RECENTI SVILUPPI IN RELAZIONE ALL’ART. 20 DEL D.P.R. N. 131/1986
SOMMARIO: 1. PREMESSA. IL TEMA DI INDAGINE – 2. L’ART. 20 DEL D.P.R. N. 131/1986 E L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI SOTTOPOSTI A REGISTRAZIONE; 2.1 Brevi cenni in relazione al presupposto e all’oggetto; 2.2 L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 quale “chiave” di interpretazione dell’imposta; 2.3 L’art. 20 del TUR nella evoluzione della prassi e della giurisprudenza: interpretazione funzionale e regola anti abuso – 3. LA C.D. CESSIONE INDIRETTA DELL’AZIENDA NELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI IMPOSTA DI REGISTRO; 3.1 Osservazioni preliminari; 3.2 La giurisprudenza in tema di abuso del diritto ai fini dell’imposta di registro. Sua evoluzione – 4. IL RUOLO DELL’ABUSO DEL DIRITTO; 4.1 La nuova disciplina dell’abuso del diritto; 4.2 Rapporto tra l’art. 10-bis della legge n. 212/2000 e l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 – 5. LA CIRCOLAZIONE INDIRETTA DELL’AZIENDA NELL’IMPOSTA DI REGISTRO DOPO L’ART. 10-BIS DELLA LEGGE N. 212/2000 – 6. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE.
1. PREMESSA. IL TEMA DI INDAGINE
Le modifiche normative apportate con il D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che hanno condotto a introdurre una nuova disciplina, di carattere generale, dell’abuso del diritto all’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), conducono a fare alcune riflessioni in relazione alla portata e all’ambito di applicazione dell’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (c.d. TUR), in materia di imposta di registro. Il tema rimane di forte attualità anche alla luce della perdurante tendenza della Amministrazione finanziaria a fare ricorso a tale disposizione per riqualificare come cessione di azienda la cessione totalitaria delle quote di una società, preceduta dal conferimento, da parte del venditore, della azienda nella società di cui poi le quote sono cedute all’acquirente. Ma soprattutto anche alla luce di recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (1) in cui si è affermato altresì che l’Amministrazione finanziaria, a tal fine, non è tenuta a provare l’intento elusivo delle parti, poiché i due negozi hanno identica funzione economica, consistente nel trasferimento del potere di godimento e disposizione dell’azienda da un gruppo di soggetti a un altro gruppo o individuo, con conseguente riqualificazione interpretativa degli atti ai fini dell’imposta di registro in ragione della c.d. “causa reale”.
Ora, a fronte del nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000 (relativo, come noto, alla disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale) pare legittima una lettura dell’art. 20 del TUR che ne riconduca il ruolo a una funzione meramente interpretativa con riguardo agli atti sottoposti a registrazione e non “anti-elusiva”. Altrimenti si addiverrebbe alla disapplicazione della stessa ratio legis sottesa al D.Lgs. n. 128/2015 (che ha introdotto il nuovo art. 10-bis citato). Ma si impongono, altresì, altre valutazioni propriamente relative al significato proprio e alla portata interpretativa e applicativa dell’art. 20 del TUR, anche con riferimento al precipuo ruolo nel comparto impositivo che lo comprende e in cui organicamente si inserisce. Pertanto, nel prosieguo le osservazioni che si faranno sono correlate non solo al riposizionamento e al ripensamento del ruolo dell’art. 20 del TUR rispetto alla normativa anti-elusione, ma anche in generale ad una ricostruzione che – senza peraltro pretese di esaustività dogmatica – ne rivaluti il ruolo tecnicamente e propriamente interpretativo degli effetti giuridici specifici degli atti sottoposti a registrazione, piuttosto che vederne una sua applicazione in chiave di interpretazione funzionale volta a tassare gli effetti economici di una pluralità di atti “sostanzialmente” collegati ma connotati dalla produzione di effetti giuridici ben differenti rispetto a quelli conseguenti dal programma negoziale degli atti sottoposti alla registrazione e poi riqualificati.
2. L’ART. 20 DEL D.P.R. N. 131/1986 E L’INTERPRETAZIONE DEGLI ATTI SOTTOPOSTI A REGISTRAZIONE
L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 contiene la disciplina delle regole generali cui si deve attenere una operazione di interpretazione e di qualificazione di un atto sottoposto a registrazione. Ciò allo scopo di individuare i criteri impositivi e la voce della Tariffa applicabili a prescindere dal nomen iuris che le parti abbiano attribuito ad un atto sottoposto a registrazione.
La norma, in realtà, presenta molteplici complessità anche correlate alla chiave di lettura, ricostruttiva del tributo del registro, che la dottrina e la giurisprudenza hanno attribuito a questa norma. Da un lato, infatti, questa disposizione ha contribuito, secondo parte della dottrina, a chiarire ulteriormente il presupposto e l’oggetto di applicazione dell’imposta di registro. Dall’altro lato ha anche consentito, soprattutto all’Amministrazione finanziaria e alla giurisprudenza di legittimità, di conferire una funzione propria di presupposto, integratore di fattispecie tassabili in ragione di una funzione – più o meno fondatamente – ritenuta sussistente nella reale causa da attribuire a un negozio (o a un complesso di negozi giuridici) in considerazione e alla luce (a posteriori) del fine e dell’obiettivo economicamente apprezzabile che si viene poi a valorizzare. Una posizione da un lato, per così dire isolazionista, dell’approccio applicativo del tributo di registro in ragione degli effetti, dall’altro lato anche “economicista” volta a individuare una ricchezza trasferita da assoggettare ad imposizione e non a fornire una corretta e rigorosa interpretazione del contenuto giuridico della fattispecie negoziale.
2.1 Brevi cenni in relazione al presupposto e all’oggetto dell’imposta
Senza pretesa di voler esaustivamente ricostruire il dibattito intorno al presupposto e all’oggetto del tributo di registro ci si limiterà ad alcune osservazioni volte ad evidenziare la storica evoluzione della concezione sviluppatasi attorno al presupposto stesso.
L’imposta di registro è nata come prestazione dovuta a titolo di corrispettivo del servizio pubblico della registrazione di determinati negozi giuridici. Essa aveva, dunque, inizialmente natura di tassa, in quanto configurava la retribuzione corrisposta dal privato per il servizio pubblico ricevuto e consistente nella registrazione dell’atto.
Col tempo, tuttavia, la sfera di applicazione del tributo si è estesa al punto da modificarne la natura, sicché, attualmente, il prelievo si configura come un’imposta indiretta applicata sui trasferimenti di ricchezza. Profilo peraltro questo da tenere sempre in considerazione anche alla luce dei vincoli comunitari in tema di imposizione indiretta sulla raccolta dei capitali, come si osserverà in seguito.
Punto di partenza è la concezione di imposta di registro quale tributo che configura una “imposta d’atto” (o tale perlomeno dovrebbe essere), in quanto è applicata in relazione alla formazione di determinati atti giuridici.
Per atto, secondo una prima ricostruzione, deve intendersi ai fini che qui interessano, oltre al negozio giuridico (scritto o verbale), ogni altra situazione o fatto giuridicamente rilevante ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, del suo presupposto e dell’oggetto che la caratterizza, ivi incluse, ad esempio, le operazioni societarie. Da tale assunto discende che, mentre ai fini della registrazione l’atto rileva quale documento, l’art. 20 del TUR si riferisce all’atto non nella sua mera materialità ma nella sua vicenda normativa, come negozio, i cui effetti giuridici rilevano un sottostante effetto economicamente apprezzabile (2). L’applicazione dell’imposta di registro, pertanto, si fonda proprio sull’atto, ma non nella sua dimensione di “documento”, come avviene, invece, per l’imposta di bollo, bensì in relazione agli effetti giuridici che tale documento produce, i quali possono essere rivelatori della capacità contributiva di chi li pone in essere. Quindi, in questa dimensione, l’imposta di registro si appalesa come imposta d’atto ma in funzione del contenuto e degli effetti giuridici contemplati, descritti e desumibili, in conseguenza, a quanto riportato nel documento.
Altra parte della dottrina ha evidenziato come l’imposta di registro sia una imposta d’atto per sottolineare il fatto che l’imposta colpisce l’atto nel senso di documento e non nel trasferimento (3). Sotto tale profilo si è precisato che si possa e si debba ricostruire, attraverso un’indagine complessiva dell’atto e delle relative clausole, la reale natura giuridica del contratto. Viceversa non è consentito andare oltre la qualificazione giuridica propria e gli effetti giuridici desumibili dall’atto complessivamente inteso (4). Ciò delimita l’oggetto del tributo agli effetti giuridici dell’atto: la dottrina ne ha evidenziato, in tal modo, il rispetto di principi costituzionali afferenti alla riserva di legge nella individuazione del presupposto impositivo (art. 23 Cost.) alla esigenza di tutela della iniziativa economica (art. 41 Cost.) e del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) (5). Quindi imposta di registro come imposta d’atto ma in funzione degli effetti giuridici propriamente intesi e contenuti nell’atto sottoposto a registrazione e non anche di quelli sussumibili in conseguenza.
