17 Gennaio, 2018

Quanta aria fritta in circolazione nell’ambiente. E fin lì, purtroppo, tutt’altro che una notizia. L’enormità è che ormai, per evacuare anche i minimi odori, si debba affittare una ditta di pulizie. Anzi: la ditta di pulizie.
Stavolta è toccato al problema (!) della relazione intercorrente fra l’art. 2953 c.c. (Effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi) e l’art. 3 (Disposizioni diverse in materia assistenziale e previdenziale), nono comma, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare). Due disposizioni delle quali tanto il tenore letterale quanto l’ottica sistematica appaiono talmente eloquenti e lineari che qualunque controversia al riguardo dovrebbe essere ascritta al girone dei causidici, dei perditempo, fors’anche dei visionari. E invece (1) …
Prevede la prima delle due norme – quella codicistica, di portata generale – che «I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni». Non è (o meglio: non dovrebbe esservi) chi non intenda che la durata del termine prescrizionale dei singoli diritti, ove ope legis più breve di quello ordinario decennale (come è ben possibile trattandosi di opzione rimessa alla discrezione del legislatore ordinario) (2), muta (“si converte”) in decennale solo in un caso: che sulla peculiare vicenda si sia pronunciato il giudice tramite sentenza costitutiva che ha acquisito consistenza di cosa giudicata; in tutte le altre ipotesi, il termine resta fermo, fissato in quello edittale minore. Là dove eccezionalmente la conversione avviene, è perché cambia la fonte del vincolo: prima, lo era una delle (astrattamente numerose) possibili fonti di obbligazione (3); dopo, a iter giudiziario completato, lo è la sentenza (l’unico tipo di provvedimento autoritativo cui il legislatore ricolleghi siffatta facoltà).
Passiamo al dettato dell’art. 3, nono comma, della legge n. 335/1995. Esso recita: «Le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con il decorso dei termini di seguito indicati: a) dieci anni per le contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie, compreso il contributo di solidarietà previsto dall’articolo 9-bis, comma 2, del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 giugno 1991, n. 166, ed esclusa ogni aliquota di contribuzione aggiuntiva non devoluta alle gestioni pensionistiche. A decorrere dal 1 gennaio 1996 tale termine è ridotto a cinque anni salvi i casi di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti; b) cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria» (4).
Dovrebbe suonare intuitivo che, per trasformare il termine di cui alla lettera b) da quinquennale in decennale, la relativa controversia (promossa intorno alla legittimità di un titolo formatosi «prima e fuori del giudizio e in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza») (5) deve essere stata portata in giudizio da una delle parti fino ad ottenere una risposta irrevocabile. Una risposta munita di certi connotati tipici: occorre una «[a] sentenza [b] di condanna [c] passata in giudicato» (6). Solo allora, come detto, il titolo di riferimento utile alla rivendicazione muta e con esso la durata del termine (da breve speciale in lungo ordinario). Ciò in virtù della menzionata regola generale, da leggere in combinato disposto con l’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile (Applicazione delle leggi penali ed eccezionali), per cui «Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati» (7).
Va da sé che la decisione in rassegna (a partire dall’impostazione del ragionamento fino alle conclusioni tratte) vale – è scritto a chiare lettere nella motivazione – non solo in campo giuslavoristico, cioè per le opposizioni alle intimazioni di pagamento delle contribuzioni previdenziali, ma anche in campo tributario, cioè per le impugnazioni degli atti tributari (su tutti gli avvisi di accertamento e le cartelle di pagamento). Nell’assimilazione operata dalla Suprema Corte, si verte infatti su un principio che abbraccia «tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via».
Cosicché, ove una cartella di pagamento sia stata «emessa per essere l’accertamento divenuto definitivo a seguito di dichiarazione di estinzione del processo per inattività delle parti, la pronuncia di estinzione del giudizio comporta il venire meno dell’intero processo e, in forza dei principi in materia di impugnazione dell’atto tributario, la definitività dell’avviso di accertamento» (8). Di qui – unicamente – la “irretrattabilità” del credito erariale, cioè il suo definitivo consolidamento, la sua intangibilità (o “cristallizzazione”, come figurativamente si legge nell’ordinanza interlocutoria di trasmissione degli atti al Primo Presidente a fini di rimessione alle Sezioni Unite) (9). Ma nulla più; nulla più di quanto non avvenga nell’eventualità di una spontanea adesione del contribuente al contenuto autoritativo del provvedimento.
Una sentenza di condanna è tutt’altra cosa; e di essa sola parla il legislatore in vista dell’allungamento del termine (10).
Giova a questo punto, per completezza, un succinto riepilogo delle tappe della fattispecie che ha offerto il destro all’attuale riflessione. Orbene, dall’ordinanza di rimessione si apprende che, a maturata definitività di una certa cartella di pagamento, era stata spiccata un’intimazione di pagamento non opposta dal destinatario nei termini di legge; o meglio: la sua opposizione al pagamento era stata dichiarata inammissibile per tardività dal giudice di prime cure. Decisione riformata totalmente dalla Corte d’appello, la quale aveva – correttamente – rilevato che l’opposizione in parola «integrava una opposizione al titolo esecutivo ai sensi dell’art. 615 c.p.c. (11) [si inseriva cioè nella fase esecutiva, non in quella di accertamento ormai alle spalle], facendosi con essa valere un atto estintivo successivo alla notifica del titolo, [atteso che] l’intimazione di pagamento era stata notificata … quando il credito … [come detto, definitivamente accertato] era [irreversibilmente] prescritto per essere decorso un quinquennio dalla notifica della cartella esattoriale». In altre parole: certo e liquido il credito della mano pubblica, stante la pacifica definitività della cartella di pagamento avendo all’epoca il soggetto escusso perso il treno dell’impugnazione (12); credito tuttavia non più esigibile (o meglio: esigibile sì, ma fintantoché il debitore non avesse eccepito la prescrizione) (13), erronea rilevandosi l’obiezione dell’ente creditore secondo la quale «non possa considerarsi più soggetto a prescrizione il diritto, atteso che la prescrizione riguarda soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo definitivamente formatosi, rispetto alla quale, in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio iudicati ai sensi dell’art. 2953 c.c., trova applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario» (14).
Palmare dunque l’impressione che il nodo della querelle risieda tutto qui, nell’identificazione del termine prescrizionale sperimentabile dall’ente creditore: quello breve ad hoc oppure quello ordinario decennale fissato dagli artt. 2946 (15) e 2953 c.c.
La risposta dovrebbe risultare scontata, invece la questione – ripeto: rilevante ai fini tributari per la contiguità con la branca contributiva, con riferimento alla quale è nata – è assurta al rango di «questione di massima di particolare importanza», tanto da postulare un intervento chiarificatore della Corte regolamentatrice, quello di cui stiamo dando conto e che direttamente interessa i cultori del diritto tributario non solo perché il meccanismo di impugnazione degli uni (i contributi) ricalca quello in vigore per l’impugnazione degli altri (i provvedimenti tributari lesivi di cui all’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), ma anche perché comune è la logica che presiede al decorso del tempo, fissato in un arco temporale predefinito; senza dire della scepsi, presente in ambedue i campi, fra decadenza (dall’azione di impugnazione) e prescrizione (del diritto alla rivendicazione del credito).
Oggi l’Adunanza a Sezioni Unite, chiamata ad armonizzare un dissenso che non aveva ragion d’essere, ha spazzato il terreno da ogni (ingiustificata) ombra e scolpito il duplice principio raccolto nelle due massime.
Paradosso nel paradosso è che, alla base del torrenziale fiume di inchiostro sprecato sul tema, si rinviene l’ostinato travisamento in cui una giurisprudenza frettolosa quanto facilona (benché massiccia) è incorsa, in sessione tanto di merito quanto di legittimità (16), sulla scia di una – dicesi una, e una soltanto – pronuncia della Sezione Tributaria (17), la quale, nell’ormai lontano 2004, giudicando su una controversia sorta in materia di IVA, ha innescato l’ambiguità dando «inconsapevolmente inizio» – sono parole testuali delle Sezioni Unite – «alla “disarmonia” di indirizzi menzionata nell’ordinanza di rimessione» (la locuzione “disarmonia” è evidenziata nell’originale, quasi a ulteriore rimprovero della superficialità degli epigoni).
Siamo, una volta di più, scorati testimoni di come il nostro mondo giuridico, non a caso continuamente bacchettato e svilito a livello europeo, riesca nell’impresa, un tantino autocelebrativa, di erigere grandiosi edifici dal nulla. O meglio: da un fraintendimento, come a chiare lettere riconosce oggi il Supremo Consesso; un abbaglio tanto più colpevole perché riconducibile alla mala pianta degli obiter dicta, al novero di quelle affermazioni non richieste (quindi come minimo pleonastiche, comunque pericolose) «eccedenti la necessità logico-giuridica della decisione e come tali non vincolanti» (come a dire: vediamo, cari colleghi, di non uscire dal seminato e non allargarci).
All’origine del malcostume riscontriamo insomma un’unica sentenza. Ove si legge – con espressione quanto meno stringata, senz’altro criptica – che, con l’iscrizione a ruolo, l’Ufficio finanziario dà vita a un titolo esecutivo cui «è sicuramente applicabile il termine prescrizionale di dieci anni previsto dall’art. 2946 c.c.». Peccato che, come oggi sottolineano i Massimi Giudici, tale laconica presa di posizione è, più che apodittica, campata in aria («senza peraltro alcuna specifica spiegazione sul punto e senza alcun riferimento all’actio judicati») (18).
