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SUGLI ELEMENTI IDENTIFICATIVI E QUALIFICANTI DEGLI ENTI NON COMMERCIALI
Nel caso deciso si discuteva della tassazione di un ente non commerciale che, secondo l’Ufficio finanziario, aveva perduto tale qualifica avendo esercitato attività prevalentemente commerciale. In particolare, per soddisfare lo scopo primario di interesse generale indicato nello statuto (ossia la diffusione della musica jazz e la sua valorizzazione per la crescita culturale della collettività) l’ente verificato si era avvalso di eventi riconducibili tra le attività di cui all’art. 55 del TUIR. Tra questi, l’organizzazione di un festival musicale all’interno del quale erano stati inseriti alcuni concerti a pagamento.
La Commissione ha condiviso l’asserto dell’ente ricorrente secondo cui il fatto che alcuni concerti jazz fossero stati effettuati a pagamento non faceva divenire l’associazione un’impresa commerciale, essendo ciò in linea con il suo carattere funzionale, volto per l’appunto alla diffusione di un tale genere musicale.
L’annotata sentenza si fa apprezzare per il percorso argomentativo attraverso il quale il giudice è pervenuto a decidere in tal senso. Per la motivazione, e, cioè, per dirla con le parole dell’art. 36 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per l’esposizione dei fatti rilevanti della causa e per le ragioni giuridiche della decisione.
In relazione alla premessa di fondo, secondo cui l’applicazione dei benefici fiscali non può essere legata alle indicazioni che una determinata associazione dà di se stessa nell’ambito dello statuto, enunciazioni «che nulla valgono se poi manca la riprova in fatto di quanto si invoca», c’è da dire che il dato testuale del quarto comma dell’art. 73 del TUIR afferma che l’oggetto principale di un ente è quello indicato nell’atto costitutivo, e che con tale espressione «si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto».
Sul piano prettamente letterale la norma parrebbe dunque forzata. Considerazioni di sistema portano tuttavia a sostenere il contrario.
In primo luogo, perché non può essere consentito, sul piano della razionalità, che questi enti possano diventare arbitri della loro tassabilità attraverso la redazione dello statuto (1).
Poi perché la norma di cui alla lett. c) del primo comma dell’art. 73 del TUIR non può essere letta da sola, ma unitamente a quella di cui all’art. 149 sulle condizioni per poter usufruire della qualificazione di ente non commerciale, «indipendentemente dalle previsioni statutarie».
Il fatto che la rubrica di detta norma sia intestata alla perdita di una tale qualifica poco rileva sul piano della esegesi complessiva e porta soltanto a dire che le enunciazioni, denominazioni o qualificazioni contenute nello statuto dell’ente sono il punto di partenza per l’esame del regime di tassazione applicabile (2). Quello che rileva, sul piano della sostanza, è il rispetto dei parametri che sono menzionati, da controllare opportunamente per ciascun periodo d’imposta.
Tale compito non è per nulla facile. A parte il riscontro dei dati contabili menzionati al secondo comma di tale articolo, riscontro eminentemente matematico, è la definizione di ente non commerciale che solleva difficoltà, in quanto essa è ricavabile soltanto in termini negativi rispetto a quanto indicato nell’art. 2195 c.c. e attingendo da singole leggi come ad esempio la legge 16 dicembre 1991, n. 398, sulle associazioni sportive, il D.L. 30 dicembre 991, n. 417 (convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1992, n. 66), sulle pro loco, e, da ultimo, il D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, sulle Onlus. Oppure ancora, di nuovo in negativo, dalla circolare 29 marzo 2013, n. 7/E (3), laddove, trattando del requisito della commercialità delle imprese, la Direzione dell’Agenzia delle entrate ha affermato che «si è in presenza di “una impresa commerciale” solo se la società è dotata di una struttura operativa idonea alla produzione e/o alla commercializzazione di beni o servizi potenzialmente produttivi di ricavi e dispone della capacità, anche solo potenziale, di soddisfare la domanda del mercato nei tempi tecnici ragionevolmente previsti in relazione allo specifico settore economico di appartenenza».
