Le Commissioni tributarie sono, sotto il profilo soggettivo, giudici speciali e, sotto quello ordinamentale, organi di giurisdizione speciale amministrativa.
Entrambi i suddetti profili sono contraddistinti da gravi criticità che incidono negativamente sull’attuale sistema di giustizia tributaria.
Il giudice è finalmente divenuto generale e esclusivo per tutte le liti che coinvolgono uno specifico rapporto di imposta; ma è ancora ben lontano da integrare quel modello di giudice indipendente, terzo e imparziale, disegnato in Costituzione (artt. 106, 108 e 111), che costituisce un prerequisito imprescindibile per la realizzazione del giusto processo, concepito quale forma di attuazione esclusiva della funzione giurisdizionale in qualunque settore dell’ordinamento. Quel modello è infatti esclusivamente assicurato da una magistratura di carriera selezionata tramite un concorso pubblico per esami che accerti la competenza e la idoneità tecnica della persona abilitata all’esercizio della funzione; mentre il giudice tributario non è né un giudice professionale, perché non a tempo pieno e non reclutato per concorso, né un giudice specializzato, perché non sempre fornito di titoli idonei: è soltanto un giudice speciale, i.e. estraneo all’ordinamento giudiziario, e, per giunta, soltanto onorario.
Il principale vulnus è dunque rappresentato dall’attuale sistema di reclutamento dei componenti delle Commissioni tributarie, ove gli stessi giudici c.d. togati sono giudici part time, in quanto professionalmente impegnati nelle funzioni proprie delle magistrature di appartenenza; nell’esercizio delle quali, non è richiesta una particolare cultura in materia tributaria. Di contro, i giudici c.d. laici provengono in misura prevalente da categorie professionali che continuano a svolgere attività troppo spesso “contigue” a quelle esercitate da coloro che assistono i contribuenti nelle controversie fiscali.
Ciò determina, a tacere d’altro, una disomogeneità della forma mentis e dello status dei componenti dei collegi giudicanti che si riflette inevitabilmente anche nel modo di giudicare e di redigere le sentenze (e segnatamente nel basso livello qualitativo delle stesse, principale causa dell’intasamento della Sezione Tributaria della Cassazione), posto che la funzione di giudice non si improvvisa e neppure può essere retrocessa al rango di un “dopolavoro” (1).
Come acutamente è stato osservato da F. Tesauro, «se una giurisdizione può essere esercitata anche da giudici onorari, è difficile ammettere che possa essere esercitata solo da giudici onorari» (2).
Quanto al profilo ordinamentale, anzitutto non è lecito dubitare che debba essere la specialità della giurisdizione, in quanto dotata di una intrinseca ragione d’essere, a giustificare la eventuale specialità del giudice e non viceversa, come invece accade in questo delicato comparto dell’ordinamento giurisdizionale (fermo restando comunque – come già detto – che un giudice speciale non deve immedesimarsi necessariamente in un giudice onorario).
Senonché, se si escludono le questioni di pura estimazione, ormai largamente recessive sul terreno del diritto positivo (e per la cui risoluzione nel passato era stata invocata la necessaria conoscenza di un particolare sapere tecnico extra-giuridico da parte dell’organo giudicante), l’asserita specialità della materia tributaria non è stata mai sufficientemente elaborata e chiarita sul piano dogmatico, tanto da consentire di tenerla concettualmente distinta dalla mera specificità od autonomia. D’altra parte, anche il richiamo alla natura “seriale o di massa” delle controversie tributarie (addotta, autorevolmente, come legittimazione della giurisdizione speciale) è ormai definitivamente contrastato dalla complessità del diritto positivo e dall’affinamento delle metodologie accertative; infatti, la stragrande maggioranza delle liti (salvo le catastali), anche se di modesto importo, non sono definibili come uniformi, i.e. riferibili ad intere classi di rapporti, ma sono liti individuali e di qualità, le quali possono giustificare forme di tutela differenziate rispetto a quanto garantito da altri modelli di processo, ma difficilmente possono legittimare una giurisdizione speciale ad hoc, sia essa poi concepita come giurisdizione su diritti o su interessi oppure su entrambi.
In buona sostanza (e senza qui prendere partito sul delicato interrogativo di quale giurisdizione ordinaria, civile o amministrativa, debba riappropriarsi dello spazio occupato dalle Commissioni), sembra lecito affermare che non è stato, almeno sinora, persuasivamente dimostrato (salvo addurre ragioni meramente contingenti) che la specialità/specificità della materia tributaria imponga di privilegiare la sopravvivenza di una giurisdizione speciale amministrativa, sia pure “revisionata” ai sensi della VI disp. trans. Cost., piuttosto che attribuire la competenza ad una sezione specializzata, interna ad una delle istituzioni giudiziarie previste in Costituzione, secondo il modello indicato dall’art. 102, secondo comma, Cost.
