1. La questione: rilevanza e riferimenti
Strane le dinamiche della nostra giurisprudenza. Per quarant’anni o quasi dà a vedere di non accorgersi di quanto, su coordinate europee, sta succedendo di rivoluzionario in tema di ne bis in idem in materia sanzionatoria – l’architrave del diritto penale comunitario (1) – ed ecco che, ad un tratto, è tutto un pullulare di decisioni in materia.
Ottima sensazione, tanto più che si tratta di decisioni puntuali e documentate, allineate all’impronta dei giudici continentali e capaci di seguirne fin nei risvolti delle pieghe l’atteggiamento meditatamente critico nei riguardi del nostro diritto positivo. Come – coeva alla sentenza di cui si dà conto oggi – l’ordinanza con cui il Tribunale di Bologna, sospettando la violazione del combinato disposto dell’art. 117, primo comma, Cost., e dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ha sollevato l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., in relazione all’art. 10-ter del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui, nell’ambito di un procedimento amministrativo, all’imputato sia già stata irrogata, per il medesimo fatto, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale alla stregua della Convenzione stessa (2).
Quanto a premesse, l’odierna sentenza – pur difforme negli esiti, poiché non ha ritenuto di dover transitare attraverso l’abrogazione ad opera del giudice delle leggi – appare perfettamente in linea con l’altra pronuncia, così da costituire con essa, in virtù anche dell’estrema solidità dell’impianto logico ed espositivo di entrambe, il primo mattone di uno zoccolo duro giurisprudenziale, al momento sconsolatamente circoscritto al grado di merito, capace di fungere da utile punto di riferimento per gli operatori, giudici penali e giudici tributari in primis, impegnati a cimentarsi sulla problematica. Prospettiva che purtroppo non coincide, e anzi confligge radicalmente, con la posizione assunta – nella stragrande maggioranza – dal vertice del nostro diritto vivente, il quale, sposando concezioni datate e ormai palesemente spurie al contesto europeo, non solo ha dato nella circostanza ennesima prova di frusto conservatorismo, ma contribuisce a seminare la strada di paletti pericolosi. Anche di questa posizione retriva si darà conto nel presente scritto.
Partiamo dai punti di manifesta consonanza fra le due pronunce accennate, consonanza – si ripete – avallata (in realtà promossa) dal fermo, ormai consolidato magistero delle Corti europee, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea. Per entrambe le quali vale la regola di fondo per cui nessuno può essere non solo punito ma neppure giudicato per la medesima condotta in sede penale e in sede amministrativa, qualora anche la sanzione amministrativa comminata possieda connotati afflittivi che a quella penale la assimilino (3).
2. Punti di contatto nella giurisprudenza di merito
Al lotto dei valori comuni alle due decisioni appartengono i seguenti:
1) la gravità e la finalità repressiva come indizi salienti della natura penale di una sanzione, comunque l’abbia denominata il legislatore interno, di talché deve essere repertoriata come di stampo penale anche quella di matrice amministrativa se, a causa della sua incidenza afflittiva, procura al destinatario un «pesante aggravio delle sue condizioni di vita», sotto qualsivoglia profilo lo si inquadri (tutt’altro che escluso quello patrimoniale) (4);
2) l’accentuata perplessità (meglio: l’avversione esplicita) per i risultati raggiunti dalla Suprema Corte (5), laddove – nel valutare il rapporto intercorrente fra le condotte represse con gli artt. 10-bis e 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, da un lato, e dall’art. 13 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, dall’altro; nel decidere cioè se fra le suddette prescrizioni sussista un concorso apparente oppure, all’opposto, un concorso effettivo di norme – la Corte regolatrice ha statuito trattarsi non di specialità (risposta che avrebbe portato, anche nel nostro diritto come fino ad oggi interpretato e applicato, alla alternatività delle norme in parola e alla non sovrapponibilità delle correlative sanzioni), ma di progressione nell’offesa, ritenendo la declaratoria penale tendenzialmente più composita e variegata, arricchita di elementi tecnici rispetto all’enunciazione (nominalmente) amministrativa (lettura che ha precluso alla doppia punizione, appunto perché non parametrata sul medesimo fatto storico ma su due fatti giuridici distinti, tali perché posti a tutela di valori autonomi, uno dei quali, il penale, di raggio più esteso rispetto a quello amministrativo) (6);
3) l’impraticabilità, stante l’ingiustizia che racchiude, di un cumulo di sanzioni applicate a causa e in ragione del medesimo “fatto”, nozione quest’ultima che, se in thesi è suscettibile – come si è segnalato sub 2) – di una duplice lettura (vuoi storico-materiale, nel senso di comportamento che, nella vita reale, ha prodotto determinate conseguenze; vuoi formale-giuridico, nel senso di fattispecie astratta descritta dalla norma), qui deve unicamente riconoscersi nella prima delle due accezioni (7).
3. Punti di frattura nella giurisprudenza di merito e prospettive
Se, sulla sostanza della questione, è palmare l’identità di vedute fra i Tribunali di Bologna e di Asti, divergenti sono le modalità operative (leggi: processuali) attraverso le quali portare a casa il risultato.
Tre le strade ad oggi sperimentate:
a) quella appunto del giudice emiliano, che ha interpellato il giudice delle leggi per ottenerne l’abrogazione in parte qua dell’art. 649 c.p.p. (ved. supra, par. 1) (8);
b) quella percorsa dal Tribunale di Torino, che ha formulato alla Corte di giustizia europea, attraverso un rinvio pregiudiziale, il seguente quesito: «se, ai sensi degli artt. 2 del Protocollo n. 7 allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui all’art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000 nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto (omesso versamento delle ritenute), sia già stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 (con applicazione di una sovratassa)» (9);
c) quella del Tribunale di Asti, che ha tagliato con coraggio il nodo gordiano senza protrazioni e senza demandare a terzi, licenziando una sentenza di non doversi procedere perché, ex art. 529, primo comma, c.p.p., «l’azione penale non doveva essere proseguita».
A detta dei più, la prima delle tre vie è l’unica in grado di spuntarla.
Un’altra delle alternative, quella sub b), ha già ricevuto un drastico (per quanto ampiamente atteso) ridimensionamento attraverso il rigetto da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea (10), la quale ha avuto buon gioco nel negare la propria giurisdizione, in considerazione del fatto che, se è vero che anche l’art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione contempla il divieto di bis in idem (ved. nota 1) e il successivo art. 52 impone di dare sostanza a tale precetto secondo i dettami interpretativi impressi alla materia cosiddetta “convenzionale” (perché riconducibile alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali) dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo; è altresì vero che, in base all’art. 51, la Carta trova esplicazione solo quando gli Stati «agiscono nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione» cosicché la questione affacciata, afferendo l’imposizione diretta e quindi un tributo non armonizzato (pertanto diverso dall’Iva, la quale viceversa rientra nel campo attuativo del diritto europeo di competenza della Corte di Giustizia), è riconducibile a una dimensione nazionale interna, ergo sfugge alla potestà conoscitiva del giudice adito (11). Nulla quaestio sul punto, si è trattato obiettivamente di una forzatura destinata all’insuccesso.