La Commissione tributaria pesarese si è fatta carico di tutto ciò e la traccia della sua ricognizione è alla fine una sorta di linea guida per inquadrare gli enti del terzo settore nel loro rapporto con il fisco che, molto spesso, e questo non occorre certo sottolinearlo, sono caratterizzati dalla frode (4).
Si parte dal numero dei soci che compongono l’associazione. Poco conta se questo numero è modesto e il fatto che si riuniscano con sistematicità in assemblea. Sono dati formali, come tali irrilevanti ai fini della determinazione del presupposto oggettivo d’imposta.
Quello che rileva è il fatto che l’ente persegua il suo obiettivo, la realizzazione dello scopo primario indicato nello statuto, e che il carattere dell’attività svolta non prevalga sulle esigenze che la medesima è preordinata a soddisfare (5). In tale senso poco conta, dunque, il fatto che la gestione dell’attività avvenga secondo principi economici. Posto che nessuna norma prevede che l’ente debba agire in perdita (6), quello che conta è la destinazione dell’utile.
Se quello eventualmente conseguito è destinato ad essere prima o poi distribuito a soci, associati o partecipanti, ci si trova indubbiamente di fronte ad un ente strumentale alla realizzazione di un lucro, seppure dissimulato attraverso la fissazione di uno scopo sociale.
Se, invece, sullo sfondo di questo ente non esiste un beneficiario ultimo della ricchezza eventualmente prodotta e, ancora, se l’ente non è strutturato per farla consumare da una precisa e ristretta cerchia di soggetti, ci si trova di fronte ad un ente che ha effettivamente spersonalizzato questa ricchezza, per renderla compatibile con il soddisfacimento delle esigenze associative di interesse generale. Chiaro a questo proposito l’esempio delle case di riposo i cui promotori, pur non prelevando alcunché a titolo di utile, ricevono compensi a vario titolo, che spesso altro non sono se non il tipico compenso imprenditoriale.
In conclusione, quello che rileva ai fini del regime di tassazione degli enti non commerciali non è tanto il fatto che venga prodotto un reddito, quanto piuttosto che questo reddito venga reimpiegato per i fini istituzionali, autonomi rispetto all’attività commerciale che l’ha prodotto.
Tale è la chiave di volta della questione che ci interessa. Se i proventi così prodotti vengono impiegati per il sostentamento dell’associazione e delle sue iniziative, se in capo a soggetti terzi manca la prospettiva di una distribuzione a loro favore o, comunque, di una loro personale utilizzazione, così impedendone la destinazione a finalità estranee all’oggetto dell’associazione, se il carattere dell’attività svolta perde rilievo di fronte alle esigenze che la medesima è preordinata a soddisfare (7), se le «entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative» prevalgono sui redditi derivanti da attività commerciali, esistono le condizioni tutte per escludere la tassazione dei proventi così realizzati, anche se i medesimi vengono conseguiti agendo sul mercato alla stregua di un normale operatore commerciale.
Nel caso che si commenta, si legge nella sentenza che le entrate dell’associazione erano «costituite da contributi di enti pubblici, il costo dei biglietti era contenuto», a favore degli associati non risultavano ripartizioni di utili, «ritorni, remunerazioni, profitti per quanto dato o fatto attraverso l’ente, ovviamente escludendo i ritorni non commisurabili economicamente come ad esempio il prestigio morale e sociale». Lo scopo associativo non era dunque compromesso dovendosi escludere, per usare le parole di una pronuncia della Suprema Corte (8), il «perseguimento anche di un fine di lucro attraverso la distribuzione degli utili ovvero il loro impiego per la realizzazione di attività diverse da quelle istituzionali o a queste connesse».
Avv. Bruno Aiudi
(1) Cfr. Corte Cost. 19 novembre 1992, n. 467 (in Boll. Trib., 1993, 537), secondo cui si deve «escludere l’efficacia vincolante dell’autoqualificazione, che importerebbe la conseguenza secondo la quale un’associazione sia arbitra della sua tassabilità».