Tornando infine sulla retta via e riassumendo.
Tutte le imposte, tutte le sanzioni tributarie (19) il cui termine prescrizionale sia inferiore ai dieci anni (20) continuano a scontare detto termine anche qualora il provvedimento che contesta le une e/o infligge le seconde sia diventato definitivo per acquiescenza o a seguito di sentenza motivata sulla scorta di una delle più svariate ragioni che la possono innervare: dal riconoscimento (anche ex officio) della tardività dell’impugnazione alla dichiarazione di estinzione del giudizio per rinuncia al gravame, o di cessazione della materia del contendere per parziale autotutela e così via. Fino all’unico, insuperabile baluardo della sentenza passata in giudicato (21) che si sia espressa – perché a ciò invocata, non per obiter dictum – sullo specifico punto. Da qui in avanti il termine utile alla riscossione, se originariamente più breve, si allunga fino al decennio.

Avv. Valdo Azzoni

(1) Come il Lettore avrà modo di percepire, più che al mondo del diritto la dinamica della vicenda sembra ispirarsi a quello della fantasia. Al cinema, per esempio: al film Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock, dove tutta l’aggrovigliata trama prende il via da uno scambio di persona, con Cary Grant che, per sua sfortuna, si alza in piedi mentre il fattorino del Plaza chiama ad alta voce un altro avventore. O alla letteratura, a quella Concessione del telefono di Andrea Camilleri, dove – tardo Ottocento – una banalissima richiesta di allacciamento si imbatte nell’ottusa prepotenza della burocrazia e così, passando di equivoco in equivoco, conosce una conclusione tragica, anzi tragicissima (appena temperata dalla leggerezza, peraltro amara, dell’Autore).
(2) Art. 2946 c.c. (Prescrizione ordinaria): «Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni». Da ricordare, per gli immediati riflessi dispiegati nella vertenza de qua, l’art. 2948 c.c. (Prescrizione di cinque anni): «Si prescrivono in cinque anni: … 4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
(3) Art. 1173 c.c. (Fonti delle obbligazioni): «Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico».
(4) Aggiunge il comma successivo, il decimo: «I termini di prescrizione di cui al comma 9 si applicano anche alle contribuzioni relative a periodi precedenti la data di entrata in vigore della presente legge, fatta eccezione per i casi di atti interruttivi già compiuti o di procedure iniziate nel rispetto della normativa preesistente. Agli effetti del computo dei termini prescrizionali non si tiene conto della sospensione prevista dall’articolo 2, comma 19, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, fatti salvi gli atti interruttivi compiuti e le procedure in corso».
(5) Opportunamente l’annotata sentenza esplicita, fra gli altri, l’istituto dello «avviso di accertamento esecutivo, che dal 1° ottobre 2011 ha in parte sostituito la cartella esattoriale per i crediti erariali ed è stato poi esteso ai crediti dell’Agenzia delle dogane: vedi, rispettivamente, gli artt. 30 e 29 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge n. 212 del 2010».
(6) «Ne consegue l’inapplicabilità alla fattispecie, caratterizzata dalla [dichiarazione di estinzione del processo per inattività delle parti e quindi dalla] mancanza di una sentenza di condanna, dei principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza invocata a conforto (n. 25790/2009), la quale ha sancito l’applicabilità della prescrizione nel termine di dieci anni del diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato, per diretta applicazione dell’art. 2953 c.c., disciplinante specificamente e in via generale la cosiddetta actio iudicati» (Cass., sez. trib., 6 marzo 2015, n. 4574, in Boll. Trib. On-line). Sul precedente appena evocato (Cass., sez. un., 10 dicembre 2009, n. 25790, ivi) si tornerà più avanti (v. infra, sub nota 19).
(7) Con il corredo – chiarificatore e restrittivo – dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile (Interpretazione della legge): «1. Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. 2. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato».
(8) Cass. n. 4574/2015, cit.
(9) Cass., sez. lav., 29 gennaio 2016, ord. n. 1799, in Boll. Trib. On-line.
(10) Certo non ha aiutato la creazione della categoria metalegislativa dei cosiddetti «titoli esecutivi paragiudiziali», ovverosia atti amministrativi perequabili nei fini e negli effetti alle sentenze passate in giudicato. Categoria di cui, francamente, non si avvertiva il bisogno.
(11) Art. 615 c.p.c. (Forma dell’opposizione): «1. Quando si contesta il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata e questa non è ancora iniziata, si può proporre opposizione al precetto con citazione davanti al giudice competente per materia o valore e per territorio a norma dell’articolo 27. Il giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo. Se il diritto della parte istante è contestato solo parzialmente, il giudice procede alla sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo esclusivamente in relazione alla parte contestata. 2. Nell’esecuzione per espropriazione l’opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli articoli 530, 552, 569, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero l’opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile. 3. Quando è iniziata l’esecuzione, l’opposizione di cui al comma precedente e quella che riguarda la pignorabilità dei beni si propongono con ricorso al giudice dell’esecuzione stessa. Questi fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé e il termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto».
(12) In materia di contribuzioni, terreno di indagine nella dinamica concreta scrutinata dalla sentenza massimata, vige l’art. 24 (Iscrizioni a ruolo dei crediti degli enti previdenziali) del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’art. 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), comma 5: «Contro l’iscrizione a ruolo il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Il ricorso va notificato all’ente impositore ed al concessionario». Precetto «finalizzato a rendere non più contestabile dal debitore il credito … in caso di omessa tempestiva impugnazione e a consentire così una rapida riscossione del credito medesimo» (Cass., sez. lav., 15 marzo 2016, n. 5060, in Boll. Trib. On-line). Nel rito tributario, l’omologo va individuato nell’art. 18 (Il ricorso) del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.
(13) Art. 2938 c.c. (Non rilevabilità d’ufficio): «Il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta».
(14) Formula mutuata – artatamente – da Cass. n. 5060/2016, cit. Di cui però la difesa della mano pubblica ha trascurato pro domo sua di richiamare il non indifferente inciso: «in difetto di diverse disposizioni». Disposizioni che ci sono e che cambiano radicalmente il panorama giuridico. Da tener presente che il dies a quo della prescrizione decennale da actio iudicati va individuato – ai fini dell’art. 2935 (Decorrenza della prescrizione) c.c. («La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere») – nel giorno del passaggio in giudicato della sentenza (cfr. Cass., sez. III, 10 luglio 2014, n. 15765, in Boll. Trib. On-line).
(15) Art. 2946 c.c. (Prescrizione ordinaria): «Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni».
(16) Che tutt’ora si protrae: si veda, da ultimo, Cass., sez. trib., 9 agosto 2016, n. 16713, citata anche dall’annotata, di prossima pubblicazione su questa Rivista.
(17) Cass., sez. trib., 26 agosto 2004, n. 17051, in Boll. Trib., 2005, 229.
(18) Ben diversa l’attendibilità di Cass., sez. trib., 9 febbraio 2007, n. 2941, in Boll. Trib. On-line, la quale afferma a sua volta, sempre in materia di IVA, come il credito erariale per la riscossione del tributo sia soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale. Facendo però rinvio all’art. 2946 c.c. e sul presupposto per cui «nessuna norma stabilisce un termine di prescrizione più breve».
(19) Cfr. Cass. n. 25790/2009, cit., per cui: «Il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste per le violazioni tributarie, irrogate con sentenza passata in giudicato, si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 c.c., che disciplina specificamente e in via generale la cosiddetta actio iudicati».
