anno.
In queste occasioni, gli atleti devono rispettare regole particolari e stringenti, che non rispecchiano i normali obblighi previsti dal contratto di lavoro.
Ad esempio, essi sono obbligati a soggiornare in determinate località indicate dal datore di lavoro, senza la possibilità di recarsi altrove, esulando, quindi, dalle normali statuizioni contrattuali.
Dal punto di vista fiscale i ritiri sportivi dovrebbero rientrare nella disciplina del quinto comma dell’art. 51, che disciplina le trasferte dentro e fuori il Comune in cui si svolge l’attività di lavoro.
Per quanto riguarda i ritiri svolti in un Comune diverso da quello della sede di lavoro, il vitto e l’alloggio forniti all’atleta dalla società sportiva non rilevano ai fini della determinazione del reddito dell’atleta professionista.
Astrattamente, invece, per le medesime prestazioni, nel caso di ritiri svolti nel Comune della sede di lavoro abituale, è prevista la sola irrilevanza reddituale del rimborso spese di trasporto documentate. L’Amministrazione, vista la peculiarità della circostanza, ha ritenuto invece che il vitto e l’alloggio fornito gratuitamente dalla società nel corso del ritiro non rilevino ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente degli atleti e di tutto il personale connesso ad essi.
Un’altra particolare forma di retribuzione accessoria percepita dagli atleti professionisti, e affrontata dall’Amministrazione nella stessa circolare, riguarda i beni assegnati agli atleti dagli sponsor della società sportiva.
Questi beni, nella maggior parte dei casi, vengono assegnati agli atleti in conseguenza di accordi di sponsorship intercorrenti tra le società sportive e società terze, con scopi pubblicitari.
I valori corrispondenti a tali beni costituiscono in genere reddito di lavoro dipendente ai sensi dell’art. 51, primo comma, del TUIR.
Nei casi in cui, però, l’atleta abbia l’obbligo contrattuale di utilizzare i prodotti dello sponsor, ricevuti in relazione a un contratto tra la società di appartenenza e lo sponsor stesso, e sussistano in capo all’atleta un obbligo di restituzione e correlate penali per l’inadempimento della prestazione, allora si considera prevalente l’interesse della società e, quindi, tale bene non può essere configurato come fringe benefit.
Infatti in questi casi, in cui l’utilizzo dei beni concessi dagli sponsor sia regolato dal contratto di lavoro e siano previsti obblighi a carico dell’atleta, essi non devono essere considerati come compensi accessori in natura ma come parte delle prestazioni contrattuali a cui l’atleta è obbligato ad adempiere. La non piena disponibilità di tali beni, quindi, non può far rientrare questi beni nella categoria dei fringe benefits, in particolare nei casi in cui è previsto un obbligo di restituzione dei beni, ma nella sostanza devono essere considerati come uno strumento attraverso il quale si rispetta un onere contrattuale, dall’adempimento del quale deriva una retribuzione, che non è necessariamente il bene concesso in uso gratuitamente dallo sponsor all’atleta.
Un’altra fattispecie che riguarda i rapporti tra sponsor e atleti professionisti è quella data dal caso dei premi e delle liberalità assegnati dagli sponsor al di fuori del rapporto di sponsorship con la società sportiva in occasione di particolari eventi, successi sportivi, promozioni in categorie superiori, etc.
Questa categoria di beni o somme di denaro percepite dagli atleti rientra senza alcun dubbio nella categoria dei compensi accessori alla prestazione di lavoro dipendente.
Tali premi, infatti, sono strettamente connessi ai risultati dell’attività lavorativa dell’atleta e, anche se il soggetto erogante non è la società sportiva con cui lo sportivo ha sottoscritto il contratto, essi sono da considerarsi parte del reddito tassabile ai sensi dell’art. 51 del TUIR.
Alla luce delle valutazioni appena effettuate, se le somme ricevute dagli atleti da parte degli sponsor devono essere sottoposte al medesimo regime dei bonus, ne segue che i soggetti eroganti hanno l’obbligo di effettuare la ritenuta ai sensi dell’art. 23 del D.P.R. n. 600/1973.
In tali circostanze, l’Amministrazione finanziaria prevede che sia necessario un sistema di comunicazione tra sponsor e società sportive, per assicurare il corretto adempimento degli obblighi tributari.