(2) Nello stesso senso Cass., sez. trib., 24 luglio 2013, n. 17979 (in Boll. Trib. On-line): «non va fatta in base alle mere enunciazioni, denominazioni e qualificazioni dello statuto dell’ente bensì sulla scorta dell’interpretazione delle disposizioni statutarie, con riguardo alla reale natura dell’attività». Dopo aver premesso che «gli enti associativi non godono di uno status di extrafiscalità, che li esenta, per definizione, da ogni prelievo fiscale, occorrendo sempre tenere conto della natura delle attività svolte in concreto», Cass., sez. trib., 12 febbraio 2013, n. 3360 (in Boll. Trib. On-line), ha precisato che «in ogni caso, deve comunque tenersi presente che la commercialità dell’ente, a tali fini, va valutata in relazione all’oggetto e non agli scopi dello statuto, mentre la principalità dell’attività commerciale svolta va messa in relazione con gli scopi, secondo un giudizio di essenzialità per il loro conseguimento».
(3) In Boll. Trib., 2013, 517.
(4) L’ipotesi di ristoranti, discoteche e sale giochi che si travestono da circoli culturali, in cui le quote associative sono in realtà simulacri di ordinarie operazioni commerciali, è abbastanza frequente.
(5) Non si diventa ente commerciale soltanto perché, ad esempio, i ricavi delle vendite delle azalee sono consistenti.
(6) «La gestione secondo principi economici, rivolti al conseguimento del pareggio di bilancio», ha sostenuto TAR Marche, sez. I, 13 settembre 2013, n. 637 (in Boll. Trib. On-line), «non è incompatibile con il carattere non industriale o commerciale delle esigenze di interesse generale al cui soddisfacimento è funzionalizzata l’attività dell’organismo».
(7) Sul tema cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 4934 (in Foro amm. Cons. Stato, 2013, 2825): «in base ai principi comunitari (art. 1, par. 9, Direttiva 2004/18/CE; art. 3, comma 26, del d.lg. n. 163 del 2006), deve attribuirsi rilievo preminente, per definire un ente quale “organismo istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale”, non tanto al carattere dell’attività svolta, quanto alle esigenze che la medesima è preordinata a soddisfare».
(8) Così Cass., sez. un., 23 aprile 2009, n. 9661, in Boll. Trib. On-line.
IRES – Enti non commerciali e Onlus – Associazioni senza scopo di lucro – Attività di diffusione della musica jazz – Entrate costituite da contributi di enti pubblici e assenza di ripartizione di utili – Natura commerciale dell’attività esercitata – Esclusione – Presenza di mere irregolarità formali – Irrilevanza.
IRES – Enti non commerciali e Onlus – Associazioni senza scopo di lucro – Automatismo tra la decadenza dalle agevolazioni fiscali e la trasformazione dell’ente in un soggetto esercente attività commerciale – Non sussiste – Presenza di irregolarità formali – Determinano una presunzione semplice di lucratività dell’attività.
IRES – Enti non commerciali e Onlus – Associazioni senza scopo di lucro – Autoqualificazione in base allo statuto – Irrilevanza – Dovere del giudice di verificare la concreta attività svolta dall’ente – Sussiste.
IRES – Enti non commerciali e Onlus – Associazioni senza scopo di lucro – Perdita della qualifica di ente non commerciale in caso di esercizio di attività prevalentemente commerciale per l’intero periodo di imposta – Consegue – Indici rivelatori della commercialità di una attività – Individuazione.
Nel caso di un ente di promozione della conoscenza e fruizione della musica jazz le cui entrate siano precipuamente costituite da contributi di enti pubblici, il costo dei biglietti per assistere alle manifestazioni musicali sia contenuto e dalla ricostruzione delle spese e dei costi non emerga traccia di ripartizione di utili tra gli associati, delle mere irregolarità formali quali la mancata esibizione delle convocazioni degli associati, l’irregolare tenuta del libro soci e dei verbali delle assemblee e la mancata redazione del rendiconto economico costituiscono fattori inidonei a fare conseguire all’ente la natura di impresa commerciale.
