SOMMARIO: 1. La sentenza n. 25758 del 5 dicembre 2014 – 2. Estensibilità dei principi chiariti dalla sentenza n. 25758/2014 ad altre operazioni pertinenti il tema dell’abuso del diritto; 2.1 La modifica del tipo di società o della forma giuridica; 2.2 Il conferimento di azioni finalizzato alla costituzione della holding di famiglia; 2.3 L’operazione di fusione attuata per l’accorciamento della catena partecipativa; 2.4 La scissione proporzionale di cassa – 3. Considerazioni conclusive.
Giocando d’anticipo sul decreto legislativo che riformerà la disciplina dell’“abuso del diritto o elusione fiscale”, con il fine che tutti si auspicano di dare maggiore certezza giuridica al sistema tributario italiano, la Corte di Cassazione ha pronunciato un’importante sentenza in tema di abuso del diritto, ponendo a fondamento delle proprie motivazioni molti principi e criteri direttivi della legge delega 11 marzo 2014, n. 23.
1. La sentenza n. 25758 del 5 dicembre 2014
La sentenza della Corte di Cassazione 5 dicembre 2014, n. 25758 (1) merita un plauso particolare per la chiarezza con cui ha illustrato il principio del divieto dell’abuso del diritto e per come lo ha messo in pratica, interpretando senza pregiudizi le prescrizioni dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che dispongono il disconoscimento, ai fini fiscali, dei comportamenti «diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti».
Il fatto oggetto di causa riguardava un’operazione di “sale & lease back” immobiliare che era stata ritenuta elusiva, prima dal locale ufficio dell’Agenzia delle entrate e successivamente dalla Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano, in ragione dei seguenti elementi indiziari:
indiscussa solidità finanziaria della società, che non giustificava l’operazione di cessione del bene immobile, contestualmente retrocesso in locazione finanziaria, per acquisire liquidità;
importo del canone iniziale particolarmente elevato (pari ad 1/3 del prezzo riscosso) rispetto alla breve durata del contratto (otto anni);
documenti provenienti dalla società locatrice, dai quali emergeva che la suddetta operazione di lease back veniva effettuata esclusivamente per motivi fiscali;
la società non aveva fornito alcuna ragione economica alternativa al risparmio d’imposta, dovendo individuarsi quest’ultimo nel vantaggio di dedurre l’intero importo dei canoni di leasing in otto anni, in luogo della deduzione, per un periodo molto più lungo, delle quote di ammortamento dell’immobile (se mantenuto in proprietà) e degli interessi passivi sul mutuo (che la società avrebbe contratto con le banche se avesse avuto necessità di cassa).
È agevole osservare che sia l’ufficio impositore sia la Commissione regionale di Bolzano hanno ritenuto, nella specie, di essere di fronte ad una effettiva condotta elusiva semplicemente a causa dell’assenza di valide ragioni economiche extrafiscali dell’operazione, come dimostravano anche taluni carteggi rinvenuti presso la società di leasing. Hanno dunque attribuito a tale assenza un valore dirimente, considerandola un elemento di per sé sufficiente a giustificare la ripresa a tassazione del vantaggio fiscale ottenuto dal contribuente (i.e. la deduzione dei canoni di leasing), senza valutare in alcun modo l’eventuale carattere “indebito” di questa deduzione accelerata (rispetto alla deduzione del costo dell’immobile sotto forma di quote di ammortamento).
Si tratta di una prassi, amministrativa e giurisprudenziale, che si è progressivamente consolidata negli anni e che, come è stato osservato in dottrina, ha piegato il disposto normativo dell’art. 37-bis «spostandone il focus dalla natura “indebita” del risparmio d’imposta alle “valide ragioni economiche”. Si è così registrata una tendenza del tutto inaccettabile a definire l’elusione e l’abuso come il risultato di due soli fattori: l’esistenza di un vantaggio fiscale e l’assenza di valide ragioni economiche. I due elementi indicati sono progressivamente divenuti il leit motiv di tutte le pronunce giurisprudenziali sul tema, nelle quali è del tutto assente ogni indagine critica circa la natura “indebita” del risparmio conseguito» (2).