Dal canto suo, l’ipotesi sub c) oggetto di esame, oltre al limite di essere vulnerabile già in appello (che sarà plausibilmente adito dalla pubblica accusa, avendo essa in primo grado concluso così: «escludersi la sussistenza del ne bis in idem e condannarsi l’imputato alla pena di anni uno di reclusione esclusa la recidiva»), presenta un’intrinseca fragilità, quella di superare lo scoglio del dettato letterale della norma procedurale di riferimento, l’art. 649 c.p.p., dandole apertis verbis un’«applicazione diretta al di là dei limiti apparentemente segnati dal suo tenore letterale», facendo cioè ricorso all’analogia quale «metodo necessario per ricavare le coordinate onde provvedere all’autointegrazione dell’ordine giuridico al fine dell’eliminazione delle inevitabili lacune».
La perentorietà della locuzione che si legge nell’art. 649 c.p.p., in forza della quale il vincolo del ne bis in idem si circoscrive alle sentenze e ai decreti penali passati in giudicato, ovverosia – scrive lo stesso giudice – «secondo quanto comunemente si riconosce, in presenza di un provvedimento irrevocabile pronunciato dal giudice penale italiano», viene scavalcata in nome dell’armonia dell’ordinamento, che, per palmari ragioni di equità, non può scalfire l’universalità di un canone basilare – il ne bis in idem – «che attraversa ogni ramo del diritto, sostanziale e processuale, e che è parte integrante della generalità degli ordinamenti giuridici», e di conseguenza non può riservare un trattamento diverso a provvedimenti – quali l’avviso di accertamento o la rettifica erariale – appartenenti sì a un’altra branca del diritto, quella amministrativo-tributaria, ma nondimeno accomunati ai provvedimenti giudiziari dalla potenzialità afflittiva e dalla vocazione alla irrevocabilità.
Il fresco ripudio operato dalla Suprema Corte, per quanto precipuamente sorretto da considerazioni procedurali, non suona certo a speranza in un repentino revirement (12), dovendosi così archiviare l’encomiabile apertura fatta dalle Sezioni Unite nell’ormai lontano 2005, quando, appunto attraverso lo strumento dell’analogia, la ferreità del referto letterale fu smentita in nome di superiori valori e si allargò lo spettro abbracciato dall’art. 649 c.p.p. assimilando, alla «sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili» (gli unici fino ad allora preclusivi di un nuovo procedimento penale), le sentenze non definitive (13).
Resta la via sub a), della caducazione a cura della Corte Costituzionale, aperta da più voci: dal Tribunale di Bologna, su intenti e modulazioni del quale ci si è analiticamente intrattenuti (14), e in precedenza dalla stessa Corte Suprema (15). Entrambi hanno minuziosamente rispettato i diktat scalettati dai giudici della Consulta (16): 1) valutazione preliminare della possibilità (agevolmente esclusa) di una lettura “convenzionalmente” orientata della legge ordinaria da applicare; 2) sottoposizione della questione alla Corte Costituzionale, cui è demandato un duplice scrutinio: la verifica della compatibilità del precetto della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali con i paradigmi, di rango più alto, della nostra Costituzione e, in stretta sequenza, la verifica della sussistenza o meno di un contrasto fra la norma ordinaria interna e la predetta Convenzione, quest’ultima recepita in armonia con l’interpretazione datane dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Ove il contrasto risultasse confermato, la norma sub iudice andrebbe amputata dall’ordinamento o comunque fatta oggetto di un intervento manipolativo di impatto radicale.
Ed è ciò che tutti – quasi tutti – ci auguriamo succeda con riguardo all’art. 649 c.p.p.
Avv. Valdo Azzoni
(1) Il divieto di bis in idem è sancito, fra gli altri, dall’art. 4, primo comma, del Prot. 7 allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, e dall’art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea. Il primo afferma che «Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato», mentre il secondo stabilisce che «Nessuno può essere giudicato o punito di nuovo in un procedimento penale per un reato per il quale lo stesso è già stato definitivamente assolto o condannato nell’Unione a norma di legge». A proposito di quest’ultimo precetto, è da ricordare il decalogo stilato dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 26 febbraio 2013, resa nell’ambito della causa C-617/10 Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson, ove sono stati affermati i seguenti principi: «a) l’applicabilità del diritto dell’Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea; b) l’art. 50 di quest’ultima presuppone che le misure adottate a carico di un imputato assumano carattere penale; c) per valutare la natura penale delle sanzioni fiscali, occorre tenere conto della qualificazione della sanzione nel diritto interno, della natura dell’illecito e del grado di severità della sanzione che rischia di subire l’interessato».
(2) Cfr. Trib. pen. Bologna, sez. I (giud. Cenni), ordinanza di rimessione del 21 aprile 2015, in Boll. Trib., 2015, 1008, con nota di V. Azzoni, Il sistema del doppio binario (amministrativo e penale) nel regime sanzionatorio tributario: è tutto l’edificio che sta scricchiolando?, ove è reperibile la quasi totalità dei precedenti della giurisprudenza comunitaria citati dalla sentenza in commento.
(3) L’estensione del divieto (dal divieto di punire due volte al divieto di giudicare due volte, a fronte della maturata definitività di una prima sanzione, non importa se quella che precede è timbrata come amministrativa) è, non è chi non veda, di importanza capitale. Si può anzi dire che sia la pietra miliare del nuovo diritto penale (“penale” in senso lato) che attende l’Europa. E non da oggi: cfr. la sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, sez. IV, 20 maggio-20 agosto 2014, Nykänen contro Finlandia, ricorso n. 11828/11, da cui si evince che il bis in idem si concretizza non solo quando uno dei procedimenti sfoci nella condanna a una sanzione dopo che un altro si è concluso, in idem factum, con una decisione irrevocabile, ma anche quando, aperto un procedimento, un altro se ne apra o prosegua.