Non c’è automatismo tra la decadenza dalle agevolazioni fiscali di una associazione senza scopo di lucro e la sua trasformazione in un soggetto giuridico diverso esercente attività commerciale, e tuttavia le irregolarità formali, qualora l’attività svolta dall’associazione abbia riscontri economici di non marginale entità, determinano l’insorgere di una presunzione semplice di lucratività della stessa in ordine a cui è richiesta la prova contraria.
Poiché la fiscalità agevolata è costruita attorno al concetto di ente non commerciale, al fine di verificare l’effettiva natura dell’attività di un ente formalmente privo di finalità commerciali, il giudice tributario è tenuto a compiere uno scrutinio di tutti i tipi di enti solidaristici, esaminando in modo analitico e specifico il singolo soggetto e le attività da esso concretamente svolte, tenendo conto che la collocazione civilistica non ha conseguenze automatiche sul piano tributario e che non ha valore dirimente l’autoqualificazione dell’ente operata nel relativo statuto, atteso che nessuno può essere arbitro della propria “tassabilità”, di talché le attestazioni statutarie in tale senso non hanno alcun valore, essendo invece necessario verificare le modalità con cui l’ente mette in moto la sua economia operativa, e perciò se esse oggettivamente coincidono con quelle proprie di chiunque si organizza per produrre beni o servizi, il risultato è la riconduzione dell’ente no profit ad ente commerciale, anche ricorrendo ad un giudizio di prevalenza qualora vi sia coesistenza tra operatività commerciale e attività non produttiva di beni o servizi.
Nel caso di soggetti di utilità sociale che in concreto non possano conseguire i fini istituzionali senza gestire in modo continuativo un’attività commerciale, come nel caso di talune cliniche private che si definiscano assistenziali ma che poi materialmente riscuotano le quote di degenza sia pure sotto mercato, oppure di istituti di formazione che si finanzino con delle cosiddette quote corso costituenti in realtà vere e proprie rette remunerative dell’attività, l’art. 6 del D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, ha previsto una clausola di difesa in forza della quale si ha la perdita della qualifica di ente non commerciale se l’ente esercita per un intero periodo d’imposta attività prevalentemente commerciale, ed a tal fine il giudizio dell’interprete può essere facilitato constatando l’ammontare delle immobilizzazioni o degli investimenti di tipo commerciale rispetto a quelli istituzionali, quello dei ricavi dell’attività commerciale rispetto al valore corrente degli interventi statutari e quello dei redditi netti commerciali rispetto alle entrate globali sotto forma di contributi, sovvenzioni, liberalità e quote associative nonché scrutinando le spese sostenute per l’attività commerciale rispetto a quelle restanti.
[Commissione trib. provinciale di Pesaro, sez. IV (Pres. e rel. Gasparini), 18 giugno 2015, sent. n. 491, ric. Associazione Fano Jazz c. Agenzia delle entrate – Ufficio di Pesaro-Urbino]
MOTIVI DELLA DECISIONE – Il 22.5.2015 sono stati trattati i ricorsi n. 216 e n 217 del 2014 proposti dalla Associazione Fano Jazz rispettivamente contro l’avviso d’accertamento … relativo all’anno d’imposta 2008 e n. … relativo all’anno d’imposta 2009 avente ad oggetto imposte dirette, indirette e sanzioni per 82.404,30 € e 79.218,30 €. Il ricorso n. 68 del 2013 infine ha impugnato l’avviso … relativo all’anno d’imposta 2007.