(20) Fra le disposizioni che hanno fornito argomento di dibattito nelle decisioni citate nello scritto: – art. 20 (Decadenza e prescrizione) del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’art. 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662): «1. L’atto di contestazione di cui all’articolo 16, ovvero l’atto di irrogazione, devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi. Entro gli stessi termini devono essere resi esecutivi i ruoli nei quali sono iscritte le sanzioni irrogate ai sensi dell’articolo 17, comma 3. 2. Se la notificazione è stata eseguita nei termini previsti dal comma 1 ad almeno uno degli autori dell’infrazione o dei soggetti obbligati in solido, il termine è prorogato di un anno. 3. Il diritto alla riscossione della sanzione irrogata si prescrive nel termine di cinque anni. L’impugnazione del provvedimento di irrogazione interrompe la prescrizione, che non corre fino alla definizione del procedimento»; – art. 76 (Decadenza dell’azione della finanza) del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro): «1. L’imposta sugli atti soggetti a registrazione ai sensi dell’art. 5 non presentati per la registrazione deve essere richiesta, a pena di decadenza, nel termine di cinque anni dal giorno in cui, a norma degli artt. 13 e 14, avrebbe dovuto essere richiesta la registrazione o, a norma dell’art. 15, lettere c), d) ed e), si è verificato il fatto che legittima la registrazione d’ufficio. Nello stesso termine, decorrente dal giorno in cui avrebbero dovuto essere presentate, deve essere richiesta l’imposta dovuta in base alle denunce prescritte all’art. 19. 1-bis. L’avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta di cui all’art. 52, comma 1, deve essere notificato entro il termine di decadenza di due anni dal pagamento dell’imposta proporzionale. 2. Salvo quanto disposto nel comma 1-bis, l’imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni decorrenti, per gli atti presentati per la registrazione o registrati per via telematica: a) dalla richiesta di registrazione, se si tratta di imposta principale; b) dalla data in cui è stata presentata la denuncia di cui all’art. 19, se si tratta di imposta complementare: dalla data della notificazione della decisione delle commissioni tributarie ovvero dalla data in cui la stessa è divenuta definitiva nel caso in cui sia stato proposto ricorso avverso l’avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta. Nel caso di occultazione di corrispettivo di cui all’art. 72, il termine decorre dalla data di registrazione dell’atto; c) dalla data di registrazione dell’atto ovvero dalla data di presentazione della denuncia di cui all’art. 19, se si tratta di imposta suppletiva. 2-bis. Salvo quanto previsto nei commi 1 e 2, l’imposta relativa alle annualità successive alla prima, alle cessioni, risoluzioni e proroghe di cui all’art. 17, nonché le connesse sanzioni e gli interessi dovuti, sono richiesti, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di scadenza del pagamento. 3. L’avviso di liquidazione dell’imposta deve essere notificato al contribuente nei modi stabiliti nel comma 3 dell’art. 52. 4. La soprattassa e la pena pecuniaria devono essere applicate, a pena di decadenza, nel termine stabilito per chiedere l’imposta cui le stesse si riferiscono e, se questa non è dovuta, nel termine di cinque anni dal giorno in cui è avvenuta la violazione. 5. L’intervenuta decadenza non dispensa dal pagamento dell’imposta in caso di registrazione volontaria o quando si faccia uso dell’atto ai sensi dell’art. 6»; – art. 17 (Termini di decadenza per l’iscrizione a ruolo) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), di poi abrogato: «1. Le somme dovute dai contribuenti sono iscritte in ruoli resi esecutivi a pena di decadenza: a) entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione prevista dall’art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; b) entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di controllo formale prevista dall’art. 36-ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; c) entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo, per le somme dovute in base agli accertamenti dell’ufficio»; – art. 57 (Termine per gli accertamenti) del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto): «1. Gli avvisi relativi alle rettifiche e agli accertamenti previsti nell’art. 54 e nel secondo comma dell’art. 55 devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. 2. Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla l’avviso di accertamento dell’imposta a norma del primo comma dell’art. 55 può essere notificato entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. 3. Nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione annuale, se tra la data di notifica della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data della loro consegna intercorre un periodo superiore a quindici giorni, il termine di decadenza, relativo agli anni in cui si è formata l’eccedenza detraibile chiesta a rimborso, è differito di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno e la data di consegna. 4. Fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti le rettifiche e gli accertamenti possono essere integrati o modificati, mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell’Agenzia delle entrate. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio dell’imposta sul valore aggiunto».
(21) Art. 324 c.p.c. (Cosa giudicata formale): «S’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395» c.p.c.

Imposte e tasse – Riscossione – Prescrizione – La scadenza del termine perentorio per impugnare un atto di riscossione determina solo l’irretrattabilità del credito, ma non anche la conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale – Art. 2953 c.c. – Si applica solo in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo.

Imposte e tasse – Riscossione – Prescrizione – Scadenza del termine perentorio per impugnare un atto di riscossione di crediti contributivi o tributari – Effetti – Irretrattabilità del credito – Consegue – Conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale – Non si verifica.

È di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c., e tale principio si applica pertanto con riguardo a tutti gli atti, comunque denominati, di riscossione mediante ruolo o, comunque, di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via, con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione sostanziale più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo.

La scadenza del termine perentorio sancito per proporre opposizione alla cartella di pagamento di cui all’art. 24, quinto comma, del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c., atteso che tale ultima disposizione si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella di pagamento, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato.

[Corte di Cassazione, sez. un. (Pres. Rordorf, rel. Tria), 17 novembre 2016, sent. n. 23397, ric. I.N.P.S. – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. Con sentenza del 28 ottobre 2009 il Tribunale di Catania dichiarò inammissibile per tardività – in quanto proposta oltre il termine di quaranta giorni dalla notifica di cui all’art. 24, comma 5, del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 – l’opposizione all’esecuzione di A.M. avverso l’intimazione di pagamento relativa a cartella esattoriale notificatagli il 31 agosto 2001 per omesso pagamento di contributi previdenziali della gestione commercianti INPS negli anni 1993, 1995, 1996 e 1998.
2. La Corte di appello di Catania, con la sentenza attualmente impugnata, ha riformato tale decisione dichiarando prescritto il credito vantato dall’INPS con la cartella di pagamento suddetta.
A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta sulla base dei seguenti principali rilievi:
a) l’appellante sostiene che, diversamente da quanto affermato dal primo giudice – che ha considerato l’opposizione inammissibile perché proposta oltre il termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica, di cui all’art. 24, comma 5, del D.Lgs. n. 46 del 1999, – la domanda azionata deve essere qualificata come opposizione all’esecuzione, proponibile senza limiti di tempo ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avendo con essa l’interessato fatto valere un atto estintivo successivo alla notifica del titolo, consistente nella sopravvenuta prescrizione del credito;
b) infatti, anche a voler considerare valida la notifica della cartella di pagamento (avvenuta il 31 agosto 2001) – superando la tesi dell’appellante secondo cui il titolo esecutivo costituito dalla cartella di pagamento avrebbe perso efficacia dopo l’infruttuoso decorso di un anno dalla relativa notifica – comunque, al momento della notifica dell’intimazione di pagamento, il credito contributivo vantato dall’INPS era prescritto;
c) invero, è pacifico che l’intimazione di pagamento sia stata notificata in data 27 maggio 2008, sicché all’epoca il credito contributivo vantato dall’INPS era sicuramente prescritto a causa dell’avvenuto decorso del quinquennio dalla notifica della cartella esattoriale (avvenuta, si ribadisce, il 31 agosto 2001), senza il compimento di alcun atto interruttivo da parte del “concessionario della riscossione”;
d) com’è noto, a norma dell’art. 3, comma 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, il termine prescrizionale per il versamento dei contributivi previdenziali, prima decennale, è ritornato quinquennale a partire dal gennaio 1996, ma il successivo comma 10 dell’art. 3 cit. ha fatto salva la permanenza del termine decennale per le contribuzioni relative agli anni precedenti, nel caso di atti interruttivi già compiuti e/o di procedure di recupero iniziate dall’Istituto previdenziale nel rispetto della normativa preesistente, evenienza che qui non si verifica;
e) la cartella esattoriale, pur avendo le caratteristiche di un titolo esecutivo, resta un atto amministrativo privo dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato, il che significa che la decorrenza del termine per l’opposizione, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, mentre non determina alcun effetto processuale, sicché non può trovare applicazione l’art. 2953 cod. civ. ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve (quinquennale) in quello ordinario decennale.
3. Avverso tale sentenza l’INPS, in proprio e quale mandatario della SCCI s.p.a., ha proposto, per un unico motivo, ricorso per cassazione illustrato da memoria.
A.M. e la SERIT SICILIA s.p.a. sono rimasti intimati.
L’Istituto ricorrente – senza contestare la qualificazione della domanda azionata, effettuata dalla Corte d’appello come opposizione all’esecuzione, proponibile senza limiti di tempo ai sensi dell’art. 615 c.p.c. – sostiene che la pacifica mancanza di tempestiva opposizione alla cartella di pagamento avrebbe determinato l’intangibilità della pretesa contributiva, con la conseguenza che il relativo diritto non potrebbe più ritenersi assoggettato alla prescrizione quinquennale, potendo prescriversi soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo definitivamente formatosi. E rispetto a tale azione, secondo quanto previsto per l’“actio judicati” dall’art. 2953 cod. civ., troverebbe applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario, nella specie non ancora decorso, in data 27 maggio 2008, quando è stata effettuata la notifica dell’intimazione di pagamento (si citano: Cass. 24 febbraio 2014, n. 4338 e la giurisprudenza ivi richiamata).
4. A seguito di contraddittorio camerale – ai sensi degli artt. 380-bis, 376 e 375 c.p.c. – la Sesta Sezione civile, con ordinanza 29 gennaio 2016, n. 1799 (1), avendo riscontrato nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione delle “disarmonie” sulla determinazione dell’ambito di applicabilità dell’art. 2953 cod. civ., con riferimento alla riscossione mediante ruolo di diversi tipi di crediti, rispettivamente degli enti previdenziali, oppure per sanzioni amministrative pecuniarie e/o per violazioni di norme tributarie e così via, ha sollecitato la rimessione della questione alle Sezioni Unite, qualificandola come una questione sia di massima di particolare importanza, anche per il cospicuo contenzioso in corso che ne è interessato.
5. Il ricorso è stato perciò assegnato alle Sezioni Unite e discusso all’odierna udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. La questione sulla quale queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi investe l’interpretazione da dare all’art. 2953 cod. civ., con riguardo specifico all’operatività o meno della ivi prevista conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, nelle fattispecie originate da atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via.
In particolare dall’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione civile n. 1799 del 2016 risulta che si tratta di stabilire se la suddetta disposizione codicistica sia applicabile anche nelle ipotesi in cui la definitività dell’accertamento del credito derivi da atti diversi rispetto ad una sentenza passata in giudicato.
Nel presente giudizio il problema da risolvere è se la decorrenza del termine pacificamente perentorio – per fare opposizione alla cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione – produca soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito oppure determini anche l’effetto di rendere applicabile l’art. 2953 cod. civ., ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve (quinquennale secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995,) in quello ordinario decennale.