Secondo una impostazione ricostruttiva elaborata anche dalla giurisprudenza l’oggetto del tributo di registro è costituito non dagli atti indicati nella Tariffa in sé considerati ma dagli effetti giuridici degli atti medesimi (6). In altre parole, è irrilevante la specie dell’atto registrato, (compravendita, mutuo, permuta, e così via) cioè la fonte di produzione degli effetti giuridici, i quali invece sono rilevanti in sé, cioè in quanto costitutivi, traslativi, dichiarativi, prescindendo, in buona misura, dagli atti che li producono. Secondo la giurisprudenza di legittimità, di conseguenza, l’art. 20 del TUR è oltre che una disposizione normativa interpretativa degli atti registrati, una disposizione normativa che identifica quell’elemento strutturale del rapporto giuridico tributario che è dato dall’oggetto e che viene fatto coincidere con gli effetti giuridici indicativi della capacità contributiva dei soggetti che li compiono. Da ciò emerge, in definitiva, che oggetto dell’imposta di registro non sono gli atti registrati in sé considerati, ma i loro effetti giuridici. Quindi una posizione per cui l’imposta di registro, più che una imposta d’atto (seppure non nel senso di documento) è una imposta che grava gli effetti giuridici desumibili dagli atti sottoposti a registrazione. Oggetto del tributo sono quindi gli effetti indici di capacità contributiva desumibili dagli atti sottoposti a registrazione.
Presupposto primario per l’applicazione del tributo è, in ogni caso, l’esistenza di un “atto”. Pertanto, i fatti, gli atti e le operazioni che non risultano ricompresi nell’ambito applicativo del detto presupposto impositivo “tipico”, non sono soggetti al tributo di registro.
L’imposta di registro non ha perduto la sua originaria caratteristica di imposta d’atto. Il tributo, in tanto può trovare applicazione in quanto si sia in presenza, in originale, di uno degli atti previsti dalla norma (Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986). Ciò in quanto, da un lato è pur vero che la giustificazione dell’imposta deriva dalla capacità economica emergente dalle operazioni previste dalla Tariffa; dall’altro lato comunque l’imposta di registro colpisce tali operazioni solo indirettamente, poiché il presupposto è costituito non direttamente dalle operazioni bensì dall’atto che ne documenta e attesta la sussistenza. Con la conseguenza che – salvo i casi di contratti verbali espressamente previsti dalla normativa sul registro – ove pure esistesse l’operazione ma non l’atto, l’imposta di registro non dovrebbe essere applicata.
La ricostruzione del presupposto dell’imposta di registro, con particolare riferimento alla tradizionale concezione come imposta d’atto, inteso come documento, ovvero alla ricostruzione come imposta che incide sull’evento e quindi sull’effetto giuridico, mette in evidenza, in realtà, le molteplici problematiche correlate all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 quali, ad esempio, la rilevanza di elementi extra-testuali ovvero ancora la probabilità per l’Amministrazione finanziaria di accertare la simulazione tramite un atto autoritativo senza la previa azione civilistica.
L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 in tale contesto assume un ruolo chiave: non solo in funzione interpretativa ma anche in funzione qualificante l’oggetto stesso dell’imposta. Da ciò discende la ricca problematica interpretativa e anche in un certo senso evolutiva volta a dare sostanza, non solo interpretativa, ma anche in funzione di presupposto e quindi di oggetto del tributo, a una norma che, letteralmente intesa, pare avere una dimensione più circoscritta.
2.2 L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 quale “chiave” di interpretazione
La disposizione contenuta nell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 contribuisce a definire il presupposto e l’oggetto dell’imposta di registro ove stabilisce che: «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».
Tale norma, oltre a suggerire all’interprete il corretto metodo di interpretazione degli atti, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, contribuisce anche a confermare che l’imposta di registro è legata agli effetti prodotti dagli atti soggetti a registrazione e non alle formalità di registrazione in sé considerate.
Come acutamente rilevato da attenta dottrina (7), l’interpretazione degli atti sottoposti a registrazione ha lo scopo di accertare l’effettiva attività giuridica del contribuente, rappresentata dalla scrittura impressa nel documento che la incorpora e quindi applicare la regola di tassazione che la legge ha prescritto proprio per quella attività.
Nelle intenzioni del legislatore tributario l’art. 20 del TUR avrebbe dovuto porre fine ad un dibattito dottrinale creatosi in vigenza della disposizione contenuta nel R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 (a sua volta successiva alla previgente previsione di cui alla legge 21 aprile 1862, n. 585), che conteneva una previsione sostanzialmente equivoca in quanto non precisava quali dovessero essere gli effetti degli atti da interpretare ai fini della registrazione (8) se cioè solo “giuridici” (9) o “economici” (10).
Tale aspetto peraltro non assume valenza specifica e precipua del solo tributo di registro ma riguarda proprio il più ampio dibattito circa la portata e il ruolo di norme anti-elusive. Invero le norme anti-elusive, secondo una accezione che risiede proprio nella formulazione contenuta nel R.D. n. 3269/1923 in materia di imposta di registro, avrebbero il compito di adeguare la tassazione alla sostanza “economica” delle operazioni poste in essere, superando e disapplicando il regime fiscale assestato sulla “forma giuridica” della strumentazione negoziale utilizzata. Si tratta, in altri termini, dell’interpretazione funzionale della Scuola di Pavia (11) e del dibattito sull’art. 8 della previgente legge di registro (R.D. n. 3269/1923). Sulla interrelazione con l’abuso del diritto, in generale, ci si soffermerà in seguito.
Senza volere approfondire tale dibattito, ad oggi, comunque, l’art. 20 del TUR (12) fa espresso riferimento ai soli effetti “giuridici” (13).
Insomma, in base al diritto vigente, nell’interpretazione degli atti era dato capire dalla formulazione dell’art. 20 che non si sarebbero potuti prendere in considerazione elementi extra-testuali, estranei al contesto dell’atto sottoposto a registrazione. Ciò a maggior ragione se tali elementi avessero condotto ad una valorizzazione dell’intento economico perseguito dalle parti, piuttosto che degli effetti giuridici, i soli cui invece dovesse applicarsi l’imposta d’atto. O almeno così appariva dal dato testuale e dalla evoluzione storico-giuridica che ha condotto il legislatore a formulare la norma nel testo attualmente vigente.
L’approccio interpretativo che, quindi, andrebbe perseguito in relazione alla fattispecie in esame appare riconducibile al procedimento interpretativo, disciplinato nel codice civile, afferente alla attività interpretativa di un contratto laddove risulta prescritto di «non limitarsi al senso letterale delle parole» (art. 1362, primo comma, c.c.) ma di attribuire alle pattuizioni contrattuali «il senso che risulta dal complesso dell’atto» (art. 1363 c.c.).
Si tratta, in sostanza, di una norma di interpretazione degli atti ai fini tributari, nello specifico ai fini dell’imposta di registro, che rappresenta una parziale corrispondenza con il dettato civilistico, salvo differenziarsi laddove, nel codice civile, si fa riferimento alla comune intenzione delle parti, mentre la norma tributaria attiene alla intrinseca natura e agli effetti giuridici degli atti.
La rilevanza di tale profilo oggettivo, ai fini della tassazione degli effetti giuridici dell’atto, consente di scollare l’intenzione delle parti, ai fini della tassazione, rispetto agli effetti giuridici che comunque l’atto produce, indipendentemente dalla volontà di produrli da parte dei soggetti coinvolti.
E in ciò si incunea un primo profilo, da cui poi si sviluppa un certo filone interpretativo tributario, ossia la ricerca dell’effetto dell’atto a prescindere dalla volontà delle parti. Fino a portare a una sorta di “causa reale” dell’atto che, sotto altri profili, potrebbe pure trascendere, oltre che dal comportamento delle parti, anche dall’atto sottoposto per la registrazione.
E, invero, come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità in specifico riferimento al principio di alternatività tra IVA e imposta di registro, quest’ultima si commisura ad atti a contenuto economico, assunti dal legislatore come indici di capacità contributiva, ricollegandosi dunque all’atto come negozio, e non già all’atto come documento. Conseguenza di ciò è che, avendo l’imposta di registro per oggetto il negozio giuridico e non l’atto documentale, essa richiede l’interpretazione unitaria del negozio, anche se frazionata in atti distinti, ciò in quanto la prevalenza della natura intrinseca dell’atto e dei suoi effetti giuridici sul suo titolo e sulla sua forma apparente, vincolano l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma (14).
Da qui a un’interpretazione “funzionale” (giuridica o economica) il passo è breve. Anzi compiuto.
Il processo interpretativo volto a individuare la causa reale del negozio comporta la necessità di verificare se sia configurabile il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali. Da ciò discende che ci si trova dinanzi ad una sola qualificazione giuridica: la sottoposizione ad imposta di registro dell’atto o di più atti in base alla natura dell’effetto giuridico finale dei comportamenti, semplici o complessi che essi siano.
Né gioverebbe, per contro, evidenziare la natura d’imposta d’atto del tributo di registro, posto che, come ricordato in precedenza, secondo la giurisprudenza tale espressione debba essere intesa nel senso della necessità della commisurazione del tributo agli effetti giuridici degli atti sottoposti a registrazione.