(4) A un “apprezzabile danno” allude la decisione capostipite dell’evoluzione che, in subiecta materia, ha portato ai giorni nostri, cioè la sentenza della Grande Camera della Corte europea dei Diritti dell’Uomo 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, ricorsi nn. 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72, 5370/72, serie A, n. 22. Sentenza che, mettendo a fuoco l’art. 6, par. 1, primo periodo, della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali («Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente… da un tribunale indipendente e imparziale…, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti»), ha per prima sottolineato il «valore meramente relativo e indicativo della formale qualificazione giuridica, in diritto interno, di un certo illecito e/o delle relative sanzioni». Ora, per attenerci alla vicenda trattata dal giudice astigiano, è in re ipsa che, a fronte di una evasione accertata pari a euro 730.347,00, una sanzione pecuniaria di euro 552.994,20 (equivalente a più del 75% dell’imposta ripresa) non può che assumere un’intrinseca e inconfutabile valenza penale, per quanto definita “amministrativa” dalla mano pubblica (il legislatore prima, l’organo del potere esecutivo poi). Certo, anche il risarcimento, sanzione d’indole civilistica, ha una componente di sofferenza, comportando una privazione, ma la sua istituzionale funzione di ristoro del danno cagionato a terzi è diversa perché mira a ristabilire lo status quo, non a far scontare il fio della lesione del diritto.
(5) Cfr. Cass., sez. un., 12 settembre 2013, n. 37424, in Boll. Trib., 2014, 864, con nota di B. Gullo, L’omesso versamento dell’Iva e le sanzioni amministrative e penali. Atteggiamento ulteriormente riduttivo quello di Cass. pen., sez. III, 15 maggio 2014, n. 20266, in Boll. Trib. On-line, la quale ribadisce essere «pacifico che il processo penale viaggi in parallelo con l’esistenza di un debito tributario da adempiersi, che è cosa diversa dalla sanzione penale».
(6) Si legge testualmente nella sentenza resa da Cass., sez. un., n. 37424/2013, cit.: «La fattispecie penale costituisce in sostanza una violazione molto più grave di quella amministrativa e, pur contenendo necessariamente quest’ultima (senza almeno una violazione del termine periodico non si possono evidentemente determinare i presupposti del reato), la arricchisce di elementi essenziali … [i quali] recano decisivi segmenti comportamentali che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell’illecito amministrativo». E ancora, vero e proprio monumento celebrativo del doppio binario sanzionatorio: «La circostanza che, in tal modo, un fatto, integrante uno o più illeciti minori (omissione di uno o più versamenti periodici per un ammontare complessivamente superiore a euro cinquantamila), assurga, in punto di fatto, a presupposto dell’illecito maggiore, richiedente a sua volta ulteriori requisiti e caratterizzato da un diverso tempo di realizzazione, non appare motivo sufficiente per escludere la concorrente applicazione di entrambi gli illeciti». Nell’occasione, il giudice di legittimità ha mostrato di non avvedersi della macroscopica rotta di collisione in cui andava a posizionarsi rispetto non solo e non tanto all’epilogo della riflessione della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, quanto piuttosto al taglio logico che a tale riflessione sottende. Mentre i giudici di Strasburgo hanno privilegiato il sostrato contenutistico concreto (che cosa ha fatto concretamente il presunto responsabile? di quello sia punito una volta per tutte!), mettendo in ombra i paradigmi edittali e le loro labiali differenze, la Cassazione ha privilegiato il riferimento all’istituto dell’interesse giuridico protetto, retaggio di una scuola penalistica rispettabilissima quanto irrimediabilmente datata. Inutile dire che, se il nostro giure vuole credibilmente sopravvivere, deve inchinarsi all’indirizzo vincente in chiave europea, indirizzo fortemente influenzato dall’empirismo anglosassone.
(7) Per la verità, sorprendentemente (e ingiustificatamente) cauto si dimostra il Tribunale di Asti nel parlare di «una certa coincidenza tra la condotta dell’imputato considerata ai fini delle disposizioni sanzionatorie amministrative prima e di quella penale ora, nonché di una certa convergenza strutturale tra le medesime disposizioni».
(8) L’art. 649 c.p.p. stabilisce che «1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69, comma 2, e 345. 2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo».
(9) Cfr. Trib. pen. Torino, sez. IV, ord. 27 ottobre 2014, in Boll. Trib. On-line.
(10) Cfr. Corte giust. UE, sez. IX, 15 aprile 2015, causa C-497/14, in Boll. Trib. On-line.
(11) Si legge nel provvedimento della Corte di giustizia: «Nell’ordinanza di rinvio non si riscontrano elementi che consentano di considerare che il procedimento principale [di natura penale e pendente avanti il Tribunale di Torino] verte su una normativa nazionale di attuazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, § 1, della Carta».
(12) Cfr. Cass., sez. III pen., 11 maggio 2015, n. 19334, in Boll. Trib. On-line. Al di là del pensiero-guida, corrispondente all’«orientamento giurisprudenziale più avveduto» e racchiuso nella ritenuta «indeducibilità dinanzi alla Corte di cassazione della violazione del divieto di ne bis in idem, in quanto è precluso, in sede di legittimità, l’accertamento del fatto, necessario per verificare la preclusione derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione è rimessa esclusivamente al giudice di merito», al di là del manto formale si intuisce, nella sentenza, una spiccata propensione per la fedeltà allo stretto rigore letterale.
(13) Cfr. Cass., sez. un. pen., 28 giugno 2005, n. 34655, in Boll. Trib. On-line, che effettivamente proiettò l’art. 649 c.p.p. fuori dalla sua orbita naturale, ammettendo che in esso venissero ricomprese – al di là del dictum che pone l’inequivoco (e apparentemente insormontabile) requisito della irrevocabilità – anche le sentenze non ancora passate in giudicato.
(14) Cfr. Trib. pen. Bologna 21 aprile 2015, cit., e la nostra già menzionata nota di commento a tale pronuncia.
(15) Cfr. Cass., sez. trib., 10 ottobre 2014, ord. n. 33314, in Boll. Trib. On-line, in materia di doppio binario sanzionatorio in fatto di abusi di mercato.
(16) Cfr. Corte Cost. 26 marzo 2015, n. 49, in Boll. Trib. On-line.
Imposte e tasse, IRPEF e IVA – Sanzioni penali e sanzioni amministrative – Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e IVA – Sistema del c.d. doppio binario – Artt. 1 e 5 del D.Lgs. n. 471/1997 e art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 – Natura penale dell’illecito amministrativo – Sussiste – Dichiarazione di non luogo a procedere a norma degli artt. 529 e 649 c.p.p. per il reato nei confronti di chi abbia già subito, per il medesimo fatto, l’irrogazione di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale – Consegue.
Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem – Gravità e finalità repressiva della sanzione – Costituiscono indici della sua natura penale – Irrogazione di una sanzione pecuniaria di importo elevato e quasi pari alla contestata evasione – Natura penale – Sussiste – Applicabilità dell’art. 649 c.p.p. sul divieto di un secondo giudizio in materia penale – Consegue.
Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria previsto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Definizione e portata.
Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem previsto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Definizione e portata.
Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria previsto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Costituisce un diritto fondamentale dell’individuo inderogabile e assoluto.
Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem previsto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Costituisce un diritto fondamentale dell’individuo inderogabile e assoluto.
Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria – Obbligo del giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere qualora l’imputato sia stato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili – Emissione di provvedimenti formalmente amministrativi ma aventi natura sostanzialmente penale secondo i criteri Engel – Applicabilità dell’art. 649 c.p.p. sul divieto di un secondo giudizio in materia penale – Consegue.
Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria – Obbligo del giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere qualora l’imputato sia stato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili – Emissione di provvedimenti formalmente amministrativi ma aventi natura sostanzialmente penale secondo i criteri Engel – Applicabilità dell’art. 649 c.p.p. sul divieto di un secondo giudizio in materia penale – Consegue.
Ai sensi degli artt. 529 e 649 c.p.p. va dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di chi, chiamato a rispondere del reato previsto e punito dall’art. 5 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, perché imputato di evasione delle imposte avendo omesso di presentare la prescritta dichiarazione fiscale annuale, abbia già subito, per il medesimo fatto, l’irrogazione delle sanzioni amministrative previste dagli artt. 1 e 5 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, in quanto aventi anch’esse natura sostanzialmente penale.
La gravità e la finalità repressiva costituiscono, secondo la Corte europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, indici fondamentali della “penalità” della sanzione, a nulla rilevando la compresenza di finalità ulteriori della stessa, con la conseguenza che, anche alla luce dell’argomento equitativo o della ragionevolezza, appare palese che mezzo milione di euro di sanzioni amministrative, correlate ad una contestata evasione di settecentomila euro, rappresentino, a tutti gli effetti e al di là della formale qualificazione giuridica interna, una pena pesantissima, capace di condizionare la vita del trasgressore in misura assai maggiore rispetto a molte delle sanzioni attualmente contemplate dal codice penale, di talché diviene evidente una corrispondenza e congruenza con la base logica del trattamento giuridico ex art. 649 c.p.p. sul divieto di un secondo giudizio in materia penale, la c.d. convenientia rationis.
Il principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria deve essere letto come divieto di giudicare un individuo per una seconda infrazione, qualora questa scaturisca dagli stessi fatti o da fatti che sono sostanzialmente identici, e costituisce un principio generale che attraversa ogni ramo del diritto, sostanziale e processuale, e che è parte integrante della generalità degli ordinamenti giuridici e del diritto comunitario.
Nel diritto della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1995, n. 848, che costituisce parte integrante dell’ordinamento giuridico italiano, il principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria ha natura di diritto fondamentale dell’individuo, peraltro di rango particolarmente elevato in quanto nessuna deroga è consentita, nemmeno in tempo di guerra o di altro pericolo che minacci la vita della nazione ex art. 15 della stessa Convenzione, qualificandosi pertanto quale scelta dall’altissimo valore politico, che ne sugella l’efficacia incondizionata ed il valore assoluto.
L’art. 649 c.p.p. prevede per il giudice penale l’obbligo di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere soltanto nel caso in cui l’imputato sia stato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili, e dunque in presenza di un provvedimento irrevocabile pronunciato dal giudice penale italiano, ma specifiche norme di diritto internazionale, tra le quali spicca per importanza l’art. 54 della Convenzione di Schengen, a cui l’Italia ha aderito in data 27 novembre 1990 con decorrenza dal 26 ottobre 1997, estendono l’effetto preclusivo di un nuovo giudizio a provvedimenti definitivi di giudici penali stranieri, e sebbene nessuna norma preveda espressamente l’ipotesi di un provvedimento, afferente alla matière pénale secondo i criteri Engel, ma formalmente qualificato come amministrativo ai sensi del sistema normativo italiano, l’applicabilità diretta dell’art. 649 c.p.p. anche a tale ultima ipotesi risulta teoricamente giustificata, a sua volta, dall’immediata applicabilità dell’art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea del 26 ottobre 2012, che enuncia il diritto fondamentale al ne bis in idem in materia sanzionatoria e costituisce norma di diritto primario dell’Unione europea, risultando perciò perfettamente idonea a produrre effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, con carattere di primazia rispetto ad eventuali norme nazionali contrastanti.
[Tribunale pen. di Asti (giud. Corato), 7 maggio 2015, sent. n. 717]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE – Per le ragioni di seguito esposte deve dichiararsi non doversi procedere ai sensi degli artt. 529 e 649 c.p.p.
Consta agli atti verbale di accertamento dell’Agenzia delle Entrate di Asti n. … relativo all’anno 2007.
Dal predetto è dato evincere – diversamente da quel che appare un errore materiale del capo di imputazione – che l’imputato “ha omesso di presentare per l’anno di imposta 2007 la dichiarazione dei redditi ai fini IRPEF, IRAP ed IVA. … Sulle informazioni desunte dagli elenchi in cui il contribuente risulta presente in qualità di fornitore … l’Ufficio ha quantificato in Euro 730.347,00 i ricavi ed il volume di affari conseguiti nell’anno di imposta 2007 dal sig. … nell’esercizio della dell’attività d’impresa”.
Con riferimento a ciascuna delle suddette imposte nonché alle addizionali regionale e comunale, dallo stesso verbale è data evincere l’irrogazione delle sanzioni amministrative di cui al D.Lgs. n. 471/1997 e, nello specifico, di cui ai relativi artt. 1 – per quanto concerne IRPEF, IRAP e addizionali – e 5, per quanto concerne l’IVA.
In applicazione delle predette sanzioni – tante volte quanti i tributi e con un lieve correttivo a titolo di continuazione ex art. 12 D.Lgs. n. 471/1997 – il verbale di accertamento, a fronte della citata base imponibile evasa di Euro 730.347,00, determina in Euro 552.994,20 la sanzione (complessiva) + ulteriori Euro 85.166,59 a titolo di interessi, per un totale dovuto di Euro 1.135.643,54
Appare evidente come le sanzioni amministrative irrogate all’imputato, pari a Euro 552.994,20, rappresentino una percentuale assai elevata che si aggira intorno al 50% del totale dovuto al Fisco.
Livelli sanzionatori così elevati, derivanti da disposizioni formalmente non penali, appaiono pertinenti rispetto al dibattito circa l’estensione, nazionale e convenzionale, del principio del ne bis in idem, potendosi ravvisare inoltre una certa coincidenza tra la condotta dell’imputato considerata ai fini delle disposizioni sanzionatorie amministrative prima e di quella penale ora, nonché una certa convergenza strutturale tra le medesime disposizioni.