Dagli atti e dai documenti prodotti dalle parti si rileva che, secondo la ricostruzione dell’Ufficio compiuta con l’avviso di accertamento impugnato, l’ente avrebbe beneficiato del regime fiscale agevolato di cui possono godere le associazioni con finalità non commerciali pur in difetto dei presupposti formali e sostanziali introdotti con la legge n. 398 del 1991 e richiamati nel testo unico delle imposte dirette all’articolo 148. E ciò perché l’associazione aveva un numero esiguo di aderenti, non erano stati presentati i verbali delle assemblee né gli atti ad essi funzionali quali le convocazioni degli associati, non erano stati tenuti regolarmente il libro dei soci, i verbali di assemblea, il rendiconto economico non era stato redatto. In buona sostanza per l’AE Fano Jazz svolgeva attività commerciale nel campo dell’intrattenimento. Si determinavano in tal modo le maggiori imposte dirette ed indirette da versare con irrogazione delle relative sanzioni, dovendosi applicare il regime fiscale proprio delle imprese commerciali a seguito della decadenza dal regime agevolato.
La difesa del contribuente, dopo aver operato una ricognizione del quadro normativo di riferimento, afferma che Fano Jazz non svolge attività d’impresa tanto che lo Statuto aveva chiarito che la finalità dell’ente era quella di diffondere la musica jazz mediante concerti ed altre manifestazioni, che era assente la finalità lucrativa, che era stata fatta opzione per un regime di contabilità semplificata e che le dissertazioni sul numero degli associati e sulla vita associativa erano infondate attenendo a scelte discrezionali sul modo migliore per raggiungere le finalità statutarie, non sindacabili in sede di accertamento fiscale. L’ufficio inoltre aveva inserito nel calcolo dell’imponibile anche i contributi in denaro erogati da enti pubblici pur in presenza del divieto previsto dall’art. 143 comma 3 lettera b del testo unico sulle imposte dirette.
L’ufficio per quanto riguarda la situazione fiscale della associazione ha ribadito la correttezza della ripresa a tassazione con memoria scritta datata 15.4.2014 in cui evidenzia che se in astratto l’ente potrebbe essere qualificato come non commerciale, quello che deve guidare l’analisi dell’interprete è l’effettività della gestione nella misura in cui risultino evidenti e consapevoli deviazioni rispetto alle clausole statutarie che i verificatori hanno messo in risalto negli avvisi impugnati.
La Commissione osserva che non c’è automatismo tra decadenza delle agevolazioni fiscali e trasformazione in soggetto giuridico diverso esercente attività commerciale (Cass. sentenza 1717/2006). Tuttavia le irregolarità formali, qualora l’attività svolta dall’associazione abbia riscontri economici di non marginale entità, determinano l’insorgere di una presunzione semplice di lucratività della stessa in ordine a cui è richiesta la prova contraria (si veda tra le tante la sentenza della Corte di Cassazione n. 4147 del 2013 (1)).
In considerazione dell’impostazione degli scritti delle parti la Commissione reputa necessario compiere un ricognizione critica della normativa di riferimento che come è noto attiene al cosiddetto “terzo settore” e, all’interno di essa, più in particolare dei rapporti delle organizzazioni non lucrative con il Fisco. Nell’ambito della legislazione tributaria, infatti, il settore no profit è campo di particolare complessità perché molte norme sono rese difficili dalla applicazione “adattata” di disposizioni pensate per le imprese.