L’elaborazione sviluppata dalla giurisprudenza è che la norma in esame consentirebbe una interpretazione dell’atto o del negozio sottoposto a registrazione, autonoma rispetto a quella civilistica. Per cui nella qualificazione di un negozio deve attribuirsi criterio e rilievo prevalente alla causa reale del negozio stesso e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti (15). L’autonomia negoziale, in tale scenario, degrada a semplice elemento della fattispecie e non assume un ruolo di canone interpretativo. Per effetto di ciò nella individuazione della base imponibile ai fini dell’imposta di registro assumerà rilievo esclusivamente la c.d. causa reale (16).
2.3 L’art. 20 del TUR nella evoluzione della prassi e della giurisprudenza: interpretazione funzionale e regola anti-abuso
L’altro profilo attiene più specificamente agli effetti e qui si innesta il concetto di abuso del diritto o di elusione, in quanto, anche tenuto conto degli effetti economici (17), o comunque pure a prescindere dai c.d. effetti economici, se la finalità economica è altra o è riconducibile ad altro risultato, allora quella deve trovare applicazione anche ai fini dell’imposta di registro.
Tuttavia, fermo restando quanto nel seguito si dirà, appare centrale la comprensione del ruolo e della portata di una norma, quella di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, rispetto al contesto normativo di riferimento afferente alla tassazione del tributo di registro.
In un primo momento si ribadisce che l’art. 20 del TUR dia cittadinanza alla posizione per cui l’imposta di registro non attiene al documento in sé bensì all’attività giuridica che viene ad essere documentata nel linguaggio giuridico scritto contenuto nel documento (18).
Tuttavia l’Amministrazione finanziaria e parte della giurisprudenza di legittimità ritengono che la norma in esame costituisca il fondamento non della mera interpretazione degli atti al fine di inquadrarne gli effetti giuridici e la conseguente rilevanza, sotto il profilo del contenuto tributario dell’atto. Si indaga e si fa ricorso invece a tale disposizione per riqualificare gli atti in ragione del “risultato complessivo economico” perseguito dalle parti (19).
Per la dottrina, invece, l’art. 20 del TUR ha una funzione eminentemente interpretativa.
Non anche una funzione anti-elusiva anche in ragione della stessa tradizione normativa dell’imposta di registro, il suo essere un’imposta d’atto, che limita i poteri di riqualificazione dell’Amministrazione finanziaria (20).
Per effetto di questa posizione è sorta la ricostruzione volta ad applicare un tributo proporzionale di registro nelle ipotesi del conferimento di azienda seguito dalla cessione delle quote di partecipazione della nuova società per sostenere che la causa reale dei negozi posti in essere dalle parti sarebbe costituita da una vera e propria cessione di azienda.
In sostanza, secondo questa impostazione, l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 impone all’interprete, nella determinazione dell’imposta di registro, di prendere in considerazione: (i) la reale e intrinseca natura dell’atto e non quella che possa desumersi dalle indicazioni contenute in atto; (ii) gli effetti giuridici prodotti dall’atto con attribuzione di prevalenza alla causa reale del negozio e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti.
La “intrinseca natura” dell’atto è quella che l’interprete può desumere dall’esame del contenuto dell’atto, mentre gli “effetti giuridici” sono le concrete modificazioni della realtà che l’atto produce. Tali elementi dovrebbero essere considerati dall’interprete anche se in contrasto con il titolo o la forma dell’atto.
La sussunzione dell’art. 20 del TUR come norma anti-elusiva è, sempre più di recente, stata elaborata dalla giurisprudenza.
In questa norma viene, infatti, riscontrato il presupposto normativo che consentirebbe di dare applicazione, anche nell’ambito delle imposte indirette, al principio, affermato, in linea generale, dalla Corte di Cassazione (21), secondo cui «deve ritenersi non lecito al contribuente trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale» (22).
Tale principio a sua volta scaturisce dal riconoscimento, ad opera delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (23), di un principio anti-elusivo di applicazione generale nell’ordinamento italiano, che rende sanzionabili gli atti e i negozi che, pur non contrastando con alcuna specifica disposizione, producono ai contribuenti vantaggi fiscali altrimenti indebiti.
Secondo questo orientamento (24), l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, interpretato in forma “dinamica”, sarebbe la norma che, nell’ambito dell’imposta di registro, consentirebbe, per l’appunto, di disconoscere i vantaggi fiscali ottenuti, senza violare alcuna norma imperativa, ma solo “combinando” diversi atti in sé leciti per ottenere un trattamento impositivo più favorevole (25).
L’effetto di siffatto approccio, ai fini che qui interessano, è stato quello di considerare ex ante e in quanto tale, come elusiva dell’imposta proporzionale di registro (in violazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986), l’operazione di conferimento di azienda e successiva cessione delle partecipazioni ricevute in cambio.
Tale assunto non appare, in principio, condivisibile e risulta in contrasto con la dottrina (26) e, ma solo parzialmente, con la giurisprudenza risalente che avverte come all’Amministrazione finanziaria «non è consentito avvalersi di elementi estrinseci» e che «l’interpretazione dell’atto deve necessariamente far riferimento esclusivamente a quegli elementi che risultino dall’atto sottoposto a tassazione». Le circostanze extra testuali «non possono assolutamente rilevare ai fini dell’imposta di registro» (27).
Lo studio 26 marzo 2004 n. 95-2003/T del Consiglio nazionale del Notariato ha osservato che a norma dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 gli Uffici finanziari possono ricostruire la fattispecie senza essere vincolati dal nomen iuris attribuito all’atto, ma non possono andare al di là della qualificazione civilistica degli atti posti in essere dalle parti, riqualificando l’atto sulla base di elementi estranei ad esso (28).
Ma anche la recente evoluzione normativa, in materia di abuso del diritto, sembra sconfessare questo approccio.
3. LA C.D. CESSIONE INDIRETTA DELL’AZIENDA NELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI IMPOSTA DI REGISTRO
3.1 Osservazioni preliminari
La fattispecie della c.d. cessione indiretta di azienda (ossia l’operazione combinata di conferimento di azienda o di ramo d’azienda, di solito in una società di nuova costituzione, poi seguita dalla cessione delle partecipazioni nella suddetta conferitaria) contempla una serie di atti frequentemente riqualificati dall’erario come una vendita di azienda con conseguente applicazione dell’imposta proporzionale di registro.
Più precisamente, gli Uffici finanziari assumono che l’operazione debba essere equiparata a quella in cui la società “venditrice”, invece di conferire l’azienda, l’avesse ceduta all’acquirente e quest’ultimo, a sua volta, avesse provveduto a conferirla alla società veicolo. Il vantaggio fiscale derivante dallo schema operativo adottato dalle parti, rispetto al trattamento previsto per la vendita dell’azienda, deriva – a parere dell’Amministrazione finanziaria – dal fatto che il conferimento di un’azienda, come pure la cessione delle partecipazioni, sono atti soggetti all’imposta di registro in misura fissa, mentre le cessioni di azienda sono soggette all’imposta di registro proporzionale. Peraltro tale assunto non tiene in considerazione che l’assoggettamento ad imposta di registro in misura fissa per le operazioni di conferimento di azienda è un obbligo imposto dalla normativa comunitaria in materia di raccolta di capitali.
Anzitutto una precisazione dal punto di vista sistematico: siffatta operazione non è elusiva ai fini delle imposte sui redditi. È stata introdotta nell’art. 176 del TUIR una disciplina molto chiara: il conferimento d’azienda avviene in neutralità di imposta e la successiva cessione delle partecipazioni nella società conferitaria può beneficiare del regime della participation exemption. Il terzo comma dell’art. 176 del TUIR stabilisce esplicitamente che le operazioni in questione non rilevano ai fini dell’applicazione dell’abuso del diritto. L’effetto di questa operazione è che le plusvalenze latenti dell’azienda sono trasformate in plusvalenze da partecipazione. Anche se il conferente di fatto realizza con la successiva cessione di quote le plusvalenze dell’azienda, il relativo regime fiscale risulta coerente con l’istituto della participation exemption ed è giustificato dal fatto che in dipendenza dell’operazione il conferitario non acquisisce maggiori valori fiscalmente rilevanti che possano essere poi sottesi al prezzo della cessione della partecipazione.
Pertanto, avuto proprio riguardo agli effetti economici e sostanziali dell’operazione e della “ricchezza” trasferita, l’operazione non è idonea a far richiedere maggiori imposte all’erario. E ciò non può essere ignorato. Per contro è stato necessario un intervento legislativo esplicito che lo chiarisse. Questo evidenzia come la posizione dell’Amministrazione finanziaria fosse chiaramente nel senso opposto sul punto. Per porre fine alla questione anche in materia di imposta di registro forse sarebbe opportuna una soluzione legislativa analoga.
La questione poi se la norma anti-elusiva dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, trovasse applicazione, in presenza delle operazioni ivi elencate, anche in altri ambiti impositivi oltre alle imposte dirette, era stata risolta in senso negativo, anche sulla base di alcune indicazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria.
L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 appariva, in tale scenario, norma speciale da un lato e generalmente propria del comparto impositivo del registro, dall’altro lato. Comunque tale da consentire e fondare su basi normative, di diritto interno, una funzione anti-elusiva oltre che fondata su una causa reale, tale da poter attribuire rilevanza elusiva, ex ante, alle operazioni di conferimento di partecipazioni e successiva cessione di quote in quanto tali effettuate.