Ad avviso di chi scrive, le recenti sentenze della Corte Edu intervenute a chiarimento della portata del principio del ne bis in idem – vd. Corte Edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens; Corte Edu, 20 maggio 2014, Nykanen c. Fimandia e Corte Edu 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia – sembrano anzitutto inserirsi nell’ambito di un indirizzo interpretativo (più che) consolidato, alla stregua del criterio recentemente indicato da Corte Cost. 49/2015.
Ciò che ne impone un’attenta considerazione.
Quantomeno a partire dalla sentenza C.edu, GC, Engel c. Paesi bassi, 8/6/1976, 81 e ss., la Corte di Strasburgo ha progressivamente chiarito, in maniera inequivoca, il valore meramente relativo e indicativo della formale qualificazione giuridica, in diritto interno, di un certo illecito e/o delle relative sanzioni (cfr. altresì, proprio nell’ambito delle sanzioni amministrative, C.edu, Ozturk c. Repubblica federale tedesca, 21/2/1984, 50 ss.; C.edu, Lauko c. Slovacchia, 2/9/1998, 57).
La detta Corte ha poi individuato, nell’ottica di una concezione sostanziale e non meramente formale del reato e delle pene, diverse caratteristiche presenti le quali deve necessariamente inferirsi la natura penale della sanzione scrutinata.
In disparte taluni indici non rilevanti nel caso di specie – si pensi alla c.d. pertinenzialità rispetto ad un fatto di reato quale fondamentale indice della natura penale della sanzione, vd. C.edu, Malige c. Francia, 23/9/1998, 38 e ss. nonché C.edu, Welch c. Regno Unito, 9/2/1995; o al rilievo ascritto della natura dell’Autorità applicante vd. C.edu (dec.), Sud Fondi srl e a. c. Italia, 30/8/2007 e la relativa C.edu, Sud Fondi srl e a. c. Italia, 20/1/2009 – gravità e finalità repressiva costituiscono, secondo la CEDU, indici fondamentali della “penalità” della sanzione, a nulla rilevando peraltro la compresenza di finalità ulteriori della stessa (sul rilievo della gravità della sanzione vd. C.edu, GC, Engel c. Paesi bassi, cit. nonché C.edu, Campbell e Fell c. Regno Unito, 28/06/1984, 71 e ss. patrocinante un criterio di valutazione congiunto di scopo gravità della sanzione; sull’assoluta centralità della finalità repressiva vd. C.edu, M. c. Germania, 17/12/2009; per l’irrilevanza dell’eventuale compresenza di scopi ulteriori oltre quello afflittivo vd., con riferimento alla confisca ex art. 44 D.P.R. n. 380/2001 il cui disinvolto utilizzo sotto la formale etichetta di “sanzione ammnistrativa accessoria” è stato più volte stigmatizzato, C.edu, Sud Fondi srl e a. c. Italia, 20/1/2009).
Se quelle indicate da Strasburgo costituiscono le caratteristiche ontologiche della “pena”, deve inoltre precisarsi che le stesse non sono mai state intese in senso cumulativo, sicché la natura penale di una sanzione può essere ricavata anche dalla presenza di una sola di esse (vd. per tutte in tal senso, C.edu, Lutz c. Germania, 25/8/1987).
Un prima, parziale conclusione in ordine alla fattispecie di cui è processo appare possibile.
A fronte di una contestata evasione di Euro 730.347,00 e della relativa irrogazione di sanzioni amministrativo-pecuniarie per ben Euro 552.994,20, non paiono dubbie a questo Giudice la gravità e la finalità repressiva retrostante un simile trattamento sanzionatorio.
Con la conseguenza, convenzionalmente imposta e con riserva di ulteriore argomentazione, di dover ritenere l’afferenza sostanziale di tali sanzioni al diritto penale.
Se l’attuale imputato deve considerarsi già sanzionato penalmente, i profili problematici residui appaiono due.
Il primo è quello relativa all’identità o meno degli addebiti mossi all’imputato, in sede amministrativa prima e penale ora.
Nel corso della sua storia, la Corte EDU, nell’accertare l’identità delle plurime sanzioni per lo stesso comportamento, si è trovata di fronte alla cruciale scelta, classica e comune a tutti gli ordinamenti, fra l’idem factum – che valorizza i fatti materiali che costituiscono la condotta tenuta dal soggetto – e l’idem legale che attribuisce invece rilievo alla definizione legale dell’incriminazione.
Con alterne pronunce la Corte EDU ha oscillato tra le due opzioni sino al 2009, quando ha ritenuto indispensabile procedere all’armonizzazione dell’interpretazione dell’idem, ponendo fine ad un’insicurezza giuridica, generata dalla molteplicità di letture, stimata incompatibile con un diritto fondamentale perché ne affievolisce la concretezza e l’effettività (C.edu, GC, Zolotoukhine c. Russia 10/2/2009, 78-80).
Con la citata sentenza, la Corte EDU, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE – ora UE – e della Corte interamericana dei diritti dell’uomo, ha osservato come nel panorama internazionale sia dominante l’approccio più favorevole all’individuo, ovvero quello che, nel valutare l’idem, al di là delle differenti espressioni linguistiche utilizzate, valorizza l’identità dei fatti materiali e non l’idem legale (vd. C.edu, GC, Zolotoukhine c. Russia, cit., 80).
Ad avviso della Corte, il principio del ne bis in idem deve dunque essere letto come divieto di giudicare un individuo per una seconda infrazione, qualora questa scaturisca dagli stessi fatti o da fatti che sono sostanzialmente identici (C.edu, GC, Zolotoukhine c. Russia, 81-82; criterio seguito dalla giurisprudenza successiva, cfr. C.edu, Ruotsalainen c. Finlandia, 16/6/2009, 50 e ss.).
Chiamato ad affrontare la questione dall’angolo visuale del rapporto tra i reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter D.Lgs. n. 74/2000 e la (parallela) sanzione amministrativa di omesso versamento ex art 13 D.Lgs. n. 471/1997, il Supremo Collegio italiano – con motivazioni che la struttura delle citate disposizioni rende suscettibili di essere trasposte in questa sede – ha affermato che per stabilire il concorso apparente o effettivo di norme, si deve verificare se le norme sanzionatorie in questione riguardino o meno lo “stesso fatto” astratto.
La Cassazione ricostruisce il rapporto tra gli illeciti in termini non di specialità, ma piuttosto di progressione di offesa: la fattispecie penale costituisce una violazione molto più grave di quella amministrativa e, pur contenendo necessariamente quest’ultima, la arricchisce di elementi essenziali che non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità, in quanto recano decisivi segmenti comportamentali, che si collocano in un momento successivo al compimento dell’illecito amministrativo.