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Questa volta, invece, la ricostruzione interpretativa che ha portato l’ufficio impositore e i giudici territoriali a negare che il contribuente potesse legittimamente scegliere tra le varie soluzioni possibili, anche in virtù del loro differente carico fiscale, è stata recisamente disattesa dalla Corte di Cassazione la quale, nell’accogliere il ricorso della società contribuente, ha chiarito molto bene i presupposti essenziali dell’abuso del diritto. Le indicazioni della Corte aiutano, tra l’altro, a riflettere anche su altre operazioni e vicende, diverse dal lease back, che sono state, in questi anni, frequentemente ricondotte dall’Agenzia delle entrate nella sfera dell’elusione fiscale, spesso – come si diceva – anche col supporto della giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità.
Ma procediamo con ordine, riportando innanzitutto i passaggi chiave della sentenza:
1. «non è dato … rinvenire nell’ordinamento tributario alcun obbligo giuridico del soggetto che ha acquistato la proprietà del bene immobile strumentale di rimanere necessariamente vincolato a tale regime fiscale, atteso che, come rientra nella libera determinazione del soggetto-imprenditore la facoltà di optare tra l’acquisto della proprietà dell’immobile, versando immediatamente l’intero prezzo della compravendita, od invece la utilizzazione del medesimo bene in leasing con clausola di riscatto finale della proprietà (leasing traslativo), modulando in tal modo il relativo impegno finanziario, o ancora il semplice utilizzo in godimento del bene immobile da rilasciare alla scadenza al concedente – proprietario (leasing finanziario puro), così non può ritenersi impedito all’operatore economico l’impiego di qualsiasi altro strumento negoziale – diretto a conseguire il medesimo risultato dell’utilizzo del bene immobile strumentale – tra cui anche, per quanto interessa la presente fattispecie, il contratto di “sale & lease back” ….
Ciascuno dei casi indicati, infatti, comporta un proprio differente regime fiscale (prezzo di vendita; canone di leasing; plusvalenza), e la relativa applicazione – in quanto conseguenza diretta della scelta operata dall’impresa – non può, evidentemente, integrare “abuso del diritto” solo perché il soggetto si determina a compiere la operazione negoziale fiscalmente meno onerosa» (ved. punto 7.10 della sentenza);
2. «La pattuizione delle condizioni del contratto di “sale & lease back”, tra cui la previsione di una maxi-rata iniziale, rientra nella libera determinazione negoziale delle parti e nella valutazione della convenienza economica dell’affare in relazione al costo di accesso al finanziamento offerto sul mercato dalle società di leasing: difetta la prova – nulla, al riguardo, avendo accertato la CTR – che la previsione di tale condizione integri un elemento difforme od abnorme rispetto alla attuazione dello schema del contratto di “sale & lease back” affermatosi nella prassi commerciale, e dunque viene meno anche la efficacia indiziaria di tale circostanza.