L’operazione interpretativa non è certo agevole perché sovente le Commissioni tributarie muovono dalla premessa errata che un ente possa invocare benefici previsti dalla legislazione sugli enti di “utilità collettiva” solo perché i dirigenti ravvisano nella propria attività profili sociali o solidaristici. Vi è anche un altro concetto “sensibile” e per ciò stesso critico: l’assenza del fine di lucro. Essa deve riguardare gli interessi dei promotori e dei membri dell’ente. Esso è no profit se, tramite la operatività economica generale di esso, non è prevista l’assicurazione di ritorni, remunerazioni, profitti per quanto dato o fatto attraverso l’ente, ovviamente escludendo i ritorni non commisurabili economicamente come ad esempio il prestigio morale e sociale che deriva ai benefattori. È però altrettanto indubitabile che l’ente solidaristico non sia obbligato ad agire in perdita. Quello che è richiesto è infatti la perduranza del vincolo riguardante il risultato netto della operatività agli scopi istituzionali dell’ente. Detto risultato potrà dunque, a titolo esemplificativo, essere investito o messo da parte per raggiungere le finalità etiche dell’ente, erogato a beneficiari esterni alla compagine sociale. È stato infatti chiarito in dottrina che un “Charity Shop” dopo aver ricevuto dai benefattori donazioni di beni usati non perda la natura di ente no profit per il solo fatto di vendere (come fosse un imprenditore) detti beni per ricavare moneta. Il discrimine sta nell’uso dei ricavi che ovviamente non potranno essere distribuiti se non a beneficio – magari indiretto – dei bisognosi per cui l’ente statutariamente opera. La legislazione italiana (legge 622 del 1996 e Decreto Legislativo 460 del 1997) è ispirata dall’obiettivo di mantenere il primato pubblico almeno a livello di coordinamento del settore no profit. Ecco perché gli enti che in esso operano non sono a priori esclusi dalla fiscalità e tale cautela è tanto più necessaria in un contesto sociale in cui gli esempi concreti dimostrano quanto sia cresciuta la operatività di dette organizzazioni, capaci in pochi giorni di raccogliere fondi milionari e di spostare ingenti masse di denaro anche su scala mondiale. Dunque l’interprete, esaminando la legislazione del settore, ed operando l’esame delle circostanze del caso concreto verrà aiutato grandemente dalle cosiddette “categorizzazioni fiscali” degli enti di utilità collettiva. Si va dalle iniziative solidaristiche individuali, alle Associazioni non riconosciute, alle Associazioni riconosciute, alle Fondazioni, ai Comitati ed infine alle Società con scopi no profit. L’atteggiamento del Fisco in ciascuno di questi casi – e di riflesso il compito del Giudice tributario – sarà quello di verificare se non si celino dietro allo schermo dell’ente di utilità sociale fenomeni di frode o simulazione. Così, in rapporto al primo grado della categoria (il filantropo o il benefattore individuale) si potranno dare esempi virtuosi come quello di Tizio, appassionato sportivo, proprietario di una struttura attrezzata, che dà vita con amici e parenti ad un circolo ed avvia una gestione della struttura medesima per promuovere una data disciplina. Se si pratica effettivamente lo sport il fatto che le assemblee o le cariche direttive siano “vuote” (perché è il carisma del fondatore che garantisce la perduranza dell’ente) non attribuisce al fenomeno alcuna anomalia dal punto di vista fiscale anche nell’ipotesi in cui la gestione delle attrezzature avvenga con modalità imprenditoriali. Ben diverso è invece il caso in cui il fondatore in realtà camuffi una vera e propria attività di impresa con finalità sociali che non persegue. Così se si riscontra la mera esistenza di una struttura la cui attrezzatura è messa a disposizione dei terzi, se vi è una contabilità insufficiente e poco chiara, se si sorprendono pratiche di rifinanziamento della gestione attribuendo al pagamento da parte del terzo che accede alla struttura la natura di quota sociale (mentre è un vero e proprio corrispettivo), l’iniziativa in esame non potrà certo invocare una fiscalità agevolata perché il promotore è un mero imprenditore commerciale. L’esperienza concreta ha dimostrato che fenomeni simili si verificano spesso nel settore della assistenza agli anziani, specie in quella di tipo residenziale (Case di Riposo) ove la struttura è gestita da una associazione senza fini di lucro con erogazione