Secondo il Supremo consesso “la conclusione così assunta in ordine al rapporto sussistente, in via generale, fra le disposizioni in discorso non si pone in contrasto né con l’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, né con l’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, che sanciscono il principio del ne bis in idem in materia penale. Anzitutto, invero, nella specie, come si è visto, non si può parlare di identità del fatto; in ogni caso, poi, il principio suddetto si riferisce solo ai procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l’ipotesi dell’applicazione congiunta di sanzione penale e sanzione amministrativa tributaria (in tal senso, espressamente, Corte di Giustizia U.E., 26/2/2003, Aklagaren c. Hans Akerherg Franson)” (così Cass. S.U. nn. 37424 e 37425/2013; cfr. altresì Cass. sez. III n. 20266/2014).
A sommesso avviso di questo Giudice, il dictum delle Sezioni Unite, nel suo far leva su apprezzamenti astratti, appare di dubbia conformità convenzionale e sembra inscriversi in quella corrente di pensiero giurisprudenziale che tende a risolvere il problema della specialità a partire da considerazioni relative al bene giuridico protetto dalle singole disposizioni coinvolte.
Peraltro, già nell’ambito della giurisprudenza italiana, trattasi di indirizzo contraddetto da altre (e più condivisibili) prese di posizione, sempre delle Sezioni Unite, patrocinanti un’interpretazione del principio di specialità fondata sul rilievo decisivo della medesima situazione di fatto (vd. Cass. S.U. 420/ 1982; cfr. in quest’ottica Cass. sez. II n. 11989/2010).
Ritiene quindi chi scrive che l’interpretazione da ultimo fornita da Cass. S.U. nn. 37424 e 37425/2013, non possa essere condivisa, quantomeno nella misura in cui determina una (eccessiva) restrizione del campo di applicazione del principio di specialità alle sole ipotesi in cui si verte tra norme dirette a tutelare lo stesso bene giuridico; ipotesi di non frequente verificazione, con correlativo rischio di vanificazione dell’operatività di un principio, quale il ne bis in idem, che esige invero, pur nel pieno rispetto delle esigenze di difesa sociale, un’applicazione sufficientemente ampia al fine di evitare duplicazioni sanzionatorie di dubbia correttezza teorica e utilità pratica.
Non appare un caso come tale criterio sia sempre stato sconfessato dalla stragrande maggioranza della letteratura giuridica, anche la più autorevole e accreditata.
Non appare inoltre corretta la ricostruzione operata da Cass. S.U. nn. 37424 e 37425/2013 in relazione al quadro normativo UE.
La Corte UE infatti, lungi dal giustificare plurimi interventi punitivi, identifica da lungo tempo il cuore del ne bis in idem europeo proprio nell’identità dei fatti materiali, escludendo ogni lettura formalistica relativa all’identità della qualificazione giuridica, al precipuo fine di garantire al cittadino comunitario la libertà di circolare nell’“area Schengen” senza correre il rischio di essere perseguito più volte da parte di diversi Stati membri in forza dello stesso comportamento (vd. C. Giust., Leopold Hemì Van Esbroeck, C-436/04, 9/3/2006, 27-36 e C. Giust., Norma Kmaijenbnnk, C-367/05, 18/7/2007, 36; C. Giust., Gaetano Mantello, C-261/09, 16/11/2010, 51 in tema di MAE).
Se l’analisi svolta è corretta e se quindi principio guida deve essere l’identità della situazione di fatto già sanzionata, pare a questo Giudice che la condotta dell’imputato genetica del procedimento sanzionatorio-amministrativo già concluso e del presente processo penale sia pacificamente la medesima, id est l’omessa dichiarazione fiscale.
Deve aggiungersi che – già sul piano astratto – sembra potersi affermare la piena sovrapponibilità tra le sanzioni amministrative irrogate all’imputato ai sensi degli artt. 1 e 5 D.Lgs. n. 471/1997 e la sanzione penale di cui qui si discute, l’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000.
Giova sul punto riportare il testo delle disposizioni coinvolte.
L’art. 1 D.Lgs. n. 471/1997 statuisce “Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di Euro 258,00 …”.
L’art. 5 D.Lgs. n. 471 del 1997 statuisce “Nel caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale dell’imposta sul valore aggiunto, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare del tributo dovuto per il periodo di imposta o per le operazioni che avrebbero dovuto formare oggetto di dichiarazione. … La sanzione non può essere comunque inferiore a Euro 258,00”.
L’art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000 qui contestato statuisce che “È punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte a Euro trentamila.”
In definitiva, la condotta rilevante in entrambi gli universi, sanzionatorio-amministrativo e penale, sembra costituita, già in astratto, dall’omessa dichiarazione fiscale che determina sempre la reazione amministrativa e quella penale al superare determinate soglie di evasione ritenute penalisticamente offensive.
Indubbio appare dunque l’idem ai sensi del principio in discussione.
Il secondo profilo residuo è rappresentato dalle possibilità operative facenti capo al Giudice.
Discostandosi dall’indirizzo di Cass. S.U. nn. 37424 e 37425/2013, la Corte nomofilattica – con sentenza n. 33314/2014 relativa a fattispecie riguardanti illeciti amministrativi e penali del TUF – ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost, in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU, al fine di censurare il doppio binario punitivo in materia di abusi di mercato.
In disparte profili di dubbio costituzionale strettamente attinenti alla disciplina sanzionatoria in tema di insider trading, il Supremo Collegio prospetta una censura dell’art. 649 c.p.p. “nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della CEDU e dei relativi Protocolli”.
Nell’ambito del medesimo dubbio ermeneutico ma in diversa prospettiva, il Tribunale di Torino, ha ritenuto di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della Corte Europea, ponendo la seguente questione interpretativa: “se ai sensi degli artt. 4 Prot. n. 7 CEDU e 50 CDFUE, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui all’art. 10 bis D.Lgs. n. 74 del 2000 nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto (omissione versamento delle ritenute), sia già stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui all’art. 13 D.Lgs. n. 471 del 1997 (con l’applicazione di una sovrattassa)”.
A sommesso avviso di questo Giudice, entrambe le soluzioni adottate – questione di legittimità costituzionale da un lato e rinvio pregiudiziale dall’altro – non appaiono pienamente soddisfacenti.
È infatti convinta opinione di chi scrive che nulla osti ad una applicazione diretta dell’art. 649 c.p.p. al di là dei limiti apparentemente segnati dal suo tenore letterale.
L’art. 649 c.p.p. prevede per il Giudice l’obbligo di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere soltanto nel caso in cui l’imputato sia stato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili: e dunque – secondo quanto comunemente si riconosce – in presenza di un provvedimento irrevocabile pronunciato dal giudice penale italiano.