Ne segue che alcuna espressione di anomalia od irragionevolezza rispetto alle ordinarie logiche d’impresa può essere rinvenuta negli elementi indiziari sopra indicati, bene essendo rimessa all’esercizio della autonomia privata … la ricerca della forma di finanziamento ritenuta più opportuna (accesso al credito bancario nelle diverse forme negoziali previste; investimento in strumenti finanziari; delibera di nuovi conferimenti da parte dei soci; emissione di obbligazioni; stipula di contratti di leasing o di lease back, ecc.), assolvendo ad uno specifico e concreto interesse economico della impresa la estinzione di pregressi debiti o passività bancarie mediante l’acquisizione di nuova liquidità a condizioni di finanziamento ritenute convenienti a giudizio della stessa impresa (quanto a tasso di interesse e scadenze previste per la restituzione dei canoni)» (ved. punto 7.12 della sentenza);
3. «Pertanto, se la opzione tra l’acquisto in proprietà di un bene strumentale e la locazione finanziaria avente ad oggetto il medesimo bene, rientra nel libero esercizio della attività economica, non sindacabile sotto il profilo della opportunità ma soltanto sotto il profilo della “manifesta illogicità” od “antieconomicità” della operazione, e se nella specie non sono emerse, alla stregua dell’accertamento condotto dalla CTR, elementi di “alterazione” della causa concreta del negozio di “sale & lease back”, ne segue che difetta del tutto, nella fattispecie in esame, l’elemento obiettivo di un uso “distorto” degli strumenti negoziali o di una “anomalia” nella condotta economica del soggetto-contribuente, sintomatici della pratica abusiva …, con la ulteriore conseguenza:
a) che la opzione effettuata dalla società contribuente per un regime fiscale più favorevole è del tutto conforme al principio affermato dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale richiamata al paragrafo 7.9 della presente motivazione, secondo cui “il soggetto passivo ha diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale”;
b) che la operazione effettuata da Estfeller GmbH – in assenza di indizi sintomatici di anomalia riferiti allo schema negoziale – in quanto volta a modificare la situazione proprietaria del bene immobile ed a procurarsi un nuovo finanziamento, non può per ciò stesso ritenersi abusiva, atteso che il regime fiscale applicabile, concernente la “anticipata” deducibilità del componente negativo di reddito (canoni di leasing), costituisce la naturale conseguenza del fenomeno economico-giuridico che le parti hanno voluto realizzare, per cui all’effetto traslativo del diritto di proprietà sul bene immobile ed alla concessione in locazione del medesimo bene corrispondono differenti regimi fiscali in ordine alla deducibilità dei costi;
c) che la scelta dell’operatore rivolta a realizzare un determinato assetto aziendale funzionale all’esercizio della impresa – attuato sostituendo il regime della proprietà sul bene strumentale con il diritto di godimento sul medesimo bene – bene può essere determinata, anche prevalentemente, dall’obiettivo di conseguire un risparmio d’imposta, non comportando tale scelta alcun “aggiramento” delle norme fiscali sull’ammortamento, quanto piuttosto la individuazione ex ante del regime giuridico dei beni aziendali più conveniente in relazione al regime fiscale meno gravoso, rendendosi pertanto del tutto irrilevante, ai fini dell’accertamento della pratica abusiva, l’elemento fondato sulla “intenzione” della società contribuente che, dalla documentazione rinvenuta presso la società di leasing, risultava essersi determinata ad optare tra il mantenimento in proprietà e la concessione in godimento del bene immobile eminentemente in relazione al più favorevole regime fiscale» (ved. punto 7.13 della sentenza).
Il sopra riportato punto 7.10 della sentenza spiega, con estrema semplicità, il principio secondo cui un soggetto che si trova in una determinata situazione o posizione fiscale – che può essere la forma societaria con cui svolge la propria attività d’impresa, il titolo tramite cui utilizza un determinato cespite aziendale, il rapporto tra capitale proprio e capitale di debito, e così via – non è costretto a conservarla per tutta la vita, ma è libero di modificarla, in qualunque momento, acquisendo uno status fiscale ad esso maggiormente favorevole, non potendo configurare un’ipotesi di “abuso del diritto” il fatto che il soggetto si determini semplicemente a compiere l’operazione negoziale fiscalmente meno onerosa.
Quindi, niente di male, nessun abuso, nel cedere un cespite aziendale e contestualmente riacquisirlo in leasing al fine di dedurre il costo del bene (tramite i canoni di locazione) in un periodo di tempo molto più breve rispetto a quello garantito dal processo di ammortamento.