2. Ovviamente la soluzione di tale problema va coordinata con gli indirizzi espressi da questa Corte con riguardo all’ambito di operatività della suddetta norma in tutte le fattispecie di crediti riscossi mediante ruolo o comunque coattivamente (ad esempio con: l’avviso di addebito dell’INPS, che dal 1° gennaio 2011 ha preso il posto della cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di questo Istituto; oppure con l’avviso di accertamento esecutivo, che dal 1° ottobre 2011, ha in parte sostituito la cartella esattoriale per i crediti erariali ed è stato poi esteso ai crediti dell’Agenzia delle dogane: vedi, rispettivamente artt. 30 e 29 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge n. 122 del 2010).
Infatti, pur essendo l’art. 24 cit. – laddove attribuisce agli enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo (il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio, in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza – una norma innovativa per il sistema previdenziale dell’epoca, esso comunque non ha fatto altro che attribuire alla cartella di pagamento ivi prevista effetti propri di altri analoghi titoli previsti già in altri ambiti, effetti che sono stati poi attribuiti anche ai titoli introdotti dal suindicato D.L. n. 78 del 2010.
3. Come illustrato anche dalla presente ordinanza di rimessione della Sesta Sezione civile, con riguardo all’ambito applicativo dell’art. 2953 cod. civ., nelle fattispecie originate da atti di riscossione coattiva sono stati espressi da questa Corte sostanzialmente due orientamenti – sembrerebbe inconsapevolmente – non coincidenti.
4. Secondo l’orientamento maggioritario e di origine più remota in base all’art. 2953 cod. civ., si può verificare la conversione della prescrizione da breve a decennale soltanto per effetto di sentenza passata in giudicato, oppure di decreto ingiuntivo che abbia acquisito efficacia di giudicato formale e sostanziale (vedi, per tutte: Cass. 24 marzo 2006, n. 6628; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1650; Cass. 29 febbraio 2016, n. 3987) o anche di decreto o di sentenza penale di condanna divenuti definitivi (ove si tratti di fattispecie anche penalmente rilevanti).
In particolare per la riscossione coattiva dei crediti la suddetta norma è considerata applicabile esclusivamente quando il titolo sulla base del quale viene intrapresa la riscossione non è più l’atto amministrativo, ma un provvedimento giurisdizionale divenuto definitivo (vedi: Cass. 3 gennaio 1970, n. 1; Cass. 22 dicembre 1989, n. 5777; Cass. 10 marzo 1996, n. 1965; Cass. 11 marzo 1996, n. 1980).
5. Per tale indirizzo l’atto con cui inizia il procedimento di riscossione forzata, qualunque sia il credito cui si riferisce – quindi, sia che attenga al pagamento di tributi oppure di contributi previdenziali, sia che si riferisca a sanzioni pecuniarie per violazioni tributarie o amministrative e così via – pur avendo natura di atto amministrativo con le caratteristiche del titolo esecutivo (ed eventualmente anche del precetto, come accade per la cartella di pagamento de qua), tuttavia è privo di attitudine ad acquistare efficacia di giudicato perché è espressione del potere di autoaccertamento e di autotutela della P.A. Pertanto, l’inutile decorso del termine perentorio per proporre l’opposizione, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, di diritto pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 cod. civ., ai fini della prescrizione (vedi, tra le tante: Cass. 25 maggio 2007, n. 12263; Cass. 16 novembre 2006, n. 24449; Cass. 26 maggio 2003, n. 8335 (2)).
6. Nella sentenza di queste Sezioni Unite 10 dicembre 2009, n. 25790 (3) – nella quale si trattava di stabilire se l’art. 2953 cod. civ., potesse trovare applicazione soltanto in caso di sentenza passata in giudicato pronunciata in giudizi aventi ad oggetto l’obbligazione tributaria o anche in presenza di giudicato su ricorsi avverso provvedimenti di irrogazione di sanzioni tributarie amministrative – è stato affermato che “il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste per la violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 cod. civ., che disciplina specificamente ed in via generale la cosiddetta actio judicati, mentre, se la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile vale il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dall’art. 20 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, atteso che il termine di prescrizione entro il quale deve essere fatta valere l’obbligazione tributaria principale e quella accessoria relativa alle sanzioni non può che essere di tipo unitario”.
A tale principio – che, come si è detto, tradizionalmente era già stato affermato dalla prevalente giurisprudenza in materia di crediti dell’Amministrazione finanziaria per tributi e sanzioni – si è uniformata la gran parte della giurisprudenza successiva in tale ambito materiale (vedi, per tutte: Cass. 12 marzo 2010, n. 6077 (4); Cass., Sez. 5, 11 marzo 2011 n. 5837; Cass. 13 luglio 2012, n. 11949 (5); Cass. 6 luglio 2012, n. 11380 (6); Cass. 5 aprile 2013, n. 8380 (7); Cass. 19 luglio 2013, n. 17669 (8); Cass. 11 dicembre 2013, n. 27674 (9); Cass. 17 gennaio 2014, n. 842 (10); Cass. 23 ottobre 2015, n. 21623 (11) e di recente: Cass. 13 giugno 2016, n. 12074 (12)).
7. Anche con riguardo ai crediti derivanti da omissioni e/o evasioni di contributi previdenziali, per più di trent’anni, quando tali fattispecie erano penalmente rilevanti – a partire da Cass. 1° marzo 1956, n. 623 – è stato affermato il principio secondo cui in caso di condanna con decreto o con sentenza penale per il mancato o ritardato versamento dei contributi assicurativi il diritto dell’INPS al recupero delle somme ivi indicate non è più soggetto alla prescrizione quinquennale di cui all’art. 55 del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, – nel testo antecedente l’art. 41 della legge 30 aprile 1969, n. 153, – ma, ai sensi dell’art. 2953 cod. civ., alla prescrizione ordinaria decennale, soltanto dopo che il suddetto provvedimento giurisdizionale sia diventato definitivo (vedi, tra le tante: Cass. 17 giugno 1974, n. 1794; Cass. 10 aprile 1979, n. 2085; Cass. 5 luglio 1980, n. 4320; Cass. 9 giugno 1981, n. 3733; Cass. 28 luglio 1983, n. 5195).
8. Dopo la disposta depenalizzazione delle suddette fattispecie, ad opera della legge 24 novembre 1981, n. 689, la giurisprudenza della Sezione Lavoro (vedi, fra le prime: Cass. 14 dicembre 1990, n. 11884; Cass. 24 marzo 1992, n. 3651; Cass. 20 gennaio 1993, n. 684; Cass. 14 giugno 1994, n. 5758) ha affermato che, per effetto del nuovo assetto, agli enti previdenziali è stata data la possibilità di avvalersi per il recupero – anche disgiunto – di contributi, premi, sanzioni civili e sanzioni amministrative, di uno strumento unitario rappresentato, alternativamente, dall’ordinanza-ingiunzione (provvedimento tipico per l’irrogazione e la riscossione della sanzione amministrativa, utilizzato anche per la riscossione dei contributi evasi e delle somme aggiuntive) oppure dal decreto ingiuntivo (strumento tipico per il recupero dei crediti civilistici, utilizzato anche per l’irrogazione e la riscossione della sanzione amministrativa) o ancora (dopo il 1989) dall’ingiunzione prevista dal R.D. 14 aprile 1910, n. 639 (provvedimento amministrativo tipico per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici utilizzabile anche per la riscossione dei crediti previdenziali, nei limiti già consentiti dalla previgente disciplina).
Sicché, anche prima che la questione fosse esaminata dalla sentenza di queste Sezioni Unite 23 giugno 1993, n. 6954, nella giurisprudenza della Sezione Lavoro era, sia pure implicitamente, del tutto pacifico il principio secondo cui l’ordinanza-ingiunzione di pagamento delle sanzioni pecuniarie è un provvedimento amministrativo e non giurisdizionale e, pertanto, si differenzia nettamente dal decreto ingiuntivo (Cass., Sezione Prima, 12 novembre 1992, n. 12189; Id. 22 maggio 1993, n. 5788; Id. 9 novembre 1993, n. 11059; Id. 1° luglio 1995, n. 733).
Il suddetto indirizzo, del resto, è tuttora incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass., Sezione Prima, 1 aprile 2004, n. 6362; Cass., Sezione Seconda, 27 luglio 2012, n. 13516).
9. Questa è la cornice nella quale vanno inserite anche le sentenze della Sezione Lavoro nelle quali, per la prima volta, è stata individuata la categoria dei “c.d. titoli esecutivi paragiudiziali” – accanto a quella dei titoli giudiziali – aventi l’attitudine a diventare, in caso di mancata opposizione o di opposizione proposta fuori termine, definitivi e incontrovertibili (vedi: Cass. 24 settembre 1991, n. 9944; Cass. 2 ottobre 1991, n. 10269; Cass. 26 ottobre 1991, n. 11421, in motivazione).
Deve essere, peraltro, sottolineato che in tutte e tre le suindicate sentenze la Corte ha affrontato la questione relativa agli effetti da attribuire all’ordinanza-ingiunzione per crediti previdenziali maturati anteriormente all’apertura di una procedura fallimentare (o concorsuale in genere).
Pertanto, nelle relative motivazioni, la suddetta affermazione risulta chiaramente funzionale alla conclusione della equiparazione del trattamento da riservare alla situazione sub judice – ordinanza-ingiunzione irrogativa di una sanzione amministrativa, inerente a una infrazione posta in essere dal debitore in epoca anteriore al proprio fallimento – rispetto a quello da applicare ad un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo emanato in costanza di fallimento per crediti antecedenti.