Ecco che quindi, quanto meno con riferimento ai profili di elusione, la novità normativa introdotta con l’art. 10-bis della legge n. 212/2000 non può essere ignorata. Ma il percorso è stato lungo.
3.2 La giurisprudenza in tema di abuso del diritto ai fini dell’imposta di registro. Sua evoluzione
Si è detto che ai fini dell’imposta di registro, per determinare il regime impositivo di un atto, è necessario indagare quale sia il negozio giuridico in esso effettivamente posto in essere, fondando tale esame sugli effetti giuridici che l’atto comporta, anche al di là e in contrasto con la denominazione del contratto e la sua forma.
L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, secondo la giurisprudenza (29), non ha configurato una norma relativa alla sola interpretazione degli atti, ma ha consentito di ridefinire l’oggetto dell’imposta di registro, posto che, andando oltre al dettato dell’art. 1 del TUR (che pare individuare l’ambito oggettivo dell’imposta di registro nel mero atto sottoposto a registrazione), ha fatto coincidere l’oggetto giuridico dell’imposta di registro con gli effetti giuridici degli atti sottoposti a registrazione e non con gli atti stessi.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte la disciplina dettata dall’art. 20 del TUR implica che i concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria. Conseguentemente, ancorché non possa prescindersi dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali, nell’individuazione della materia imponibile dovrà darsi la preminenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare, con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle forme negoziali, in considerazione della funzione anti-elusiva.
Ma esaminiamo più in dettaglio la giurisprudenza.
Si è statuito che sia l’autonomia contrattuale e sia la rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi (e non anche di quelli economici, riferiti alla fattispecie globale) restano necessariamente circoscritti alla regolamentazione formale degli interessi delle parti perché altrimenti finirebbero per sovvertire i detti criteri impositivi (30).
E, ancora, si è statuito che non rileva il numero dei contratti di cessione di beni aziendali poiché essi, ai fini dell’applicabilità dell’imposta, vanno considerati come un fenomeno unitario allorquando siano strutturalmente e funzionalmente collegati a realizzare un trasferimento di azienda. Sulla base dell’art. 20 del TUR una cessione può essere configurata indipendentemente dalla sussistenza di un abuso di diritto in quanto a favore del frazionamento potrebbero esserci ragioni anche fisiologiche (31).
Secondo altra giurisprudenza, poi, è configurabile una cessione di complesso aziendale e non un insieme di beni tra loro non collegati, indipendentemente dal nomen iuris attribuito all’atto dalle parti contraenti, nel caso di trasferimento di un compendio immobiliare, qualora il cessionario detenga, prima del trasferimento, i beni in questione svolgendovi attività di impresa (32).
La Suprema Corte ha ricondotto altresì ad una cessione di azienda l’atto di costituzione di una società semplice effettuata mediante conferimento da parte dei soci stessi dell’azienda agricola di loro proprietà, seguita dalla cessione, in favore di terzi, delle quote della società, il cui patrimonio sociale era costituito in modo pressoché esclusivo dall’azienda agraria conferita (33).
Ancora più apertamente nella sentenza n. 4269/2010 (34), la Corte di Cassazione ha dato applicazione all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 in funzione anti-elusiva. In particolare, nel caso ivi trattato, le parti avevano stipulato un contratto preliminare di compravendita immobiliare, seguito da un accordo in base al quale il promissario acquirente corrispondeva al promittente venditore una cospicua somma a titolo di risarcimento del danno. Secondo la Corte di Cassazione, dall’esame delle pattuizioni poste in essere dalle parti, si sarebbe potuto desumere che l’effetto da esse perseguito fosse quello di alienare l’immobile al prezzo complessivo costituito dal prezzo pattuito e dalla somma corrisposta a titolo di risarcimento danni.
E ancora più di recente si è ribadito che poiché l’imposta di registro ha per oggetto il negozio giuridico e non l’atto documentale, essa richiede l’interpretazione unitaria del negozio medesimo, anche se frazionata in atti distinti (35). In tale ipotesi, infatti, ciò che rileva è l’effetto giuridico finale che si realizza (36).
Lo scenario più volte evocato dalla giurisprudenza di legittimità è quello per cui la scelta del legislatore è proprio quella di privilegiare, nella contrapposizione fra la intrinseca natura e gli effetti giuridici e «il titolo o la forma apparente di essi», la sostanza dell’operazione.
Ciò implica che «gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria, di guisa che, anche se non si può prescindere dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali, nella individuazione della materia imponibile ha preminenza assoluta la causa reale sull’assetto cartolare» (37).
Anche la giurisprudenza del 2016, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000, appare, allo stato, in linea con le precedenti. Invero, le medesime argomentazioni si rinvengono nella recente sentenza 9582/2016 (38), nella quale la Corte di Cassazione ha fatto riferimento alla disciplina sopravvenuta in tema di abuso del diritto di cui all’art. 10-bis della legge n. 212/2000. In particolare, nella citata sentenza si afferma che «l’art. 20 D.P.R. 131 cit. non è disposizione che dal legislatore sia stata predisposta al recupero di imposte “eluse”, questo perché l’istituto dell’“abuso del diritto” d’imposte in attualità disciplinato dall’art. 10-bis L. 27 luglio 2000, n. 212, presuppone una mancanza di “causa economica” che non è invece prevista per l’applicazione dell’art. 20 D.P.R. n. 131 cit.». Si tratta, invece, secondo la Suprema Corte, di norma che «semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il “collegamento” negoziale in ragione del loro “intrinseco”. E cioè in ragione degli effetti “oggettivamente” raggiunti dal negozio o dal “collegamento” negoziale, come per es. può avvenire con il conferimento di beni in una Società e la cessione di quote della stessa che se “collegati” potrebbero essere senz’altro idonei a realizzare “oggettivamente” gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo».
In altra sentenza (39) la Corte di Cassazione non si sofferma sull’art. 10-bis della legge n. 212/2000, superando il problema della onnicomprensività quale clausola anti-abuso della norma contenuta nello Statuto dei diritti del contribuente e affermando che l’art. 20 del TUR legittimerebbe la riqualificazione come cessione di azienda di una cessione totalitaria di quote di società preceduta da un conferimento aziendale a prescindere dalla indagine di un intento elusivo. L’Amministrazione finanziaria «può riqualificare come cessione di azienda la cessione totalitaria delle quote di una società senza essere tenuta a provare l’intento elusivo delle parti attesa l’identità della funzione economica dei due contratti, consistente nel potere di godimento e disposizione dell’azienda da un gruppo di soggetti ad un altro gruppo o individuo (Cass. 24594/2015)».
Quindi, in sostanza, la Corte di Cassazione nelle più recenti decisioni sul punto sembra anche voler trascendere dalla questione se l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 sia norma anti-elusiva o abbia una portata anti-elusiva. Semmai tale norma darebbe possibilità, mediante disamina del contenuto intrinseco nella attribuzione della rilevanza, sotto il profilo oggettivo, degli effetti economici di una vendita «attesa l’identità della funzione economica» degli atti posti a raffronto e quindi del trasferimento del potere di disporre come proprietario.
In realtà, nonostante tale impostazione, altro non si tratta che di analisi di norma “economicamente” anti-abuso.
Invero, come peraltro in materia di abuso del diritto è stato acutamente osservato dalla dottrina (40), esistono e possono esistere diverse e molteplici modalità e strumenti giuridici per perseguire un certo intento economico.
In tale scenario e contesto, in cui la giurisprudenza, anche recente, mantiene una posizione sostanzialistica e correlata ad una analisi funzionalmente economica complessivamente intesa, e quasi anti-elusiva, appare opportuno svolgere alcune osservazioni.
4. IL RUOLO DELL’ABUSO DEL DIRITTO
4.1 La nuova disciplina dell’abuso del diritto
Al fine di conferire maggiore stabilità e certezza al sistema fiscale, in base alla legge di delega 11 marzo 2014, n. 23, è stato emanato il citato D.Lgs. n. 128/2015 che ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina generale dell’abuso del diritto, inserendo il nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000, applicabile a tutti i tributi e, quindi, anche all’imposta di registro.
La norma definisce abuso del diritto «una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti». In tali casi queste operazioni «non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni» (41).
Sono considerate «operazioni prive di sostanza economica» i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali, quali, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.
Sono “vantaggi fiscali indebiti” i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.
La previsione individua, quindi, i tre presupposti per l’esistenza dell’abuso: l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate, la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito e la circostanza che il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione.
Si osserva che i vantaggi fiscali indebiti che si realizzano per effetto dell’operazione priva di sostanza economica devono essere fondamentali rispetto a tutti gli altri fini perseguiti dal contribuente, nel senso che tale vantaggio deve essere stato lo scopo essenziale della condotta stessa. Il primo comma della norma citata, infatti, in attuazione del criterio direttivo dell’art. 5, primo comma, lett. h), n. 1), della legge delega n. 23/2014 (che impone di considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva), stabilisce che configurano abuso «le operazioni prive di sostanze economica che … realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti».