Per quanto riguarda, poi, le somme derivanti dallo sfruttamento dei diritti d’immagine, esse possono essere ricondotte a due categorie reddituali differenti in relazione alle modalità con cui viene sfruttata l’immagine dell’atleta.
Difatti, nei casi in cui i diritti d’immagine siano concessi a sponsor o a soggetti terzi, come agenzie di gestione dell’immagine o società intermediarie tra l’atleta e la società sportiva, i redditi derivanti dallo sfruttamento di tali diritti devono essere tassati secondo la disciplina dei redditi diversi ex art. 67 del TUIR.
Se lo sfruttamento dei diritti d’immagine viene invece concesso direttamente dall’atleta professionista alla società sportiva esso sarà considerato come parte del rapporto di lavoro subordinato e, quindi, attratto nella categoria del reddito da lavoro dipendente.
Alla luce di quanto esposto, dunque, si può affermare con certezza che per quasi tutte le attività derivanti dalla prestazione sportiva di un atleta professionista ci si trovi dinnanzi a una prestazione di lavoro subordinato.
In ipotesi particolari, previste dal secondo comma dell’art. 3 della legge n. 91/1981, si può però configurare anche l’ipotesi della sussistenza di un rapporto di lavoro autonomo tra società sportive e atleti professionisti.
La norma prevede che la prestazione sportiva dell’atleta «costituisce, tuttavia, oggetto di contratto di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:
a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo;
b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione o allenamento;
c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi le otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno».
L’esempio più immediato è quello dei gettoni percepiti dagli atleti nell’ambito di eventi sportivi in qualità di membri delle nazionali.
Questa fattispecie rientra pienamente nel perimetro del secondo comma dell’art. 3 della legge n. 91/1981.
Gli atleti, difatti, non prestano attività continuativa per le federazioni, ma solo in occasioni di determinate manifestazioni, che hanno durata molto breve, e non hanno vincoli ulteriori. Nel caso siano attribuiti dei gettoni di presenza o di partecipazione come saranno tassati?
La legge appena richiamata, all’art. 15, primo comma, per il caso in cui si verifichi una delle condizioni sopracitate, fa espresso rinvio all’art. 53, terzo comma, del TUIR, che stabilisce la riconducibilità all’ambito dei rapporti di lavoro dipendente, dei redditi da lavoro autonomo degli sportivi professionisti.
Quindi, anche per queste tipologie di reddito si applicherà il regime dei lavoratori dipendenti.
Anche nel caso di premi, derivanti da vittorie o da particolari piazzamenti, sia che essi siano attribuiti dalle federazioni sia che essi siano attribuiti dagli enti organizzatori, in nessun caso rientreranno nel perimetro dell’art. 69 del TUIR, ma saranno assorbiti nel reddito da lavoro dipendente.
Sintetizzata la disciplina fiscale degli sportivi professionisti secondo la disciplina fiscale interna, per una completa trattazione del tema che ci occupa è opportuna una brevissima menzione al regime di imposizione degli atleti non residenti.
Essi saranno infatti soggetti passivi d’imposta in Italia per i redditi prodotti nel territorio dello Stato. A questi redditi sarà applicata una ritenuta a titolo d’imposta del 30%, così da garantire un gettito sicuro, ancor prima della verifica delle convenzioni bilaterali, ed evitare all’atleta la predisposizione della dichiarazione nel nostro Paese.
In ultimo, essendosi da poco chiuso il periodo estivo dei trasferimenti, per ciò che riguarda i principali sport di squadra, molto attuale appare il tema dei c.d. “patti di netto”.
Sempre più spesso sulla stampa sportiva, nel momento in cui vengono descritte le fasi di trattativa tra società e atleti, si legge di retribuzioni nette pattuite tra le due parti. Tecnicamente, quando si parla di stipendi pattuiti al netto, siamo di fronte a una traslazione di imposta?
Come è stato già ampiamente descritto in precedenza, tra l’atleta e la società sportiva esiste un rapporto di lavoro subordinato, soggetto alla normativa del TUIR prevista in materia.