In questi termini si rilevava la “sostanziale identità” fra i due suindicati titoli, identità che, peraltro, veniva espressamente riferita alla incontrovertibilità sostanziale del credito, senza alcun richiamo dell’art. 2953 cod. civ.
10. Poco dopo, con specifico riferimento alla cartella esattoriale di pagamento relativa alla riscossione di contributi previdenziali, Cass., Sezione Lavoro, 11 agosto 1993, n. 8624 (richiamando Cass. 20 gennaio 1993, n. 684 cit.) ha affermato che tale cartella emessa ai sensi dell’art. 2 del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito in legge n. 389 del 1989 – nel testo all’epoca vigente, antecedente le modifiche di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999 – è un titolo esecutivo che diviene definitivo in caso di omessa opposizione o di opposizione tardiva, in quanto proposta dopo la scadenza del termine “e tale dichiarata dal giudice” a conclusione del relativo giudizio.
Nella relativa motivazione la Corte confermava il precedente orientamento (di cui a Cass. 24 settembre 1991, n. 9944, e Cass. 2 ottobre 1991, n. 10269), secondo cui non soltanto i titoli esecutivi giudiziali o “a formazione giudiziale” sono “passibili di diventare definitivi, e cioè incontrovertibili con effetti analoghi al giudicato, in caso di mancata opposizione o di opposizione proposta fuori termine”, essendo stati da tempo individuati dalla richiamata giurisprudenza i c.d. titoli paragiudiziali, in considerazione delle leggi speciali con le quali, in diverse materie, il legislatore ha consentito agli organi della pubblica amministrazione di ordinare ai privati, mediante ingiunzioni, il pagamento di somme di denaro (si citavano per le omissioni contributive previdenziali il R.D. 14 aprile 1910, n. 639, e la legge 24 novembre 1981, n. 689, che regola peraltro il più generale conteso delle c.d. sanzioni amministrative).
Con riguardo a tali ultimi titoli si specificava che per essi, al pari di quanto accade per quelli giudiziali, è previsto un termine perentorio per la relativa opposizione davanti al giudice ordinario, “con la conseguenza che i medesimi diventano definitivi in caso o di omessa opposizione o di opposizione tardiva, in quanto proposta dopo la scadenza del termine e tale dichiarata dal giudice a conclusione del relativo giudizio”.
11. Come può notarsi, tale ultima sentenza non ha detto nulla di diverso rispetto a quelle precedenti e si è limitata a ribadire che una volta scaduto inutilmente il termine perentorio per proporre opposizione avverso un c.d. titolo paragiudiziale – come la cartella esattoriale – il titolo diviene definitivo e il diritto di credito incontestabile.
Peraltro, come si evince chiaramente dall’espresso riferimento alla conclusione del giudizio sulla opposizione, la contemplata “definitività” del titolo era riferita esclusivamente – e in linea con l’indirizzo tradizionale – al diritto sostanziale, senza minimamente toccare la questione della conversione della prescrizione ex art. 2953 cod. civ.
Così, del resto, la sentenza è stata intesa dalla maggior parte della successiva giurisprudenza sia della Sezione Lavoro sia della Sezione Tributaria (vedi per tutte: Cass., Sezione Lavoro, 29 agosto 1995 n. 9119; Id. 18 giugno 2004, n. 11426; Id. 27 febbraio 2007, n. 4506; Id. 25 giugno 2007, n. 14692; Id. 1° luglio 2008, n. 17978; Id. 24 marzo 2010, n. 13262; Cass. Sez. 5^, 28 gennaio 2005, n. 1793).
La stessa impostazione si rinviene in Cass. 14 ottobre 2009, n. 21790 ove viene usata la medesima terminologia della sentenza n. 8624 del 1993 cit. e ci si limita a precisare che la conseguenza della perentorietà del termine di cui all’art. 24 del D.Lgs. n. 46 del 1999, è che, in tema di contributi previdenziali, per contestare il ruolo è necessaria l’opposizione da parte dell’interessato nel termine stesso, poiché, in caso contrario, il titolo diviene definitivo e il diritto alla relativa pretesa contributiva incontestabile (sempre in ambito sostanziale).
Nella stessa ottica si pongono anche alcune sentenze in cui si ricorda il consolidato indirizzo che, pure per le iscrizioni a ruolo delle imposte dirette o indirette, ha riconosciuto l’esistenza della categoria dei titoli esecutivi formati sulla base di un mero procedimento amministrativo dell’ente impositore (in questo senso: Cass., Sezione Lavoro, 9 febbraio 2010, n. 7667; Id. 14 giugno 2010, n. 14195).
12. Va anche precisato che tale impostazione non risulta smentita dalle sentenze della Sezione Tributaria nelle quali – specialmente in tema di IVA (Cass. 12 novembre 2010, n. 22977 (13); Cass. 9 febbraio 2007, n. 2941 (14); Cass. 8 settembre 2004, n. 18110 (15)) e in materia di tassa automobilistica (Cass. 15 gennaio 2014, n. 701 (16)) – è stato sottolineato che il credito erariale per la riscossione dell’imposta, a seguito di accertamento divenuto definitivo per mancata impugnazione o sulla base di sentenza passata in giudicato, è soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 cod. civ., decorrente, ai sensi dell’art. 2935 cod. civ., dal momento in cui il “credito diventa esigibile, e cioè dalla data in cui l’accertamento diviene definitivo per mancata impugnazione”.
In tali pronunce, infatti, il suddetto principio risulta affermato al fine di individuare il regime prescrizionale da applicare, in diritto sostanziale, ed escludere l’applicabilità al credito erariale per la riscossione dell’imposta a seguito di accertamento divenuto definitivo del termine di prescrizione quinquennale previsto – “per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” – dall’art. 2948 n. 4, cod. civ. ovvero di termini decadenziali ancora più brevi (come, ad esempio, quello stabilito dall’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).
Ma non risulta esservi alcun riferimento all’art. 2953 cod. civ. e all’actio judicati.
13. Ebbene, alla luce della presente disamina, può dirsi che una delle sentenze della Sezione Tributaria, nelle quali è stato ribadito il suddetto orientamento, abbia inconsapevolmente dato l’inizio alla “disarmonia” di indirizzi menzionata nella presente ordinanza di rimessione.
Si tratta della sentenza della Sezione 5^ 26 agosto 2004, n. 17051 (17), nella quale – in una controversia relativa ad un caso di iscrizione a ruolo per l’IVA – la Corte si è limitata ad affermare espressamente che per effetto della iscrizione “l’Ufficio forma un titolo esecutivo al quale è sicuramente applicabile il termine prescrizionale di dieci anni previsto dall’articolo 2946 del codice civile”, senza peraltro alcuna specifica spiegazione sul punto e senza alcun riferimento all’actio judicati.
14. È, infatti, accaduto che la Sezione Lavoro, a partire da Cass. 24 febbraio 2014, n. 4338, facendo principale riferimento a tale sentenza n. 17051 del 2004 abbia affermato il principio secondo cui: “una volta divenuta intangibile la pretesa contributiva per effetto della mancata proposizione dell’opposizione alla cartella esattoriale (come avvenuto nel caso di specie), non è più soggetto ad estinzione per prescrizione il diritto alla contribuzione previdenziale di che trattasi e ciò che può prescriversi è soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi, riguardo alla quale, in difetto di diverse disposizioni (e in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio judicati ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.), trova applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 cod. civ.”.
Nella successiva Cass., Sez. Lav., 8 giugno 2015, n. 11749 è stato ribadito che il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento per proporre opposizione di cui all’art. 24 cit., deve ritenersi perentorio, perché diretto a rendere non più contestabile dal debitore il credito contributivo dell’ente previdenziale in caso di omessa tempestiva impugnazione ed a consentire così una rapida riscossione del credito medesimo (vedi, ex plurimis Cass. 25 giugno 2007, n. 14692; Cass. 12 marzo 2008, n. 6674; Cass. 5 febbraio 2009, n. 2835; Cass. 19 aprile 2011, n. 8931). Conseguentemente, per effetto della mancata proposizione dell’opposizione alla cartella esattoriale la pretesa contributiva diviene intangibile e il diritto alla contribuzione previdenziale non è più soggetto ad estinzione per prescrizione, potendo prescriversi “soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi”, nel termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 cod. civ., in difetto di diverse disposizioni e “in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio judicati ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.” (si citano: Cass. 26 agosto 2004, n. 2004, recte n. 17051, nonché Cass. 24 febbraio 2014, n. 4338).
Va, peraltro, precisato che, in entrambe le suddette sentenze, l’affermazione del suindicato principio rappresenta un “obiter dictum” eccedente la necessità logico giuridica della decisione e come tale non vincolante (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1815).
Infatti, nella sentenza n. 4338 del 2014 la Corte ha espressamente dichiarato di non essere chiamata a pronunciarsi sulla prescrizione, mentre nella sentenza n. 11749 del 2015 la Corte ha precisato che, nella fattispecie esaminata, l’operatività del termine breve quinquennale, almeno per il credito per i contributi, era ormai coperta da giudicato, avendo la Corte territoriale ritenuto inapplicabile, ai fini della prescrizione decennale, l’art. 2953 cod. civ.