Non possono essere considerate abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.
Anche se la disposizione fa riferimento all’attività professionale o imprenditoriale del contribuente, per quanto attiene all’imposta di registro dovrebbero rilevare anche ragioni extrafiscali di natura non professionale, ad esempio familiare.
Resta in ogni caso ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale; l’unico limite alla suddetta libertà è costituito dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito.
L’art. 10-bis della legge n. 212/2000 riconosce poi la possibilità per il soggetto passivo di proporre interpello per conoscere se le operazioni che intende realizzare, o che siano state realizzate, costituiscano fattispecie di abuso del diritto. L’istanza deve essere presentata prima della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazione o per l’assolvimento degli obblighi tributari connessi alla fattispecie cui si riferisce l’istanza medesima.
La stessa disposizione, infine, prevede la procedura per l’accertamento delle operazioni considerate abusive. La norma sottolinea, a tale proposito, che l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui sopra mentre il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle “valide ragioni extrafiscali”.
L’emanazione di una disciplina generale sull’abuso del diritto dovrebbe comportare l’abbandono della giurisprudenza che faceva applicazione, a tale fine, dell’art. 20 del TUR.
4.2 Rapporto tra l’art. 10-bis della legge n. 212/2000 e l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986
La recente entrata in vigore della nuova normativa sull’abuso del diritto in materia tributaria, che ha introdotto l’art. 10-bis della legge n. 212/2000, impone di valutare l’impatto di questa disciplina sull’imposta di registro e di verificare, in particolare, il rapporto con l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986.
Si deve ritenere, per ragioni di logica e di coerenza sistematica, che la nuova disciplina dell’abuso del diritto sia valevole e applicabile a tutti i tributi, ivi inclusa l’imposta di registro (42).
Non pare consentito (43), in un simile contesto, che nel sistema tributario possa esserci spazio per un concetto di abuso del diritto o di elusione, proprio dell’imposta di registro. Si impone quindi un coordinamento con tale articolo. Salvo affermarne l’abrogazione implicita se si mantenesse la tesi per cui l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 sia una clausola anti-abuso dell’imposta di registro, deve diversamente ritenersi che tale norma sia ancora da interpretare nel senso di essere ricondotta alla sua funzione originaria ossia quale norma interpretativa diretta a determinare l’imposta dovuta per il singolo atto in base al suo contenuto e agli effetti giuridici che ne derivano.
Per effetto di questa ricollocazione, l’art. 20 del TUR non può, o quantomeno non può più, essere considerato una disposizione diretta a contrastare l’abuso del diritto secondo una posizione diretta o comunque riconducibile a siffatto concetto. Una più corretta qualificazione sistematica della norma dovrebbe quindi condurre al posizionamento della stessa nell’alveo della imposta d’atto.
Inoltre l’inserimento, nel nostro ordinamento giuridico, di un concetto generale anti-abuso valevole, per l’appunto, per tutto il comparto impositivo, consente una diversa qualificazione della valutazione operata con l’art. 176, terzo comma, del TUIR, ove si esclude normativamente la rilevanza – ai fini dell’abuso del diritto – del conferimento di azienda in regime di continuità dei valori fiscali e la successiva cessione della partecipazione ricevuta. L’art. 1, secondo comma, del D.Lgs. n. 128/2015, nell’abrogare l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 stabilisce chiaramente che «le disposizioni che richiamano tale articolo si intendono riferite all’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 in quanto compatibili». Vi è di conseguenza una ripresa di piena operatività, anche nel nuovo e generale abuso del diritto, della valutazione – in termini di esclusione dal campo di applicazione dell’abuso – fatta dal legislatore ai fini delle imposte sui redditi. Ma se prima del D.Lgs. n. 128/2015 si poteva affermare la scissione del comparto impositivo oggetto di applicazione dell’art. 37-bis citato rispetto all’art. 20 del TUR ora, con la rilevanza generale della norma anti-abuso e con la conseguente esclusione, ai fini dell’abuso del diritto, della rilevanza di principio di tali operazioni, tale effetto deve trasporsi anche nel comparto impositivo del tributo di registro.
Pena una diversa valutazione quanto ad effetti, all’apparenza irragionevole e per di più confliggente con l’apparato uniformante e coordinato del nuovo abuso del diritto di cui al D.Lgs. n. 128/2015.
Di conseguenza deve escludersi che i conferimenti di azienda seguiti dalla cessione delle partecipazioni ricevute, debbano essere considerati, ex ante, quali operazioni prive di sostanza economica e che realizzino vantaggi fiscali indebiti ai fini dell’imposta di registro. Ciò naturalmente non in termini assoluti in quanto dovrà verificarsi se, sulla base e alla luce dei criteri sanciti dall’art. 10-bis della legge n. 212/2000, nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 128/2015, non si realizzino vantaggi fiscali indebiti. Si deve, quindi, escludere che ex ante, per la sola circostanza che un’operazione di conferimento di azienda sia seguita da una cessione di partecipazioni, debba ritenersi sussistente una fattispecie di abuso del diritto, come tale esclusa – in linea di principio e salvo il concreto applicarsi dell’art. 10-bis – dall’art. 176 del TUIR.
Siffatta interpretazione non solo appare coerente e sistematicamente orientata alla necessaria e voluta visione uniformante dell’operatività della clausola generale anti-abuso, ma eliminerebbe – sull’assunto di una esclusione di rilevanza “a prescindere” di fattispecie abusiva – dubbi sulla compatibilità dell’art. 20 del TUR con la normativa comunitaria di cui alla Direttiva del Consiglio 12 febbraio 2008, n. 2008/7/CE sulla raccolta di capitali. Non risulterebbe coerente con il sistema che una operazione di ristrutturazione societaria per cui è esclusa la tassazione possa poi essere riqualificata solo perché a seguito del conferimento di azienda è stata trasferita la partecipazione ricevuta (44).
In conclusione appare quindi coerente con il sistema normativo interno in materia di abuso del diritto, nonché con il diritto comunitario in materia di tassazione indiretta sulla raccolta di capitali, conferire all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 la veste – originariamente attribuita dal legislatore ordinario e riconosciuta oltre che dalla dottrina anche dalla giurisprudenza – di norma interpretativa di sistema. Ossia di norma volta a sviscerare e a realizzare il meccanismo applicativo del tributo di registro rendendo operativa l’interpretazione dell’atto documentale sottoposto a registrazione nell’ottica del contenuto intrinseco e (solo) giuridicamente apprezzabile dello stesso – anche beninteso prescindendo da elementi soggettivi rilevanti – ma avuto riguardo al contenuto intrinseco dell’atto portato alla registrazione.
Resta a questo punto da capire se la ricerca della c.d. causa reale non assimili il processo interpretativo a quello anti-abuso e se, soprattutto, configuri una interpretazione coerente con il sistema del tributo di registro.
5. LA CIRCOLAZIONE INDIRETTA DELL’AZIENDA NELL’IMPOSTA DI REGISTRO DOPO L’ART. 10-BIS DELLA LEGGE N. 212/2000 – 6. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
La giurisprudenza, anche del 2016, della Corte di Cassazione non pare chiarire del tutto il ruolo e la portata dell’art. 20 del TUR soprattutto anche a seguito della nuova disciplina unitariamente intesa dell’abuso del diritto.
Le operazioni che più sovente sono riqualificate ai fini dell’imposta di registro sono ancora proprio quelle in cui una società costituisce una nuova società – o sottoscrive un aumento di capitale di una società esistente – alla quale conferisce un ramo di azienda e contestualmente, o in un arco temporale molto ridotto, trasferisce la partecipazione ottenuta ad un soggetto terzo.
Quelle che in precedenza si sono richiamate in quanto sovente pervenute fino alla Suprema Corte e oggetto di interpretazione in ottica anti-abuso.
Il ragionamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità più recente, tendenzialmente esclusa la portata antielusiva generale in materia di imposta di registro o quantomeno la sua rilevanza espressa, è che l’art. 20 del TUR abbia comunque riguardo a una c.d. causa reale e quindi agli effetti economicamente rilevanti e apprezzabili dell’operazione complessivamente intesa.
Questo tipo di riqualificazione degli atti negoziali – collegati tra di loro per soddisfare uno scopo pratico ulteriore rispetto a quello tipico di ciascuno – non appare legittimamente fondato, specie nei casi in cui non vi sia alcun frazionamento di un contratto tipico in più atti di identico contenuto, ma una sequenza di più atti dal contenuto eterogeneo. Se si tratta di una visione in ottica anti-elusiva la stessa non dovrebbe essere più consentita se non entro i limiti sostanziali e procedurali di cui all’art. 10-bis della legge n. 212/2000.
Né sembra ragionevole ipotizzare che l’art. 20 del TUR sia espressione di una terza via tra l’interpretazione civilistica e la disciplina anti-abuso, tenuto conto che gli effetti giuridici menzionati dall’art. 20 del TUR sono pur sempre quelli civilistici, senza che possano assumere rilevanza elementi estranei all’atto sottoposto a registrazione. Altrimenti si rischia di rivedere la stessa concezione del tributo di registro quale imposta d’atto in imposta sulle conseguenze economiche delle fattispecie contenute in documento da registrare.