di finanziamenti regionali o statali. Ora se si appura che vi è la presenza effettiva e la partecipazione costante alla attività di soci promotori e di soci affiliati, ed i proventi sono interamente investiti nella erogazione dei servizi ai bisognosi non vi è dubbio che l’ente potrà qualificarsi fiscalmente come non commerciale; se invece la casa di riposo in concreto altro non è che una “clinica padronale” che garantisce ricavi al titolare, per il Fisco dovrà considerarsi una impresa commerciale a tutti gli effetti. Tralasciando, perché non utili all’esame della fattispecie concreta i casi delle associazioni riconosciute (il riconoscimento è quello dell’articolo 12 del codice civile, da Fano Jazz non richiesto e/o ottenuto) e quelli dei comitati (che hanno natura essenzialmente temporanea quando invece F.J. è soggetto stabile), merita approfondimento quello delle società no profit perché detta categorizzazione offre chiaro il paradigma cui deve attenersi l’interprete. È certo che non lo sono quelle che distribuiscono ai soci gli utili ritratti dalla attività svolta a favore di coloro che a vario titolo hanno promosso l’attività dell’ente. Lo sono invece quelle che destinano tutto l’utile (inteso come differenza attiva netta tra i costi ed i ricavi) che deriva dalla iniziativa organizzata agli scopi erogativi caratteristici dell’ente. E nulla cambia per il fatto che l’utile considerato sia il residuo attivo di donazioni di terzi o il frutto di attività produttive vere e proprie. E ciò perché, come autorevolmente sostenuto tra gli studiosi, la società non confina più da tempo la “beneficienza” agli esempi folcloristici del liquore prodotto dai monaci o alle magliette di propaganda di associazioni ambientalistiche, preferendo affidarsi a vere e proprie “Organizzazioni del Volontariato”. Il legislatore italiano ha infatti trattato il fenomeno con la Legge quadro n° 266 del 1991 evidenziando caratteri distintivi come la personalità della prestazione, la spontaneità di essa, la gratuità e lo svolgimento tramite l’ente di cui il volontario fa parte. La gratuità deve essere assoluta (è ammesso solo il rimborso delle spese vive) ed il fruitore non deve in alcun modo remunerare il prestatore o l’ente. Sono stati previsti l’obbligo di formazione del bilancio ed il rispetto di principi di democraticità nella direzione della struttura. Tra le entrate (oltre ai contributi privati e pubblici) sono previste anche quelle derivanti da attività commerciali marginali. Ora, va chiarito che la fiscalità soggettiva di queste strutture appena delineate (dal filantropo, alle associazioni fino alle Fondazioni ed alle società no profit) può essere la più varia. Di tutti i tipi di enti solidaristici il Giudice tributario è tenuto a compiere uno scrutinio esaminando in modo analitico e specifico il soggetto e le attività concretamente svolte, tenendo conto che la collocazione civilistica non ha conseguenza automatiche sul piano tributario. Non vi è dubbio che la fiscalità agevolata è costruita attorno al concetto di ente non commerciale introdotto già dalla legge 821 del 1971, inserito nel Testo Unico delle Imposte dirette (articoli 87 ora articoli 73 lettera c e 143 e seguenti). È egualmente certo che non ha valore dirimente l’autoqualificazione dell’ente operata nello Statuto e ciò è principio di diritto consolidato già per effetto della autorevole e brillante sentenza n° 460 [rectius 467, n.d.r.] del 5.11.1992 [rectius 19.11.1992, n.d.r.] della Corte Costituzionale (2) secondo cui nessuno può essere arbitro della propria “tassabilità”; dunque le attestazioni statutarie in tale senso a nulla valgono se poi manca la riprova in fatto di quanto si invoca. Ne deriva che il punto essenziale da verificare attiene alle modalità con cui l’ente mette in moto la sua economia operativa: se esso oggettivamente coincide con quelle proprie di chiunque si organizza per produrre beni o servizi, il risultato sarà la riconduzione ad ente commerciale (anche ricorrendo ad un giudizio di prevalenza se vi è coesistenza tra operatività commerciale ed attività non produttiva di beni o servizi). Tale regola di base è stata accolta anche dal legislatore che ha formato il Decreto n° 460 del 1997 nella misura in cui si attribuisce rilievo al concetto di oggetto principale della attività, da dedurre in prima battuta dalla legge istitutiva dell’ente oppure dal suo statuto ed in mancanza dalla operatività