In quest’ottica, la recente proposta di legge n. 3734 dell’8 aprile 2016, d’iniziativa dei deputati di Ermini, Ferranti ed altri, volta a sopprimere gli attuali organi di giustizia tributaria e trasferire la giurisdizione al giudice civile, ha, se non altro, il merito di avere sollevato il problema alla radice, avendo posto al centro del dibattito l’esigenza di una riconsiderazione dell’intero sistema della giustizia tributaria di merito, specie dopo taluni inquietanti episodi che l’hanno coinvolta.
A questo punto, le soluzioni, a mio avviso, più persuasive sono due:
– o si sopprime la giurisdizione speciale e si riespande quella generale, civile o amministrativa che sia, lasciando eventualmente in vita le Commissioni solo come organi amministrativi (opzionali) di conciliazione per le controversie di modesto valore;
– o si sceglie per il mantenimento della giurisdizione speciale, affidandola ad una vera magistratura professionale tributaria: ma allora si devono pregiudizialmente individuare, e soprattutto dimostrare, le ragioni intrinseche della sua esistenza, le quali non possono essere ridotte alla circostanza che essa funge da facile copertura alla sopravvivenza di un giudice speciale, part time, la cui permanenza viene invocata essenzialmente per il suo basso costo, per la rapidità delle sue decisioni e per il sovraccarico di lavoro che altrimenti graverebbe sulle altre giurisdizioni ordinarie.
Se però si sceglie questa seconda ipotesi, la trasformazione in una giurisdizione esclusiva per materia dovrebbe ricomprendere ogni tipo di controversia originata dall’applicazione-interpretazione delle norme tributarie; il che implica una plenitudo potestas decidendi: val quanto dire, la estensione della competenza del giudice speciale non soltanto agli atti intermedi ed agli interpelli, ma a tutti gli atti istruttori lesivi di diritti costituzionalmente garantiti, con accessoria pronuncia anche in ordine al risarcimento dei danni consequenziali; in secondo luogo, sarebbe auspicabile l’assorbimento nella giurisdizione speciale anche delle liti di rivalsa sui tributi, onde evitare la scissione del processo su questioni legate dal rapporto di pregiudizialità-dipendenza affidate a giurisdizioni diverse.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha già fornito importantissime indicazioni, laddove ha ridisegnato il diritto vivente con sentenze che si discostano largamente dal diritto scritto per conformarlo al primitivo schema di riforma – quello cioè che ha preceduto il decreto delegato del 1972 – ove l’azione generale di accertamento coesisteva con l’azione di impugnazione, sottoposta a termine decadenziale, nei confronti di atti nominati, considerati tuttavia non tassativi, ma esemplificativi.
Altrimenti detto, aboliti senza troppe difficoltà i limiti interni o verticali alla giurisdizione, ugualmente è stata superata l’intima filosofia che aveva originariamente ispirato il processo tributario, concepito come processo semplificato e di massa, ove le occasioni di tutela non erano rimesse alla valutazione dell’attualità dell’interesse concreto al ricorso, ma erano ancorate alla predeterminazione normativa degli atti considerati oggettivamente lesivi della situazione soggettiva del contribuente.
È infatti accaduto che:
– la nozione di atto di imposizione si è ormai svuotata di ogni connotato di imperatività, riducendosi ad un semplice logo che indica un presupposto processuale di qualsiasi tipo di azione;
– il riconoscimento di una tutela facoltativa ed anticipata nei confronti di atti innominati, non aventi natura autoritativa e quindi insuscettibili di consolidare i propri effetti, ha spianato la strada alle azioni di accertamento, le quali sono affrancate da termini di decadenza, anche se possono essere introdotte con modalità formalmente impugnatorie.
In conclusione, decretando la fine del principio di tipicità degli atti impugnabili, il Supremo Collegio ha prodotto una insanabile rottura del vigente sistema ordinamentale dalle cui spoglie può sorgere, oltre ad un nuovo modello di processo, anche un nuovo tipo di giurisdizione, non solo esclusiva, ma anche piena e non “asimmetrica” (3) e, soprattutto, svincolata, per quanto possibile, da condizionamenti dogmatici di origine dottrinaria.
Prof. Giuliano Tabet
già Ordinario di diritto tributario
nell’Università di Roma “Sapienza”
(1) L. ROVELLI, La giurisdizione tributaria, in Per un nuovo ordinamento tributario, Atti preparatori, 2016, II, 766.
(2) Così F. TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2016, 8.
(3) Cfr. A. MARCHESELLI, Contributo unificato “diseguale” e giurisdizione tributaria “asimmetrica”, in Corr. trib., 2016, 2765.