Ciò porta a ritenere che, a seguito anche dell’assetto delineato dal D.Lgs. n. 128/2015, l’applicazione dell’imposta di registro possa travalicare gli effetti giuridici dei singoli atti negoziali e la sua tradizionale funzione di norma volta esclusivamente a cogliere l’effettiva natura giuridica degli atti solo in presenza dei presupposti e nel rispetto delle garanzie procedimentali dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000. Di conseguenza, al di fuori di queste ipotesi, si deve poter ritenere che l’art. 20 del TUR sia riconducibile alle norme afferenti a canoni interpretativi per la tassazione giuridica dell’atto sottoposto a registrazione, con la conseguenza che la norma sia da intendersi esclusivamente volta a cogliere l’effettiva natura giuridica degli atti al di là del nomen iuris utilizzato dalle parti.
In sostanza l’art. 20 del TUR dovrebbe quindi riguardare solo il caso in cui l’applicazione dell’imposta di registro dipenda – come avviene nella generalità dei casi – dalla natura giuridica dell’atto e si sia in presenza di una sequenza di negozi collegati che mantengano la loro causa tipica.
Nel caso specifico di un conferimento di azienda, seguito dalla cessione della partecipazione nella società conferitaria non appare sostenibile che il collegamento negoziale legittimi un inquadramento complessivo dell’operazione alla stregua di una cessione di azienda, rectius di una compravendita di beni dietro pagamento di un prezzo (45). Tale conclusione si pone in contrasto con il ruolo, la funzione, la natura e, quindi, la portata applicativa, fiscalmente intesa, dell’art. 20 del TUR.
Un conto, in sostanza, è l’analisi circa la sussistenza di cause potenzialmente patologiche quali quelle dell’abuso del diritto; altro e diverso profilo è quello della qualificazione giuridica degli atti sottoposti alla registrazione e, quindi, della loro effettiva qualificazione giuridica che porta ad escludere la riqualificabilità tout court in un unico contratto di compravendita del bene.
Se la qualificazione oggetto di indagine è una qualificazione giuridica, l’effetto di una cessione diretta di un bene non può affatto ritenersi equivalente, sotto il profilo giuridico, a quello di una cessione indiretta. Diversi sono i soggetti giuridici coinvolti e non è pensabile, proprio in considerazione della natura di imposta d’atto che ha l’imposta di registro, ipotizzare una scissione degli effetti giuridici rispetto alla “sostanza” degli effetti economici.
L’imposta di registro, invero, non colpisce il risultato economico della attività dei contribuenti bensì gli atti stipulati in relazione alla capacità contributiva che esprimono. Gli atti e non le attività quindi; ciò che è oggetto di cessione nell’atto e non gli effetti.
Se, invero, si pensa che la pluralità e diversità di strumenti giuridici debba condurre comunque a un unico risultato economicamente apprezzabile con conseguente applicazione della forma giuridica ritenuta più tipica o semplice od “ordinaria” si arriva al punto di rendere quasi arbitraria la scelta, prescindendo del tutto dalle regole giuridiche e dagli strumenti civilistici applicati. Se questo approccio, ex ante e a prescindere dalle specificità peraltro di ciascuna operazione fosse corretto, la c.d. causa reale in realtà sarebbe l’obiettivo ultimo ed economicamente apprezzabile delle operazioni poste in essere: sicché ogni fattispecie che realizzi un effetto traslativo della proprietà, anche attraverso una molteplicità di atti sottoposti a registrazione, dovrebbe sempre essere considerata e tassata in ragione dell’unitario fine economicamente apprezzabile del trasferimento della proprietà dell’azienda. Di conseguenza, ogni atto o diverse categorie di atti, che giuridicamente producono effetti diversi e ulteriori e non coincidenti tra loro, sarebbero di conseguenza sempre equivalenti sotto il profilo impositivo del registro.
In tale contesto, e qui sta il cuore del tema di discussione, si pone proprio l’orientamento giurisprudenziale (46) che pretende di applicare l’imposta proporzionale di registro prevista per la cessione a titolo oneroso dell’azienda ad operazioni di conferimento della stessa in società con successiva vendita delle quote. Secondo la giurisprudenza si raffigurerebbe un «programma negoziale unitario che … denota una intrinseca ed originaria natura cessoria di azienda, nella quale si esauriscono gli effetti giuridici sostanziali dei singoli atti tra loro collegati attraverso un vincolo di funzionale preordinazione» (47). Per la Corte di Cassazione l’Amministrazione finanziaria potrebbe valutare il collegamento tra i contratti, oltre che tra le operazioni societarie, senza un vincolo dato dalla necessità – imposta ex lege – di svolgere una esegesi di tipo esclusivamente testuale della veste giuridica (formale) assunta da ciascuno degli atti sottoposti a registrazione, considerando «preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni, non rivelandosi decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto» (48).
In questo modo si finisce infatti per reputare devianti – rispetto ad una idealizzata “sostanza economica” da tassare – percorsi negoziali perfettamente agibili dai contribuenti, e previsti dallo stesso legislatore, che accanto all’imposta proporzionale per la cessione d’azienda prevede la tassa fissa sia per il conferimento in società che per la cessione delle quote.
E si sposterebbe poi il ruolo di norma interpretativa in norma afferente al presupposto dell’imposta, ossia alla individuazione dell’oggetto da tassare, a qualcosa quindi di espanso rispetto al presupposto di imposta in via di interpretazione. Il canone ermeneutico sotteso all’art. 20 del TUR “presuppone” il presupposto e lo qualifica, non lo dovrebbe individuare anche tramite analisi delle risultanze economiche. Altrimenti si tassa una capacità contributiva ultronea rispetto a quella oggetto di qualificazione.
In tale ambito pare difficile comprendere la ragione per cui la cessione delle quote di una società già titolare di un’azienda possa avvenire senza pagamento dell’imposta proporzionale di registro, mentre invece debba essere assoggettata nel caso di cessione delle quote in cui l’azienda venga previamente conferita in società.
Il tema, peraltro, solleva anche altri problemi.
Come evidenziato da attenta dottrina (49), si pone il quesito se l’assoggettamento alle imposte proporzionali di registro, ipotecaria e catastale del conferimento d’azienda eseguito in sede di costituzione di una società di capitali o di aumento del suo capitale, anche se sia seguito dalla vendita a terzi della partecipazione nella società conferitaria, sia compatibile con le Direttive del Consiglio 17 luglio 1969, n. 69/335/CEE e 12 febbraio 2008, n. 2008/7/CE, concernenti le imposte indirette sulla raccolta di capitali. La sussistenza di una tale incompatibilità imporrebbe al giudice e alla Amministrazione finanziaria di disapplicare la norma interna, nella specie proprio l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, in forza dell’art. 12 della Direttiva 69/335/CEE, nonché dell’art. 6 della Direttiva 2008/7/CE, quand’anche la prima di tali disposizioni consentisse di assoggettare ad imposta proporzionale di registro l’operazione di conferimento poi seguita dalla cessione delle quote della conferitaria.
6. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Nel nuovo contesto normativo l’art. 20 del TUR deve poter esser ricondotto al suo ruolo originario di norma non “anti-elusiva” bensì di norma interpretativa, in base alla quale per la tassazione agli effetti dell’imposta di registro non ci si deve fermare alla apparenza esteriore dell’atto ma occorre verificarne la sostanza, cosicché l’art. 20 del TUR non potrebbe essere invocato per qualificare come abusivo il collegamento tra i negozi della fattispecie in esame.
Ciononostante, anche alla luce della nuova definizione dell’abuso del diritto in materia tributaria, discende che se è disposta una certa tassazione di una data fattispecie (cessione di ramo d’azienda) non si può giungere alla medesima situazione sostanziale vendendo separatamente singoli beni, con applicazione dell’IVA. Tale ipotesi parrebbe dover essere ricondotta all’applicazione dell’art. 20 del TUR non in funzione anti-elusiva ma correlata alla qualificazione in concreto degli effetti giuridici degli atti posti alla registrazione.
Per altro verso, nella ipotesi in cui le parti abbiano concordato un conferimento e successiva cessione della partecipazione nella conferitaria non paiono sussistere ai fini dell’imposta di registro i presupposti per l’applicazione, in quanto tale, di un principio di abuso del diritto né comunque una diversa riqualificazione della operazione in base all’art. 20 del TUR. Non si ravvisa, invero, alcuna violazione di norme di tributarie e non si «realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti». In altre parole la scelta tra cedere il bene di primo grado (il ramo d’azienda) o alienare il bene di secondo grado (le quote o azioni rappresentative dello stesso ramo d’azienda) non potrà più essere considerata ex se elusiva/abusiva sia ai fini delle imposte dirette che indirette (50).
Tale scelta sarà effettuata dalle parti, in considerazione di specifiche e valide ragioni extrafiscali, quali la necessità di segregazione patrimoniale ovvero ancora una esigenza imprenditoriale o di avviare una joint venture, o anche di optare per un diverso regime delle responsabilità fiscali rivenienti dal trasferimento.