concreta. Principalità va intesa come essenzialità per il raggiungimento degli scopi della organizzazione e dunque se il Fisco, a fronte di soggetto di utilità sociale dimostra che in concreto esso non può conseguire i fini istituzionali senza gestire in modo continuativo una attività commerciale potrà pretendere le imposte dovute dalle imprese. Autorevoli studiosi hanno a questo riguardo evocato l’esempio della clinica privata che si definisca assistenziale ma che in concreto riscuote le quote di degenza sia pure sotto mercato; oppure un istituto di formazione che si finanzi con delle cosiddette quote corso (in realtà vere e proprie rette remunerative della attività). Il Decreto 460 ha perciò previsto per tali casi una clausola di difesa affidata al precetto dell’articolo 6 in forza del quale si ha la perdita della qualifica di ente non commerciale se l’ente esercita per un intero periodo d’imposta attività prevalentemente commerciale. Il giudizio dell’interprete può essere facilitato constatando l’ammontare delle immobilizzazioni o degli investimenti di tipo commerciale rispetto a quelli istituzionali, quello dei ricavi dell’attività commerciale rispetto al valore corrente degli interventi statutari, quello dei redditi netti commerciali rispetto alle entrate globali (sotto forma di contributi, sovvenzioni, liberalità, quote associative) così come sarà importante lo scrutinio delle spese sostenute per l’attività commerciale rispetto alle restanti. La legislazione sugli enti di utilità sociale oscilla tra rigidità ed elasticità a questo riguardo tanto è vero che il Decreto 460 impone la contabilità separata se l’ente benefico svolge anche attività commerciali. È però pacifico che il concetto di commercialità è quello civilistico, a sua volta recepito nell’articolo 51 del Testo Unico delle Imposte dirette (ora 55). E per questo motivo il Fisco tende a considerare commerciali le iniziative che il beneficiario remunera anche se lo schema non è quello dell’incarico retribuito ma quello della quota di partecipazione o del rimborso spese; vi è però un limite invalicabile che già nella formulazione dell’articolo 108 (ora 143) il Testo unico sulle imposte dirette aveva previsto per le attività rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente, senza specifica organizzazione, con pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione, salvo che vi siano attività per cui è presunta la natura commerciale (es. il trasporto di persone). Completa il quadro della ricognizione il regime fiscale agevolato che l’ente può invocare se ottiene l’iscrizione nei registri previsti dalla legge 266 del 1991; il legislatore ha permesso anche in tali casi che sia possibile svolgere anche attività commerciali a patto che esse abbiano il carattere della marginalità.
Se questo è il quadro normativo di riferimento per l’interprete, si potrà esaminare il caso concreto, prendendo ovviamente le mosse dagli atti contro cui è stato proposto ricorso. Gli avvisi di accertamento riprendono a tassazione ai fini delle imposte dirette ed indirette i ricavi dell’ente considerato dai verificatori come esercente attività di impresa commerciale nel settore dei servizi.
Il substrato storico su cui poggiano gli atti impugnati è ovviamente desumibile dalle articolate informazioni del processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, parte integrante degli stessi. In estrema sintesi i verificatori hanno rilevato che l’attività dell’ente di promozione della conoscenza e fruizione della musica jazz in realtà si esplicava come un vero e proprio impresario musicale.
Tale impostazione non è condivisibile solo a voler considerare che le entrate dell’associazione sono precipuamente costituite da contributi di enti pubblici, il costo dei biglietti era contenuto, i verificatori hanno potuto ricostruire le spese ed i costi, non è emersa traccia di ripartizione di “utili” tra gli associati, con conseguente degradazione degli altri aspetti dei rilievi a mere irregolarità formali inidonee a far conseguire all’ente la natura di impresa commerciale.
Consegue pertanto l’accoglimento del ricorso e la compensazione delle spese processuali in considerazione della particolarità della controversia, dell’esito della stessa e della complessità delle questioni trattate.
P.Q.M. – (Omissis).
(1) Cass. 20 febbraio 2013, n. 4147, in Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib., 1993, 537.