15. Più di recente la Corte, in Cass., Sez. Lav., 15 marzo 2016, n. 5060 (18) – questa volta in un giudizio analogo all’attuale in cui era in contestazione la questione degli effetti della mancata tempestiva proposizione dell’opposizione alla cartella di pagamento per contributi omessi sulla prescrizione del credito alla contribuzione previdenziale dell’Istituto – ha ribadito il principio (richiamando le sentenze n. 17051 del 2004, n. 4338 del 2014 e n. 11749 del 2015 citate) che, nel caso di mancata e/o tardiva proposizione di opposizione a cartella esattoriale, la pretesa contributiva previdenziale ad essa sottesa diviene intangibile e non più soggetta ad estinzione per prescrizione, potendo prescriversi soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi, riguardo alla quale, in difetto di diverse disposizioni (e in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio judicati ai sensi dell’art. 2953 cod. civ.), trova applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 cod. civ.
Ed ha aggiunto che ciò deriva dalla perentorietà da riconoscere al termine previsto dall’art. 24 cit., che è finalizzata a rendere non più contestabile dal debitore il credito contributivo dell’ente previdenziale, in caso di omessa tempestiva impugnazione e a consentire così una rapida riscossione del credito medesimo (si citano Cass., Sezione Lavoro, n. 14692 del 2007; Id. n. 17978 del 2008; Id. n. 2835 del 2009; Id. 19 aprile 2011, n. 8931).
16. A quanto si è detto consegue che quest’ultima è l’unica pronuncia in cui certamente ed efficacemente è stata affermata in modo vincolante l’applicabilità dell’art. 2953 cod. civ., alla cartella di pagamento divenuta definitiva perché non opposta nel termine perentorio.
Infatti, nelle suindicate pronunce in cui si fa riferimento alla categoria dei “titoli paragiudiziali” e in quelle che le richiamano non viene mai menzionata l’actio judicati e, anzi, dal loro contenuto complessivo, si evince chiaramente che il suddetto riferimento è fatto per finalità diverse dalla prescrizione e senza alcuna intenzione di far derivare dalla riconosciuta natura paragiudiziale di alcuni titoli, il conferimento ad essi della natura giurisdizionale, visto che si richiama espressamente la necessaria presenza di una pronuncia giurisdizionale.
D’altra parte, neppure nelle pronunce della Sezione Tributaria – del tipo della sentenza n. 17051 del 2004, cui ha fatto riferimento la sentenza n. 4338 del 2014 della Sezione Lavoro, seguita dalle sentenze della stessa Sezione n. 11749 del 2015 e n. 5060 del 2016 – in cui si menziona l’art. 2946 cod. civ., vi è alcun richiamo all’actio judicati, essendo piuttosto in esse esaminata la questione dell’individuazione del regime prescrizionale sostanziale per la riscossione, come è confermato anche dalla più recente giurisprudenza della Sezione Tributaria (vedi, tra le altre: Cass., Sez. V, 30 giugno 2016, n. 13418; Id. 9 agosto 2016, n. 16713 (19)).
17. Tutto questo porta a concludere che la “disarmonia” che si è creata nell’ambito della giurisprudenza poggia su un equivoco derivante dalla erronea determinazione del contenuto della sentenza n. 17051 del 2004 cit., trascinatasi per inerzia nel tempo, senza alcun particolare approfondimento e che ha prodotto effetti giuridici validi in un solo caso (sentenza n. 5060 del 2016 cit.).
Ne deriva che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte, tale disarmonia non ha avuto grandi conseguenze, ma ne ha sicuramente prodotte – di molto incisive – nella giurisprudenza del merito e, in genere, nella interpretazione e nell’applicazione delle norme di riferimento, in un settore di grande “impatto” come quello della riscossione mediante ruolo dei crediti previdenziali, tributari e così via.
18. Pertanto, appare opportuno precisare che la correttezza dell’orientamento tradizionale è confermata, oltre che dalla precedente sentenza di queste Sezioni Unite 10 dicembre 2009, n. 25790 (già richiamata), da molteplici ulteriori elementi.
18.1. In primo luogo, va ricordato che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte nella quale viene da sempre sottolineato che la disciplina della prescrizione è “di stretta osservanza ed è insuscettibile d’interpretazione analogica” (vedi, per tutte: Cass. 15 luglio 1966, n. 1917 e Cass. 18 maggio 1971, n. 1482) è pacifico che:
a) se in base all’art. 2946 cod. civ., la prescrizione ordinaria dei diritti è decennale a meno che la legge disponga diversamente, nel caso dei contributi previdenziali è appunto la legge che dispone diversamente (art. 3, comma 9, legge n. 335 del 1995 cit.);
b) la norma dell’art. 2953 cod. civ., non può essere applicata per analogia oltre i casi in essa stabiliti (ex multis: Cass. 29 gennaio 1968, n. 285; Cass. 10 giugno 1999, n. 5710);
c) la prescrizione decennale da “actio judicati”, prevista dall’art. 2953 cod. civ., decorre non dal giorno in cui sia possibile l’esecuzione della sentenza né da quello della sua pubblicazione, ma dal momento del suo passaggio in giudicato (tra le tante: Cass. 10 luglio 2014, n. 15765 (20); Cass. 14 luglio 2004, n 13081);
d) la conversione della prescrizione breve in quella decennale per effetto della formazione del titolo giudiziale ex art. 2953 cod. civ., ha il proprio fondamento esclusivo nel titolo medesimo, sicché non incide sui diritti non riconducibili a questo e, dunque, non opera per i diritti maturati in periodi successivi a quelli oggetto del giudicato di condanna (Cass. 20 marzo 2013, n. 6967; Cass. 10 giugno 1999, n. 5710 cit.);
e) il generico riferimento al “diritto” per il quale sia stabilita un termine di prescrizione breve contenuto nell’art. 2953 cod. civ., consente di ritenere che laddove intervenga un giudicato di condanna (anche generica), la conversione del termine di prescrizione breve del diritto in quello decennale si estende pure ai coobbligati solidali anche se rimasti estranei al relativo giudizio (vedi, per tutte: Cass. 13 gennaio 2015, n. 286; Cass. 11 giugno 1999, n. 5762; Cass. 10 marzo 1976, n. 839; Cass. 14 aprile 1972, n. 1173; Cass. 17 giugno 1965, n. 1961; Cass. 17 agosto 1965, n. 1961; Cass. 20 ottobre 1964, n. 2633).
18.2. Quest’ultimo effetto, all’evidenza, si attaglia solo ad un titolo esecutivo giudiziale.
È notorio che soltanto un atto giurisdizionale può acquisire autorità ed efficacia di cosa giudicata e, che il giudicato, dal punto di vista processuale, spiega effetto in ogni altro giudizio tra le stesse parti per lo stesso rapporto e dal punto di vista sostanziale rende inoppugnabile il diritto in esso consacrato tanto in ordine ai soggetti ed alla prestazione dovuta quanto all’inesistenza di fatti estintivi, impeditivi o modificativi del rapporto e del credito mentre non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” della originaria domanda (vedi, per tutte: Cass. 12 maggio 2003, n. 7272; Cass. 24 marzo 2006, n. 6628).
Della necessità che vi sia un atto giurisdizionale divenuto cosa giudicata, ai fini dell’applicabilità della conversione del termine prescrizionale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. si ha conferma anche nella consolidata giurisprudenza secondo cui, in tema di riscossione delle imposte e delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, tale conversione non opera se la definitività dell’accertamento deriva non da una sentenza passata in giudicato, ma dalla dichiarazione di estinzione del processo tributario per inattività delle parti (tra le tante, di recente: Cass. 6 marzo 2015, n. 4574 (21)).
18.3. Anche il carattere perentorio del termine previsto dall’art. 24, comma 5, del D.Lgs. n. 46 del 1999, è assodato ed è altrettanto certo che esso è funzionalizzato a rendere non più contestabile il credito contributivo, in caso di omessa tempestiva impugnazione, ed a consentirne una “rapida riscossione” (vedi, ex plurimis Cass. 25 giugno 2007, n. 14692; Cass. 12 marzo 2008, n. 6674; Cass. 5 febbraio 2009, n. 2835; Cass. 15 ottobre 2010, n. 21365; Cass. 19 aprile 2011, n. 8931; Cass. 8 giugno 2015, n. 11749; Cass. 15 marzo 2016, n. 5060).
18.4. Infine, è indubbio che sia la cartella di pagamento sia gli altri titoli che legittimano la riscossione coattiva di crediti dell’Erario e/o degli Enti previdenziali e così via sono atti amministrativi privi dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato (vedi, tra le tante: Cass. 25 maggio 2007, n. 12263; Cass. 16 novembre 2006, n. 24449; Cass. 26 maggio 2003, n. 8335, tutte già citate).
Questo, peraltro, non significa che la scadenza del termine perentorio per proporre opposizione non produca alcun effetto, in quanto tale decorrenza determina la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, producendo l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito.
18.5. Ma è evidente che, per tutte le suddette ragioni, tale scadenza non può certamente comportare l’applicazione l’art. 2953 cod. civ., ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, anche perché, fra l’altro, un simile effetto si porrebbe in contrasto con la ratio della perentorietà del termine per l’opposizione.
Se, come si è detto, è pacifico che tale ratio sia quella di consentire una “rapida riscossione” del credito, l’allungamento immotivato del termine prescrizionale in favore dell’ente creditore si porrebbe, all’evidenza, in contrasto con tale ratio, oltre mettere il debitore in una situazione di perenne incertezza in una materia governata dal principio di legalità, cui per primi sono tenuti ad uniformarsi gli stessi Enti della riscossione e creditori.