Peraltro e in conclusione, appare del tutto irragionevole, anche sotto il profilo sistematico che una determinata fattispecie sia, per espressa previsione normativa (ex art. 176, terzo comma, del TUIR) tale da escludere una condotta abusiva e, per altro verso, debba poi essere diversamente interpretata e “riqualificata” sotto il profilo degli effetti economici nel comparto impositivo che invece ne considera, o almeno così dovrebbe, considerare, esclusivamente i profili giuridici.
Le suddette considerazioni rendono auspicabile una evoluzione interpretativa che, al di là dei profili abusivi (che, in quanto implicanti valutazioni di fatto e in concreto potrebbero essere verificate e sussistere quindi in determinati casi) sia da escludere in linea di principio che una operazione di conferimento di azienda, seguita da una cessione delle quote della conferitaria, sia ai fini del tributo di registro, sempre e comunque una operazione di vendita di azienda e quindi riqualificabile – in ragione dei profili economici – quale operazione da assoggettare ad aliquota proporzionale del tributo di registro. Altrimenti, e meglio ancora, si imporrebbe un auspicabile intervento chiarificatore a livello legislativo.
Avv. Alberto Alfredo Ferrario
(1) Per citarne una recente cfr. Cass., sez. trib., 29 aprile 2016, n. 8542, in Boll. Trib. On-line.
(2) Cfr. F. BATTISTONI FERRARA, Atti simulati ed invalidi nell’imposta di registro, Napoli, 1969, 18 ss.; S. GHINASSI, L’imposta di registro, in P. RUSSO (A CURA DI), Manuale di diritto tributario, Milano, 2009, 366; e P. BORIA, Il sistema tributario in Italia, Torino, 2008, 746.
(3) Cfr. G. MARONGIU, L’elusione nell’imposta di registro, tra abuso del diritto e abuso di potere, in Dir. prat. trib., 2008, I, 1067 ss.
(4) Cfr. G. MARONGIU, op. loc. cit., 1079, il quale evidenzia che l’Ufficio finanziario «non può, invece, mai andare al di là della qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un’interpretazione complessiva dell’atto».
(5) Cfr. V. UCKMAR – R. DOMINICI, Registro (imposta di), in Dig. disc. priv., XII, Torino, 1999, 260; e B. SANTAMARIA, Registro (imposta di), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 542.
(6) Cfr. Cass., sez. trib., 25 febbraio 2002, n. 2713, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. A. BUSANI, L’imposta di registro, Milano, 2009, 41 ss.
(8) L’art. 8, primo comma, del R.D. n. 3269/1923, disponeva che «Le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».
(9) Cfr. A. BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1960, 141 ss.; A. UCKMAR – V. UCKMAR, Registro (imposta di), in Nov. dig., XV, 1968, 45 ss.; e G.A. MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, 76.
(10) Cfr. B. GRIZIOTTI, Il principio della realtà economica negli artt. 8 e 68 della legge di registro, in Riv. fin., sc. fin., 1939, II, 202 ss.; e D. JARACH, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, Padova, 1937, 41 ss.
(11) Cfr. D. JARACH, Metodo e risultati nello studio delle imposte di registro, in Dir. prat. trib., 1938, I, 98 ss., per il quale, identificata la causa dell’imposta nella capacità contributiva, «ne discende la logica conseguenza dell’applicazione delle tasse di registro agli atti secondo il loro contenuto economico, e non secondo il loro travestimento giuridico. Dico travestimento, perché quando la veste giuridica è normale e si adatta perfettamente al contenuto economico dell’atto non v’è ragione di distinguere tra natura economica e natura giuridica».
(12) Cfr. altresì l’art. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634, a norma del quale era stabilito che le imposte sono applicate secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente.
(13) Cfr. per l’approfondimento del tema circa la natura degli effetti, giuridici o economici, degli atti sottoposti a registrazione G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 244 ss.; V. DONNAMARIA, L’imposta di registro nel testo unico, Milano, 1987, 50; e V. UCKMAR – R. DOMINICI, Registro (imposta di), in Nov. dig. it., Appendice VI, Torino, 1986, 553.
(14) Cfr. Cass., sez. trib., 10 febbraio 2016, n. 2636, in Boll. Trib. On-line. Ved. altresì Cass. n. 2713/2002, cit.; e Cass., sez. trib., 4 maggio 2009, n. 10180, in Boll. Trib., 2010, 226.
(15) Cfr. Cass., sez. trib., 12 maggio 2008, n. 11769, e Cass., sez. trib., 11 giugno 2007, n. 13580, entrambe in Boll. Trib. On-line.
(16) Cfr. Cass., sez. trib., 29 aprile 2010, ord. n. 10273, e Cass., sez. trib., 30 maggio 2005, n. 11457, entrambe in Boll. Trib. On-line.
(17) Cfr. F. TESAURO, Compendio di diritto tributario, Torino, 2004, 407, per il quale «è in relazione al contenuto e alla funzione economica dell’atto che l’imposta trova giustificazione sul piano costituzionale, di fronte all’esigenza che i tributi incidano su situazioni indicative di capacità economica».
(18) Cfr. A. BUSANI, L’imposta di registro, op. cit., 40, il quale precisa che «la disciplina dettata dal legislatore del registro si caratterizza, infatti, per un costante riferimento non tanto a determinati tipi di atti o di negozi, quanto all’effetto giuridico da essi prodotto».
(19) Cfr. B. FERRONI, Abuso del diritto e imposta di registro: il nuovo corso della cessione indiretta di azienda, in il fisco, 2016, 1207 ss.
(20) Cfr. circ. Assonime 12 marzo 1973, n. 48. Questa osservazione deve condurre a una più rigorosa e precisa delimitazione del contenuto giuridico di un atto e non di sostanze economiche o di fini economici.
(21) Cfr. Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465, in Boll. Trib., 2009, 486; e Cass., sez. trib., 26 febbraio 2010, n. 4737, ivi, 2010, 990.
(22) Cfr. Cass., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12042, in Boll. Trib., 2009, 1223, con nota di F. BRIGHENTI, Abuso del diritto: sì al recupero dell’imposta, no alle sanzioni.
(23) Cfr. Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Boll. Trib., 2009, 484; Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30056, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30057, in Boll. Trib., 2009, 481.
(24) Si vedano, altresì, altre sentenze, quali Cass., sez. trib., 23 novembre 2001, n. 14900, in Boll. Trib., 2002, 798; Cass. n. 2713/2002, cit.; e Cass., sez. VI, 19 marzo 2013, ord. n. 6835, in Boll. Trib. On-line.
(25) In tal senso si veda Cass., sez. VI, 13 marzo 2014, ord. n. 5877, in Boll. Trib. On-line, la quale ha ribadito che il principio secondo cui, in forza del diritto comunitario, non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano “abuso del diritto”, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, deve estendersi a tutti i settori dell’ordinamento tributario, e dunque anche all’ambito delle imposte indirette, prescindendosi dalla natura fittizia o fraudolenta della operazione stessa, essendo all’uopo sufficiente anche la mera prova presuntiva. Incombe sul contribuente la prova dell’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti con carattere non meramente marginale o teorico.
(26) Cfr. F. BARDINI – D. STEVANATO, Partita ancora da giocare su conferimento/cessione d’azienda nell’imposta di registro, in Dial. trib., 2014, 398; F. GALLIO, Conferimento di azienda e cessione di partecipazioni senza elusione d’imposta di registro, in Corr. trib., 2011, 3221; R. LUPI – G. SEPIO, Contro la riqualificabilità, come cessione di azienda, del conferimento seguito da cessione delle partecipazioni, in Dial. trib., 2010, 108; e Consiglio Nazionale del Notariato, studio n. 95/2003/T.
(27) Cfr. ex multis Cass., sez. I, 23 gennaio 1990, n. 353, in Boll. Trib. On-line.
(28) Nello Studio si evidenzia che l’imposta di registro, infatti, è un’imposta “d’atto”, sicché l’interpretazione dell’atto da registrare non può essere effettuata avvalendosi di elementi ad esso estranei; a ciò si aggiunge che l’art. 21 del D.P.R. n. 131/1986 attribuisce rilevanza al collegamento negoziale tra più disposizioni, nel solo caso in cui esse siano comprese nel medesimo atto. Al di fuori di tale disposizione generale, il collegamento negoziale è preso in considerazione dal D.P.R. n. 131/1986 solo in specifiche ipotesi espressamente individuate (ad esempio, dall’art. 22 del TUR relativo alle pertinenze). Pertanto, non è possibile attribuire rilevanza al collegamento tra più atti in ipotesi non espressamente individuate dal D.P.R. n. 131/1986. Secondo il Consiglio Nazionale del Notariato, «deve quindi decisamente negarsi che – di fronte ad una pluralità di atti, tra loro collegati in vista del conseguimento di un effetto complessivo, ulteriore rispetto agli effetti giuridici dei singoli atti (c.d. contratti a gradini, o step transaction) – l’Ufficio possa far valere il collegamento ai fini dell’imposizione di registro, e quindi – interpretando l’atto sottoposto a registrazione unitamente ad altri atti ad esso collegati – tener conto di un presunto “effetto giuridico unitario”».
(29) Cfr. oltre alle sentenze in precedenza citate anche spec. Cass. n. 2713/2002, cit.
(30) Cfr. Cass., sez. VI, 13 marzo 2014, ord. n. 5877, in Boll. Trib. On-line.