Specifiche norme di diritto internazionale, tra le quali spicca per importanza l’art. 54 della Convenzione di Schengen, estendono l’effetto preclusivo di un nuovo giudizio a provvedimenti definitivi di giudici penali stranieri; ma nessuna norma prevede espressamente l’ipotesi, che qui rileva, di un provvedimento, afferente alla matière pénale secondo i criteri Engel, ma formalmente qualificato come amministrativo ai sensi del sistema normativo italiano.
Nell’ipotesi ermeneutica di autorevole dottrina, l’applicabilità diretta dell’art. 649 c.p.p. risulta teoricamente giustificata, a sua volta, dall’immediata applicabilità dell’art. 50 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE). In tale ordine di idee, il diritto fondamentale del ne bis in idem è oggi enunciato a chiare lettere – oltre che dall’art. 4 Prot. 7 CEDU – anche dall’art. 50 CDFUE, che è norma di diritto primario dell’Unione (art. 6 § 3 TUE) e che è, pertanto, perfettamente idonea a produrre effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, con carattere di primazia rispetto ad eventuali norme nazionali contrastanti.
Proprio in tale ordine di idee pare muoversi l’opzione torinese che tuttavia non va sino in fondo ma passa la palla ad altri, alla Corte UE, chiamandola a dirimere una questione che, quantunque debba essere inquadrata in un contesto di fonti sovranazionali, possiede tuttavia, ad avviso di chi scrive, portata meramente interna.
Deve infatti ricordarsi che ai sensi dell’art. 51 CDFUE, la Carta può trovare applicazione solo quando gli Stati membri “agiscono nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione” (vd. CGUE, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni).
A noi pare invece che l’applicazione diretta dell’art. 649 c.p.p. sia consentita, utilizzando un’assai diffusa e forse abusata terminologia, in virtù di un’interpretazione convenzionalmente conforme dello stesso.
Rectius. È opinione di chi scrive – sia detto per inciso – che la categoria concettuale “interpretazione conforme” abbia alla propria base una visione kelseniana dell’attività interpretativa non condivisibile.
Riformulato il problema da quest’ultimo punto di vista, questo Giudice ritiene, semplicemente, che l’applicazione diretta dell’art. 649 c.p.p. sia operazione ermeneutica consentita già in virtù delle più tradizionali tecniche interpretative.
Tecniche che, quantunque da collocarsi sullo sfondo del diritto pretorio CEDU, non determinano tuttavia un problema da superare fondato sul discrimine tra l’applicabilità diretta – consentita a fronte del solo diritto UE e con disapplicazione della norma interna confliggente – e la mera interpretazione conforme della norma interna, che ha come limite l’impossibilità, secondo l’opinione maggioritaria, di applicazione diretta del diritto CEDU in contrasto con la fonte indigena (vd. da ultimo Corte Cost. 80/2011 nonché Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 24 aprile 2012, C-571/10 e Corte di Giustizia UE, Grande sezione, 24 aprile 2012, C-571/2010, Servet Kaberaj).
È opinione assai diffusa tra i giuristi, in modo più o meno consapevole, che l’analogia costituisca un procedimento intellettuale situato al di fuori dell’interpretazione giuridica propriamente detta e, come tale, da guardare quasi con sospetto.
Invero il procedimento per analogia è da considerarsi elemento indefettibile dell’interpretazione giuridica in quanto costituisce il metodo necessario per ricavare le coordinate onde provvedere all’autointegrazione dell’ordine giuridico al fine dell’eliminazione delle inevitabili lacune.
Nel suo saggio sull’analogia Bobbio insegna che il diritto “è pur sempre la conseguenza di un pensiero e lo strumento ad un fine, e questo pensiero e questo fine sono i termini di un processo storico, entro cui quella volontà si ferma e si esplica”. Ciò che fa il diritto, non è volontà che in una dato momento “confluisca per arrestarsi o solidificarsi in schemi definitivi” ma è “un pensiero che si svolge”, e si manifesta sì, ma non per cristallizzarsi, bensì “per trapassare in altro pensiero”.
Su questo presupposto si fonda l’intima razionalità e coerenza del sistema positivo, che fa assegnamento su di una perenne elaborazione interpretativa, che è opera di autointegrazione.
Da tali premesse, anche un importante corollario pratico: l’estensione (rectius, l’interpretazione) analogica – specie nell’attuale sistema delle fonti c.d. multilivello – non deve essere di volta in volta oggetto di espressa previsione, ma è sempre legittima, salvo, ovviamente, che non sia vietata, o non risulti incompatibile con la natura eccezionale della norma di cui si tratta (vd. artt. 12 e 14 preleggi).
Se così è, punto di partenza ai fini della risoluzione della questione che qui interessa non può che essere la diagnosi ermeneutica circa l’eccezionalità o meno della disposizione di cui all’art. 649 c.p.p., ossia se la stessa costituisca o meno ius singulare insuscettibile di estensione analogica.
Secondo condivisibile definizione trattasi di ius singulare quando la disciplina del caso costituisce un’interruzione della consequenzialità logica e politico legislativa dei principi, una deviazione delle sue direttive generali, tale da porsi con essa in collisione e da escluderla.
Un’anomalia, la cui estensione, pur non essendo impensabile, aprirebbe una più larga breccia nella normalità e aumenterebbe la disarmonia con la logica dei principi e con il disegno di razionale coerenza che se ne ricava, pur essendo dettata dalla valutazione di una utilitas, di un interesse di rilevanza sociale, ancorché transeunte o ben circoscritto.
Se quella indicata è la fisionomia del diritto eccezionale, non pare affatto che tali caratteristiche siano presenti nell’art. 649 c.p.p.
Il ne bis in idem appare al contrario principio generale, che attraversa ogni ramo del diritto, sostanziale e processuale, e che è parte integrante della generalità degli ordinamenti giuridici.
Nel diritto CEDU, ovviamente parte integrante dell’ordinamento giuridico italiano, esso ha natura di diritto fondamentale dell’individuo, peraltro di rango particolarmente elevato in quanto nessuna deroga è consentita, nemmeno in tempo di guerra o in situazioni di emergenza (art. 4 comma 3 Prot. 7). L’aver collocato il ne bis in idem tra i diritti inderogabili anche in caso di guerra o di altro pericolo che minacci la vita della nazione ex art. 15 CEDU è scelta dall’altissimo valore politico, che ne sugella l’efficacia incondizionata ed il valore assoluto.