Né va omesso di ricordare che, in sede di presentazione della “nuova” cartella di pagamento, prevista dal D.Lgs. n. 46 del 1999, venne sottolineato che la relativa adozione era finalizzata a realizzare la “massima trasparenza e comprensibilità” per i destinatari delle questioni giuridiche da esse implicate, visto che la cartella, oltre a costituire l’estratto del ruolo riferito al singolo contribuente, era destinata ad assorbire anche la funzione di titolo esecutivo e di precetto (messa in mora).
Ci si preoccupava, quindi, di tutelare i diritti del contribuente, al fine di evitare che potesse subire una riscossione coattiva senza comprenderne adeguatamente le ragioni. Il che vale, a maggior ragione, con riguardo ad un eventuale imprevisto allungamento del termine di prescrizione del credito, quale originariamente stabilito.
18.6. Deve anche essere considerato che la prescrizione in materia previdenziale costituisce un istituto del tutto particolare, nel quale il carattere di “stretta osservanza” e di ordine pubblico della disciplina è particolarmente evidente.
Al riguardo, va ricordato che originariamente il credito degli Enti previdenziali per il recupero dei contributi assicurativi omessi e/o evasi era soggetto alla prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 55 del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito dalla legge 6 aprile 1936, n. 1155. L’art. 41 della legge 30 aprile 1969, n. 153, ha poi – tranne che per i cd. contributi minori – elevato tale termine di prescrizione a dieci anni, anche per le prescrizioni in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa.
Quindi, l’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995, non ha fatto altro che ripristinare il tradizionale termine quinquennale, con decorrenza dal giorno 1 gennaio 1996.
Tale ultima disposizione ha altresì reiterato, estendendone l’applicabilità a tutte le assicurazioni obbligatorie, il principio – di ordine pubblico e caratteristico di questo tipo di prescrizione – della “irrinunciabilità della prescrizione”, secondo cui “non è ammessa la possibilità di effettuare versamenti, a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che rispetto ai contributi stessi sia intervenuta la prescrizione” (già previsto dal secondo comma dell’art. 55 del R.D.L. n. 1827 del 1935 cit.).
Quanto all’impossibilità di effettuare i versamenti dopo il decorso del termine prescrizionale, la nuova norma ha specificato che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria sono soggette a prescrizione e “non possono essere versate” dopo il decorso del relativo termine. Pertanto, dopo lo spirare di tale termine, l’Ente di previdenza non solo non può procedere all’azione coattiva rivolta al recupero delle omissioni, ma è tenuto a restituire d’ufficio il pagamento del debito prescritto effettuato anche spontaneamente, in deroga alla disposizione contenuta nell’art. 2940 cod. civ., secondo cui: “Non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto”.
Del resto, è jus receptum che, nella materia previdenziale, a differenza che in quella civile, il regime della prescrizione già maturata è sottratto, ai sensi dell’art. 3, comma 9, della n. 335, alla disponibilità delle parti, sicché una volta esaurito il termine, la prescrizione ha efficacia estintiva – non già preclusiva – in quanto l’ente previdenziale creditore non può rinunziarvi.
Secondo un costante indirizzo ermeneutico di questa Corte il suddetto divieto di effettuare versamenti a regolarizzazione di contributi assicurativi dopo che rispetto agli stessi sia intervenuta la prescrizione – originariamente stabilito dall’art. 55, comma primo, del R.D.L. n. 1827 del 1935 e poi ribadito dall’art. 3, comma 9, della legge n. 335 del 1995 – rispondendo a “ragioni di ordine pubblico”, opera di diritto indipendentemente dall’eccezione di prescrizione da parte dell’ente previdenziale e del debitore dei contributi ed è rilevabile d’ufficio, senza che l’assicurato abbia diritto a versare contributi previdenziali prescritti e ad ottenere la retrodatazione dell’iscrizione per il periodo coperto da prescrizione. Né rileva l’eventuale inerzia dell’ente previdenziale nel provvedere al recupero delle somme corrispondenti alle contribuzioni, poiché il credito contributivo ha una sua autonoma esistenza, che prescinde dalla richiesta di adempimento avanzata dall’ente previdenziale stesso (vedi, per tutte: Cass., Sez. lav., 15 ottobre 2014, n. 21830; Id. 24 marzo 2005, n. 6340; Id. 16 agosto 2001, n. 11140; Id. 5 ottobre 1998, n. 9865; Id. 6 dicembre 1995, n. 12538; Id. 19 gennaio 1968, n. 131).
18.7. Per effetto della legge 28 settembre 1998, n. 337 (“Delega al Governo per il riordino della disciplina relativa alla riscossione”) fa varata – con decorrenza dall’1 luglio 1999 – una importante riforma volta a rendere più efficiente la riscossione coattiva, che si realizzò con i decreti legislativi n. 37, n. 46 e n. 112 del 1999 (seguiti dai decreti correttivi n. 193 e n. 326 del 1999).
Nell’ambito di tale riforma va inserito anche l’art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, con il quale è stato attribuito agli Enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo (il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio e in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza.
Deve essere ricordato che la Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 24 cit., sollevata in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., ha, da un lato, escluso la irragionevolezza della scelta del legislatore di consentire ad un creditore di formare unilateralmente un titolo esecutivo, ponendo l’accento sulla sua natura pubblicistica e l’affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l’attività. E, dall’altro lato, ha considerato tale scelta rispettosa dei diritti di difesa e dei principi del giusto processo, facendo leva sulla possibilità, concessa al preteso debitore di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, nonché sulla possibilità del debitore di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e/o dell’esecuzione, e, infine, sulla ripartizione dell’onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione (vedi: Corte Cost. ord. n. 111 del 2007).
E nella successiva sentenza n. 281 del 2010 la stessa Corte costituzionale ha sottolineato che “soltanto nel giudizio di opposizione alla cartella esattoriale il destinatario di questa ha la possibilità di far accertare l’inesistenza, o la minore entità, del proprio debito. Di qui la centralità di tale momento processuale, del quale la tutela cautelare esperibile con la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo costituisce profilo essenziale”.
Come si vede, il Giudice delle leggi, nel considerare centrale la possibilità dell’instaurazione del giudizio di opposizione, non ha mai neppure ipotizzato che la semplice scadenza del relativo termine potesse dare luogo alla applicazione dell’art. 2953 cod. civ.
18.8. Al riguardo va ricordato che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 280 del 2005 (22), ha ribadito il proprio costante indirizzo secondo cui è conforme a Costituzione, e va dall’interprete ricercata, soltanto una ricostruzione del sistema tributario che “non lasci il contribuente esposto, senza limiti temporali, all’azione esecutiva del fisco” ed ha osservato che l’esigenza, pur costituzionalmente inderogabile, di rinvenire termini decadenziali nella materia non può essere soddisfatta facendo riferimento a termini fissati per attività interne all’Amministrazione (nello stesso senso: Corte cost. ordinanza n. 352 del 2004 (23), ivi richiamata).
Nel caso esaminato, da tale principio il Giudice delle leggi ha tratto la conclusione della illegittimità costituzionale dell’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, come modificato dal D.Lgs. n. 193 del 2001, – nella parte relativa alla mancata previsione di un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, – “non essendo consentito, dall’art. 24 Cost., lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole” ed essendo irragionevole che questo avvenga in ipotesi in cui l’Amministrazione (lato sensu intesa) è chiamata a compiere una semplice operazione di verifica formale.
19. Da ultimo, deve essere escluso – per plurime ragioni – che, per la soluzione della presente questione, si possa fare riferimento alla disposizione di cui all’art. 20, comma 6, del D.Lgs. n. 112 del 1999, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 683, della legge n. 190 del 2014 – che ha sostituito integralmente il suddetto art. 20 – il quale è stato richiamato dall’INPS nella propria memoria.
Il suddetto art. 20 va letto all’interno del D.Lgs. n. 112 del 1999, (e non all’interno della legge n. 190 del 2014) che è il decreto attuativo della legge di delega n. 337 del 1998 dedicato ai rapporti tra ente impositore ed agente della riscossione, che contiene un complessivo riordino della disciplina della riscossione mediante ruoli, basato su una profonda revisione dei rapporti tra ente impositore e agente della riscossione.
Tale revisione risulta principalmente riferita al Servizio nazionale della riscossione mediante ruolo organizzato dal Ministero delle finanze e articolato in ambiti territoriali affidati a concessionari di pubbliche funzioni (vedi art. 2 e ss. del D.Lgs. n. 112 cit.).
19.1. Infatti, se in base all’art. 3 del decreto – come regola generale – la concessione del servizio nazionale della riscossione viene affidata con decreto del Ministero delle finanze (comma 4), tuttavia “per le province ed i comuni restano ferme le disposizioni contenute negli articoli 52 e 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e, per gli enti previdenziali, quelle contenute nel Capo III del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”.
Nel suindicato Capo III del D.Lgs. n. 241 cit. – intitolato “Disposizioni in materia di riscossione” – è dettata una specifica disciplina in materia di riscossione, applicabile a tutti gli enti previdenziali a decorrere dal 1999 (vedi art. 28) che, ovviamente, non prevede il “discarico per inesigibilità” (introdotto nel nostro sistema dagli artt. 19 e 20 del D.Lgs. n. 112 cit.) contenendo una diversa normativa per sanzionare eventuali ritardi e/o scorrettezze del concessionario (art. 26).
19.2. Peraltro, dalla complessiva lettura del D.Lgs. n. 112 del 1999, e dai minimi riferimenti espressi in esso contenuti alla riscossione dei contributi effettuata dagli Enti previdenziali (vedi artt. 22, comma 1, e 61 dello stesso D.Lgs. n. 112 cit.), si trae conferma del fatto che si tratta di un decreto principalmente rivolto alla riscossione dei tributi.