Con la motivazione rappresentata al successivo punto 7.12 della sentenza i giudici della Corte di Cassazione valutano l’assenza di elementi “anomali” o “irragionevoli” nelle clausole del contratto di lease back pattuite dalla società rispetto allo schema contrattuale affermatosi nella prassi commerciale (in particolare, viene considerata come del tutto normale l’entità della maxi-rata iniziale corrispondente ad 1/3 del prezzo di cessione dell’immobile), giungendo alla conclusione che la società contribuente ha agito secondo le ordinarie logiche d’impresa, essendo rimessa all’esercizio dell’autonomia privata l’individuazione della forma di finanziamento più opportuna, che può tradursi nell’acquisizione di capitale di debito (nelle sue diverse forme dell’accesso al credito bancario, dell’emissione di obbligazioni o altri strumenti finanziari, della stipula di contratti di leasing, ecc.), oppure di capitale di rischio (nuovi conferimenti da parte dei soci) (3).
Non può dunque sostenersi che la società ricorrente, con lo schema negoziale in questione, abbia aggirato le norme sulle imposte sui redditi che sarebbero state applicate qualora, rimanendo proprietaria dell’immobile, avesse stipulato con la banca un nuovo finanziamento (ossia le norme che prevedono la deducibilità delle quote di ammortamento e degli interessi passivi). Tale argomento confligge palesemente con il diritto d’impresa costituzionalmente tutelato e implica una indebita invasione nella sfera delle scelte imprenditoriali; scelte che non possono essere sindacate dagli Uffici finanziari sulla base di criteri di opportunità e convenienza, ma soltanto ove le operazioni evidenzino caratteri di “antieconomicità” ed “irrazionalità” tali da richiedere una specifica giustificazione della condotta tenuta dall’impresa (4).
Semplicemente ineccepibile è poi il ragionamento logico-giuridico espresso nei vari passaggi del punto 7.13 della sentenza, con cui di fatto i giudici concludono le loro motivazioni. In sintesi, la Corte osserva che non può configurarsi una condotta elusiva quando l’impresa sceglie tra due differenti “titoli” di possesso per l’acquisizione di un medesimo bene (proprietà vs locazione finanziaria) ed il relativo contratto non presenta elementi manifestamente “illogici” o “antieconomici” da far supporre un uso “distorto” dello stesso, atteso che il regime fiscale del leasing, che permette una “anticipata” deducibilità del componente negativo di reddito (i.e. canone di leasing) rispetto alla quota di ammortamento del bene, costituisce la naturale conseguenza dello strumento negoziale che l’impresa ha deciso di adottare (5).
I giudici della Corte di Cassazione giungono, dunque, a riconoscere come perfettamente legittima la condotta della società che si è avvalsa di un negozio giuridico portatore di effetti fiscali più favorevoli, attribuendo essenziale rilevanza – come dovrebbe sempre essere in una corretta ricostruzione interpretativa finalizzata all’accertamento di un’eventuale pratica abusiva – al fatto che non vi sia stato il perseguimento di vantaggi non voluti dal legislatore, ossia di vantaggi che violano le finalità delle norme fiscali e i principi generali dell’ordinamento tributario.
Con tale approccio interpretativo la sentenza si pone in perfetta armonia con il principio illustrato dalla Relazione accompagnatoria alla bozza del decreto legislativo che darà attuazione alla legge delega n. 23/2014, secondo cui, affinché si abbia un’ipotesi di abuso del diritto, occorre che vi sia «la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi. Ciò permette, in particolare, di calibrare in modo adeguato l’ipotesi di abuso in ragione dei differenti principi che sono alla base dei tributi non applicati, fermo restando che, come si è detto, la ricerca della ratio e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione».
I giudici della Suprema Corte concludono, infine, chiarendo che la scelta del contribuente rivolta a realizzare un determinato assetto aziendale, nella specie attuato sostituendo alla “proprietà” del bene il “diritto di godimento” sullo stesso, può essere determinata, «anche prevalentemente, dall’obiettivo di conseguire un risparmio d’imposta, non comportando tale scelta alcun aggiramento delle norme fiscali sull’ammortamento». Resta, dunque, del tutto irrilevante il fatto che la società abbia intenzionalmente agito proprio con l’obiettivo di ottenere il regime fiscale meno gravoso, potendo, detta motivazione, essere anche apertamente dichiarata dalla società contribuente.