Di conseguenza le società dovranno agire in qualità di sostituti di imposta, operando le ritenute alla fonte a titolo d’acconto previste dagli artt. 23 e seguenti del D.P.R. n. 600/1973.
Ai sensi di legge, però, essa deve obbligatoriamente rivalersi sul soggetto passivo, che deve essere l’unico soggetto colpito dal prelievo fiscale.
Di conseguenza non possono essere previsti dall’ordinamento patti che traslino le imposte da un soggetto a un altro.
Se in relazione ad altre tipologie di imposizione tributaria non emerge né in dottrina né in giurisprudenza una posizione univoca, in tema di imposte sui redditi la Corte di Cassazione ha ritenuto nulli tutti i patti che prevedono la traslazione dell’onere d’imposta su un soggetto diverso da quello individuato dalla norma.
Ammesso e lecito, invece, deve essere considerato ogni patto, appunto “patto di netto”, che sposta a carico della società sportiva esclusivamente l’onere economico del tributo, lasciando però la titolarità dell’imposta in capo al soggetto passivo individuato dalla norma.
Dunque è legittimo un accordo in cui il rapporto privatistico tra atleta e società preveda non la modificazione della struttura del rapporto tributario ma si limiti a prevedere una retribuzione lorda maggiorata, così da garantire all’atleta un determinato stipendio netto (14).
Prof. Avv. Marco Allena
Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza
(1) Cfr. M. SANNINO – F. VERDE, Il diritto sportivo, Padova, 2015, 104 e 209; e M. LOGOZZO, La tassazione degli atleti professionisti, in V. UCKMAR (a cura di), Lo Sport e il Fisco, Padova, 2016, 258.
(2) Cfr. L. MUSUMARRA, I soggetti dell’ordinamento sportivo, in C. ALVISI (a cura di), Il diritto sportivo nel contesto nazionale ed europeo, Milano, 2006, 62-63.
(3) Dal profilo dell’atleta presente sul sito internet della ATP World Tour, http://www.atpworldtour.com/en/players/fabio-fognini/f510/overview.
(4) Cfr. S. ZAGÀ, La disciplina fiscale degli sportivi non professionisti, in V. UCKMAR (a cura di), Lo Sport e il Fisco, cit., 496-499; G. ALLEGRO, Sport dilettantistico e rapporti di lavoro, in L. CANTAMESSA – G.M. RICCIO – G. SCIANCALEPORE (a cura di), Lineamenti di diritto sportivo, Milano, 2008; e G. MARTINELLI – E. RUSSO – F. SCRIVANO, Prestazioni sportive dilettantistiche: aspetti giuridici e fiscali, in Enti non profit, n. 10 del 2010, p. II.
(5) Ved. ris. 11 aprile 2014, n. 38/E, in Boll. Trib., 2014, 687.
(6) Cfr. G. MARTINELLI – E. RUSSO – F. SCRIVANO, op. cit.
(7) Circ. 22 aprile 2003, n. 21/E, in Boll. Trib., 2003, 691, e circ. 19 giugno 2001, n. 60/E, ivi, 2001, 954.
(8) Cfr. G. MARTINELLI – E. RUSSO – F. SCRIVANO, op. cit., 8-9; S. ZAGÀ, op. cit., 505.
(9) A titolo esemplificativo si cita la famosa sentenza “Bosman” di Corte Giust. CE 15 dicembre 1995, causa C-415/93, in Corr. giur., 1996, 221.
(10) L. MUSUMARRA, La qualificazione degli sportivi professionisti e dilettanti nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. di diritto ed economia dello sport, 2005, 41 ss.
(11) Cfr. L. CANTAMESSA – G.M. RICCIO – G. SCIANCALEPORE, Lineamenti di diritto sportivo, Milano, 2008, 187-188; e P. D’ONOFRIO, Manuale operativo di diritto sportivo. Casistica e responsabilità, Rimini, 2007, 57.
(12) In Boll. Trib., 2014, 115.
(13) Cfr. circ. n. 37/E/2013, cit., “Questioni fiscali di interesse delle società sportive, emerse nel corso delle riunioni del Tavolo tecnico tra Agenzia delle Entrate e rappresentanti della Federazione Italiana Giuoco Calcio e delle Leghe Nazionali Professionisti”.
(14) Cfr. M. LOGOZZO, op. cit., 276.