(31) Cfr. Cass., sez. trib., 4 febbraio 2015, n. 1955, in Boll. Trib. On-line.
(32) Cfr. Cass., sez. trib., 11 giugno 2014, n. 13146, in Boll. Trib. On-line.
(33) Cfr. Cass., sez. trib., 6 giugno 2014, n. 12775, in Boll. Trib. On-line.
(34) Cfr. Cass., sez. trib., 28 febbraio 2010, n. 4269, in Boll. Trib. On-line, ove si statuisce che «Se un soggetto adotta un atto di conferimento in società di un immobile gravato da finanziamento ipotecario e poi il conferente stesso cede alla società conferitaria le quote acquisite con il conferimento, i due comportamenti realizzano effetti parziali che, autonomi dal punto di vista civilistico, secondo la legge sull’imposta di registro sono meramente strumentali rispetto all’effetto giuridico finale prodotto dall’intera fattispecie complessa e costituito dal trasferimento dell’immobile alla società». Per questo motivo i due negozi, in tal caso, secondo la Corte di Cassazione debbono essere considerati come un fenomeno unitario, non solo perché ciò è consentito dall’interpretazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, ma anche perché tale interpretazione è l’unica conforme al principio costituzionale di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.), richiamando altro precedente giurisprudenziale per cui, «tiene conto della potenza economica effettiva espressa dai soggetti con i loro atti formalmente separati, ma funzionalmente connessi, dal punto di vista tributario, in maniera inscindibile» (così Cass. n. 2713/2002, cit.).
(35) Cfr. Cass. n. 2636/2016, cit.
(36) In tal modo, questa giurisprudenza ammette rilievo preminente, nell’imposizione del negozio, alla sua causa reale e alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti (cfr. Cass., sez. trib., 22 gennaio 2013, n. 1405; Cass., sez. trib., 20 dicembre 2012, n. 23584; Cass., sez. trib., 4 maggio 2007, n. 10273; Cass., sez. trib., 7 marzo 2003, n. 10660, tutte in Boll. Trib. On-line; e Cass. n. 2713/2002, cit.).
(37) Cfr. Cass. n. 14900/2001, cit.; Cass. n. 10660/2003, cit.; Cass., sez. trib., 14 febbraio 2014, n. 3481; e Cass., sez. VI, 2 dicembre 2015, ord. n. 24594; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(38) Cfr. Cass., sez. trib., 11 maggio 2016, n. 9582, in Boll. Trib. On-line.
(39) Cfr. Cass. n. 8542/2016, cit.
(40) Cfr. D. STEVANATO, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche. Anatomia di un equivoco, in Dir. prat. trib., 2015, I, 695 ss., spec. 701, ove si afferma che «L’errore di fondo della prospettiva ricostruttiva maggioritaria è però quello di pensare che esista un unico “percorso giuridico”, un solo schema negoziale in grado di fornire adeguata o corretta rappresentazione ad un certo obiettivo economico, e non invece una pluralità di strumenti e percorsi rispetto ai quali sarebbe assai difficile e comunque opinabile assegnare una patente di “normalità”, stabilire una scala di priorità o una gradazione in termini di meritevolezza. Non vi è dubbio che le fattispecie impositive, che fanno spesso riferimento a tipi contrattuali e figure tratte dal diritto dei privati (compravendita, usufrutto, conferimento, locazione, mandato, etc.), rilevano per la sottostante «sostanza economica», giacché le imposte si applicano su indici di capacità contributiva e forza economica; il loro obiettivo è infatti misurare la ricchezza su cui prelevare l’imposta, e per farlo le norme tributarie sfruttano le occasioni in cui tale ricchezza si manifesta nel mondo degli affari, negli scambi che hanno luogo sul mercato, più in generale nelle sistemazioni di interessi economico-patrimoniali tra privati. Mi sembra tuttavia illusorio pretendere di ravvisare una corrispondenza univoca tra «sostanza economica» su cui esercitare il prelievo e “forma giuridica” idonea a rappresentarla, tanto da ricondurre alla prima, quoad effectum, anche tutte le altre possibili “forme” non ritenute normali nel perseguire quel certo risultato pratico».
(41) Cfr. A. GIOVANNINI, L’abuso del diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2016, I, 895 ss., il quale afferma che «L’abuso si traduce in un comportamento contrario alle regole di condotta improntate alla buona fede in senso oggettivo; comportamento che il contribuente tiene a danno dello Stato per il raggiungimento di finalità estranee a quelle che lo Stato stesso protegge con la disciplina sostanziale del rapporto d’imposta»; e F. GALLO, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315 ss. Sul tema cfr. anche il recente studio del Consiglio Nazionale del Notariato 56-2016, Abuso del diritto nella pratica notarile: rilevanza delle valide ragioni extrafiscali nelle operazioni societarie straordinarie.
(42) Questa conclusione appare avvalorata anche dalla relazione governativa allo schema di decreto legislativo poi adottato con il D.Lgs. n. 158/2015 che espressamente comprende l’art. 20 del TUR fra le disposizioni anti-elusive esistenti nell’ordinamento.
(43) La relazione governativa, soffermandosi sulla collocazione della nuova disciplina anti-abuso nello Statuto dei diritti del contribuente, afferma che tale collocazione «muove dall’esigenza di introdurre un istituto che, conformemente alle indicazioni della legge delega, unifichi i concetti di elusione e di abuso e conferisca a questo regime valenza generale con riguardo a tutti i tributi, sia quelli armonizzati, per i quali l’abuso trova fondamento nei principi dell’ordinamento dell’Unione europea, sia quelli non armonizzati, per i quali – come si è visto – il fondamento è stato individuato dalla Corte di Cassazione nel principio costituzionale della capacità contributiva».
(44) La proprietà di azioni o quote non potrebbe essere limitata o penalizzata assoggettando a tassazione proporzionale l’operazione. Se tale limitazione, fatta salva l’operatività in concreto del principio dell’abuso del diritto, fosse ammessa si violerebbe la Direttiva comunitaria in quanto l’imposta proporzionale di registro verrebbe giocoforza riferita all’originario conferimento di azienda (che dovrebbe invece essere esente) oltre che alla successiva cessione della partecipazione.
(45) Di diverso avviso, come è noto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione; sul punto cfr. Cass. n. 9582/2016, cit.; Cass., sez. trib., 29 arile 2015, n. 8655; Cass., sez. trib., 14 febbraio 2014, n. 3482; e Cass., sez. trib., 28 giugno 2013, n. 16345; tutte in Boll. Trib. On-line.
(46) Cfr., da ultimo Cass., sez. trib., 18 maggio 2016, n. 10216; Cass., sez. trib., 11 maggio 2016, nn. 9573, 9574, 9576 e 9578; e Cass., sez. trib., 18 dicembre 2015, n. 25487; tutte in Boll. Trib. On-line.
(47) Cfr. Cass. n. 10216/2016, cit.
(48) Così Cass. n. 10216/2016, cit.; e Cass. n. 25487/2015, cit.
(49) Cfr. G. ESCALAR, Compatibilità comunitaria delle imposte indirette sul conferimento di azienda e successiva vendita di partecipazione, in Corr. trib., 2016, 2268 ss., spec. 2275, il quale ravvisa tale incompatibilità: «il solo conferimento di un’azienda eseguito in sede di costituzione di una società di capitali o di aumento del suo capitale che sia seguito dalla vendita della partecipazione nella società conferitaria sarebbe assoggettato alle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura proporzionale, ancorché tutti gli altri conferimenti di aziende siano invece soggetti a queste medesime imposte in misura fissa. In sostanza, questa sola operazione di conferimento sarebbe assoggettabile ad un livello di imposizione ben superiore a quello a cui sarebbero soggette tutte le altre similari operazioni di conferimento in violazione dell’art. 12 della Direttiva 69/335/CEE e dell’art. 6 della Direttiva 2008/7/CE».
(50) Per un’altra peculiare e interessante fattispecie, si veda la sentenza di Comm. trib. II grado di Trento 6 maggio 2016, n. 46 (in Boll. Trib., 2016, 1591, con magistrale nota di M. BEGHIN, La vendita delle partecipazioni post affrancamento, l’elusione tributaria e il rasoio di Occam), secondo cui la vendita di partecipazioni societarie, perfeziona¬ta dopo l’affrancamento delle azioni o delle quote attra¬verso il pagamento dell’imposta sostitutiva, non elude la vendita dei beni immobili appartenenti alla società partecipata, e ciò anche nel caso in cui, prima della vendita delle azioni o delle quote da parte dei soci, la società abbia ceduto la propria azienda e abbia mante¬nuto nel proprio patrimonio soltanto il complesso im¬mobiliare, non configurandosi alcuna elusione fiscale perché, una volta che sia stato effettuato l’affranca¬mento, la cessione delle partecipazioni rappresenta lo strumento negoziale “naturale” per il trasferimento a terzi (gli acquirenti e, a questo punto, nuovi soci) della disponibilità dei citati beni immobili, con conseguente insussistenza del realizzo di plusvalenze patrimoniali da parte della società e inesistenza di utili e redditi non dichiarati, dato che la società stessa non ha compiuto alcuna cessione immobiliare.