Così come, in numerose decisioni relative al settore della concorrenza, la Corte di Giustizia Ue ha riconosciuto al ne bis in idem natura di principio generale del diritto comunitario (vd. C.Giust. CE, 14/12/1972, Boheringer Mannheim/Commission; C.Giust. CE, 15/10/2002, Limburgse Vinyl Maatschappij NV).
Nell’ordinamento italiano, sebbene la Costituzione non contempli espressamente tale principio, la Corte Costituzionale lo ritiene comunque un valore costituzionalmente protetto, poiché esso discende sia dal diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) che dal principio della ragionevole durata del processo (vd. Corte Cost. nn. 501/2000 e 129/2008).
Infine, la stessa Cassazione a Sezioni Unite, sul presupposto dell’analogia di cui all’art. 12 preleggi, estende l’art. 649 c.p.p. al di là dei suoi confini naturali, rendendolo operativo anche in presenza di una precedente sentenza non irrevocabile (vd. Cass. S.U. 28/6/2005, Donati, nonché le successive conformi Cass. 3/5/2006, Cacciani; Cass. 10/04/2008, Gesso; Cass. 5/7/2012, Ferrini).
Le argomentazione sinora svolte sembrano permettere le conclusioni.
Per quanto inizialmente rilevato, il quadro CEDU relativo alle caratteristiche sostanziali della “pena” appare non solo coerente bensì assiologicamente coeso, ossia riconducibile ad un unico principio o comunque ad unica armoniosa costellazione di principi.
Nella fattispecie di cui è processo tale principio, quantomeno, sembra imporre di ritenere che Euro 552.994,20 di sanzioni amministrative, correlate ad una contestata evasione di Euro 730.347,00, rappresentino, a tutti gli effetti e al di là della formale qualificazione giuridica interna, una pena.
Tale assunto non dovrebbe destare perplessità poiché le indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo costituiscono parte integrante del nostro sistema giuridico che l’interprete interno deve necessariamente considerare e recepire, quantomeno fintantoché non urtino con i c.d. limiti logici dell’interpretazione conforme, id est l’univoca littera legis contraria o il contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento nel suo complesso (vd. CGCE, 28 giugno 2007 C-467/05, Giovanni dell’Orto; CGCE, 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino; Corte Cost. 28, 196 e 227/2010; sui c.d. controlimiti vd. da ultimo Corte Cost. nn. 238/2014, 311 e 317/2009 e, ovviamente, 183/1973; cfr. Cass. pen. Sez. VI 16542/2006).
Pare tuttavia da escludere, con sufficiente tranquillità, il contrasto tra il ritenere “penali” determinate sanzioni e principi fondamentali di segno eguale e contrario, essendo evidente che pur legittime considerazioni di difesa sociale non possono obliterare prerogative individuali come quella a non essere giudicato più volte.
Infine, pare consentito l’utilizzo di un argomento che, quantunque ancillare nell’ambito di una corretta teoria dell’interpretazione giuridica, nel caso di specie non può tuttavia non essere invocato.
Alla luce dell’argomento equitativo (o della ragionevolezza) non v’è francamente chi non veda come Euro 552.994,20 di sanzioni iscritte a ruolo costituiscano una pena pesantissima, capace di condizionare la vita del trasgressore in misura assai maggiore rispetto a molte delle sanzioni attualmente contemplate dal codice penale.
Se i Euro 552.994,20 costituiscono una pena – che rende “penale” anche il relativo procedimento applicativo, vd. in particolare C.edu, Ozturk c. Repubblica federale tedesca, cit. – allora diviene evidente una corrispondenza e congruenza con la base logica del trattamento giuridico ex art. 649 c.p.p., la c.d. convenientia rationis.
L’esclusione poi, per quanto già osservato, del carattere eccezionale di tale disposizione accantona ogni problema di indebito stupro della relativa littera legis poiché non si stratta di disapplicarla in qualche modo bensì di attivare – a ciò legittimati dallo stesso Legislatore ex art. 12 preleggi oltreché dalla logica giuridica – un procedimento diretto a sviluppare nella sua espansione logica (e assiologica) la ratio legis, così da adeguarla e adattarla ad un caso diverso da quello previsto ma ad esso consimile.
È in definitiva l’extensio dei giuristi medioevali la quale – beninteso – argomentando dalla convenientia rationis e quindi dal disegno di razionale coerenza dell’ordinamento giuridico, costituisce mezzo di interpretazione e non mai di “produzione” del diritto.
In ordine al requisito della definitività del provvedimento amministrativo precedente di cui alla sentenza C.edu, Grande Stevens, cit., nel caso di specie non constano relativi atti di impugnazione, con la conseguenza – apparentemente indubbia alla luce del dichiarato dello stesso imputato e delle caratteristiche concrete della vicenda – dell’inoppugnabilità amministrativa dello stesso provvedimento.
Ritiene per inciso questo Giudice che, quantunque il requisito della definitività del provvedimento previamente intervenuto sembri imposto dal dictum di cui alla citata sentenza, esso non appare tuttavia rilevante nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano.
La clausola di salvaguardia di cui all’art. 53 CEDU impone infatti l’utilizzo ermeneutico della Convenzione e del suo diritto vivente esclusivamente “verso l’alto”, ossia verso un livello di tutela più elevato di quello nazionale (sull’utilizzo dell’art. 53 CEDU proprio in tema di sanzioni vd. C.edu, Handyside c. Regno Unito, 7/12/1976, 68).
In questa prospettiva, è proprio l’ordinamento giuridico italiano ad apparire più evoluto, alla luce del principio di cui a Cass. S.U. 28/6/2005, Donati che ai fini del ne bis in idem, mediante un autorevole e corretto intervento ermeneutico, amputa dalla fattispecie normativa di cui all’art. 649 c.p.p. il requisito dell’irrevocabilità della precedente pronuncia giurisdizionale.
Tale principio pare altresì conforme a taluni passaggi della stessa sentenza Grande Stevens (220), dove si ricorda come la garanzia consacrata dall’art. 4 Prot. 7 CEDU tuteli l’individuo non già contro la possibilità di essere sanzionato due volte per lo stesso reato, ma ancor prima di essere sottoposto una seconda volta a processo per un reato per il quale è stato già giudicato.
Ciò che, già di per sé, non sembra attribuire rilevanza fondamentale alla definitività, essendo evidente come la contemporanea pendenza, in idem, di un processo penale da un lato e di contenzioso tributario dall’altro – magari susseguente ad un contenzioso amministrativo-sanzionatorio con l’Agenzia delle Entrate – costituisca ipotesi di assai dubbio ossequio al principio fondamentale in parola.
P.Q.M. – Visto l’art. 649 c.p.p.
DICHIARA non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere stato il fatto ascrittogli già oggetto di precedenti giudizio e sanzione penali.
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