19.3. A questo può aggiungersi che, in ogni caso, l’art. 20, comma 6, richiamato dall’INPS, è inutilizzabile nella specie anche perché – pur nell’ambito della riscossione fiscale si tratta di una norma che non ha alcuna attinenza ai rapporti tra contribuente ed Ente impositore, riguardando – in modo emblematico – i rapporti tra ente impositore ed agente della riscossione come risulta evidente ove si consideri che il Capo II del D.Lgs. n. 112 cit. contiene i “Principi generali dei diritti e degli obblighi del concessionario” e la Sezione I di tale Capo (artt. da 17 a 21) disciplina i “Diritti del concessionario”, regolando il “Discarico per inesigibilità” all’art. 19 e la “Procedura di discarico per inesigibilità e reiscrizione nei ruoli” all’art. 20.
19.4. Può anzi dirsi che tali ultimi due articoli contengano la disciplina più “qualificante” del riordino della riscossione – fiscale – effettuato dal D.Lgs. n. 112 cit., sulla premessa dell’avvenuta eliminazione – ad opera dell’art. 2 del D.Lgs. n. 37 del 1999, emanato in attuazione della lettera c) dell’art. 1 della stessa legge di delega n. 337 del 1998 – del preesistente “obbligo del non riscosso come riscosso”, in base al quale a carico dell’esattore prima e del concessionario poi gravava l’onere di versare alle prescritte scadenze all’ente impositore l’ammontare pro rata dei crediti iscritti a ruolo, anche se non pagati dal debitore (art. 32, comma 3, del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43).
L’abolizione di tale obbligo, infatti, ha portato ad un incisivo mutamento dei rapporti tra l’ente impositore e l’agente della riscossione, nel senso che a decorrere dal 1999 quest’ultimo non è dunque più tenuto a riversare all’ente impositore le somme eventualmente corrispondenti ai ruoli trasmessi, ma deve versare soltanto ciò che effettivamente riesce a riscuotere, tempo per tempo.
Di conseguenza tale riforma è stata accompagnata dalla introduzione – per le riscossioni non andate a buon fine – di una procedura diretta a consentire all’agente della riscossione di porre termine alle attività di riscossione effettuate in favore dell’ente impositore.
Tale procedimento, ha assunto il nome di “procedura di discarico per inesigibilità” ed è quella disciplinata dagli art. 19 e seguenti del menzionato D.Lgs. n. 112 del 1999.
19.5. In base all’art. 19 – al di là delle ipotesi in cui opera il discarico automatico, che sono proprio quelle per le quali l’art. 61, del decreto stabilisce espressamente l’applicabilità della relativa disciplina (di cui all’art. 60, commi da 1 a 3) “ai ruoli degli enti previdenziali” – l’agente della riscossione o il concessionario per poter ottenere il discarico delle “quote iscritte a ruolo” indicate nella comunicazione di inesigibilità inviata all’ente creditore, è tenuto a fornire a tale ente la prova della correttezza del proprio operato.
Nel successivo art. 20, il legislatore ha introdotto una procedura con la quale l’ente creditore può svolgere il proprio controllo sull’operato dell’agente della riscossione nel recupero della quota.
Come precisato dalla giurisprudenza, la procedura di discarico per inesigibilità di quote di imposta, di cui agli artt. 19 e 20, del D.Lgs. n. 112 del 1999, ha carattere meramente amministrativo e riguarda esclusivamente il rapporto giuridico di dare-avere intercorrente tra il concessionario e l’ente creditore, al fine di accertare se sussista o meno il diritto al rimborso (vedi: Cass. SU 29 ottobre 2014, n. 22951 (24); Corte Conti Calabria Sez. giurisdiz. 7 marzo 2011, n. 150; Corte Conti Sicilia Sez. giurisdiz., 4 ottobre 2010, n. 2041).
19.6. Nell’ambito di tale procedura, al comma 6 dell’art. 20, è stata prevista una “norma generale di salvaguardia per l’ente creditore”, stabilendosi che qualora tale ente, nell’esercizio della propria attività istituzionale individui – successivamente al discarico – l’esistenza di significativi elementi reddituali o patrimoniali riferibili agli stessi debitori, può, “a condizione che non sia decorso il termine di prescrizione decennale”, sulla base di valutazioni di economicità e delle esigenze operative, riaffidare in riscossione le somme, comunicando all’agente della riscossione i nuovi beni da sottoporre a esecuzione, ovvero le azioni cautelari o esecutive da intraprendere. In questo caso, l’azione dell’agente della riscossione deve essere preceduta dalla notifica dell’avviso di intimazione previsto dall’art. 50 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
La norma è chiaramente applicabile soltanto alla riscossione fiscale per molteplici ragioni:
a) essa risponde alla medesima logica del comma 4 del precedente art. 19, secondo cui “fino al discarico di cui al comma 3”, resta salvo, in ogni momento, il potere dell’ufficio creditore di comunicare al concessionario l’esistenza di nuovi beni da sottoporre ad esecuzione e di segnalare azioni cautelari ed esecutive nonché conservative ed ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore da intraprendere al fine di riscuotere le somme iscritte a ruolo. A tal fine l’ufficio dell’Agenzia delle entrate si avvale anche del potere di cui all’articolo 32, primo comma, n. 7), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e 51, secondo comma, n. 7), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (norme che prevedono iniziative di ufficio in materia di accertamento e riscossione, rispettivamente, in materia delle imposte sui redditi e di IVA);
b) fa – utilizzando una espressione ellittica – riferimento al temine di prescrizione decennale, che è quello che si applica ordinariamente all’esercizio del potere di riscossione fiscale (vedi, da ultimo, Cass. 30 giugno 2016, n. 13418 cit.), benché, come si è detto, la Corte costituzionale abbia considerato spesso iniqua per il contribuente l’applicazione di un termine così lungo di prescrizione e abbia anche affermato l’irragionevolezza del trasferimento sul contribuente di termini decadenziali o prescrizionali fissati per attività interne dell’Amministrazione (vedi Corte cost. ord. n. 352 del 2004 e sent. n. 280 del 2005, già citate);
c) nel suo complessivo contenuto risulta incompatibile con il principio di “ordine pubblico” della irrinunciabilità della prescrizione dei contributivi assicurativi in materia di previdenza e assistenza obbligatoria di cui si è detto (vedi: Cass., Sez. lav., 15 ottobre 2014, n. 21830; Id. 24 marzo 2005, n. 6340; Id. 16 agosto 2001, n. 11140; Id. 5 ottobre 1998, n. 9865; Id. 6 dicembre 1995, n. 12538; Id. 19 gennaio 1968, n. 131, tutte citate sopra al punto 18.6).
19.7. In sintesi, il suddetto riferimento alla prescrizione decennale, nell’art. 20 comma 6 cit., risulta effettuato sempre in ambito sostanziale e senza alcun possibile riferimento all’art. 2953 cod. civ., visto che pacificamente viene richiamato con riguardo alla attività amministrativa di riscossione – per la quale, in ambito fiscale, vale, come regola generale, il termine ordinario della prescrizione – nell’ambito di una procedura (di discarico per inesigibilità) del pari di natura pacificamente amministrativa.
20. Per tutte le esposte considerazioni la sentenza impugnata va esente da ogni censura risultando del tutto conforme ai suindicati principi.

III – CONCLUSIONI.

21. Il ricorso, quindi, deve essere respinto.
22. La questione di massima di particolare importanza sottoposta all’attenzione di queste Sezioni Unite dall’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione civile n. 1799 del 2016 – e la ivi denunziata disarmonia riscontratasi tra le pronunce delle diverse Sezioni semplici di questa Corte – possono, pertanto, risolversi, con l’affermazione dei seguenti principi di diritto:
1) “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che dal 1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto (D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 30, convertito dalla L. n. 122 del 2010)”;
2) “è di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 cod. civ., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.
23. Nulla si dispone per le spese del presente giudizio di cassazione, in quanto A.M. e la SERIT SICILIA s.p.a. sono rimasti intimati.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.

P.Q.M. – La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di cassazione.

(1) Cfr. Cass. 29 gennaio 2016, ord. n. 1799, in Boll. Trib. On-line.
(2) In mass. in Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib. On-line.
(4) In Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11949, in Boll. Trib., 2013, 223, con nota di FAGGION – ZILIOTTO, Transfer price, natura della norma e onere della prova: la confusione persiste.
(6) In Boll. Trib. On-line.
(7) In Boll. Trib. On-line.
(8) In Boll. Trib. On-line.
(9) In Boll. Trib. On-line.
(10) In Boll. Trib. On-line.
(11) In Boll. Trib. On-line.
(12) In Boll. Trib. On-line.
(13) In Boll. Trib. On-line.
(14) In mass. in Boll. Trib. On-line.
(15) In Guida dir., 2010, 65.
(16) In Boll. Trib. On-line.
(17) In Boll. Trib., 2005, 229.
(18) In Boll. Trib. On-line.
(19) Entrambe in Boll. Trib. On-line.
(20) In Boll. Trib. On-line.
(21) In Boll. Trib. On-line.
(22) Corte Cost. 15 luglio 2005, n. 280, in Boll. Trib., 2005, 1160.
(23) Corte Cost. 14 novembre 2004, ord. n. 352, in Boll. Trib. On-line.
(24) In Boll. Trib. On-line.

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