Riepilogando, la sentenza in commento indica con estrema chiarezza che nell’accertare l’eventuale esistenza di una condotta elusiva vanno sempre tenuti in considerazione i seguenti principi e criteri direttivi:
a. rientra nella libera determinazione del contribuente la facoltà di optare tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale, e tale libertà può essere esercitata in ogni momento poiché non è rinvenibile nell’ordinamento tributario alcun obbligo giuridico del contribuente di rimanere necessariamente vincolato ad un determinato assetto fiscale (6);
b. la decisione del contribuente di porre in essere un’operazione rispetto ad un’altra, ugualmente percorribile, non è sindacabile sotto il profilo della opportunità ma soltanto sotto il profilo della “manifesta illogicità” od “antieconomicità” dell’operazione;
c. la condotta abusiva può dunque essere accertata soltanto ove vi sia un “uso distorto” di strumenti giuridici, da intendersi come loro mancata conformità a una normale logica di mercato (7);
d. la scelta operata dal contribuente può ben essere determinata, anche prevalentemente, dall’obiettivo di conseguire un risparmio d’imposta, purché tale risparmio non comporti un aggiramento delle norme fiscali o dei principi dell’ordinamento tributario (8);
e. è pertanto del tutto irrilevante, ai fini dell’accertamento della pratica abusiva, l’elemento fondato sulla “intenzione” del contribuente, che può apertamente dichiarare la sua volontà di adottare una certa operazione o un determinato negozio giuridico eminentemente ai fini di conseguire un (legittimo) risparmio d’imposta.
Va, da ultimo, evidenziato che il rapporto di locazione finanziaria analizzato dalla sentenza qui in rassegna intercorre tra soggetti non appartenenti al medesimo gruppo. Il caso, quindi, diverge da quello oggetto della sentenza 8 aprile 2009, n. 8481 (sentenza Marangoni Pneumatici), pronunciata sempre dalla Corte di Cassazione(9), che si caratterizzava per l’appartenenza della società concedente e della società beneficiaria del leasing allo stesso gruppo di imprese. Proprio questa peculiarità portò i giudici dell’epoca a ritenere elusivo il contratto di lease back, sulla base della considerazione che tale contratto, se posto in essere tra due società del medesimo gruppo «è privo di ragioni economiche» in quanto non realizza, a livello di gruppo, «quell’effetto economico che è proprio e caratterizzante della locazione finanziaria e che è costituito da una maggiore disponibilità di danaro». Il principio di diritto sancito dai giudici fu, dunque, il seguente: «il contratto di leasing di beni ammortizzabili stipulato tra due società del medesimo gruppo realizza un abuso di diritto tributario».
La citata sentenza n. 8481/2009 può benissimo catalogarsi tra i casi in cui il giudizio di elusività viene dato senza domandarsi se il vantaggio fiscale conseguito dalla parte sia o meno “indebito”, ritenendosi sufficiente la mancanza di ragioni economiche extrafiscali.
In verità, i giudici del 2009 commisero addirittura due errori: il primo materiale, ossia pertinente la ricognizione dei fatti di causa, in quanto non tennero in considerazione la circostanza che la società locatrice si indebitò verso terzi per circa 21 miliardi di lire (quindi, a livello di gruppo, vi fu un’effettiva maggiore disponibilità di denaro) (10), il secondo concettuale poiché, come detto, giunsero a sancire l’elusività della condotta senza chiedersi se la deduzione accelerata del costo del bene ammortizzabile, tramite i canoni di leasing, rappresentasse un vantaggio fiscale “indebito”, ossia disapprovato dall’ordinamento, oppure – come hanno correttamente statuito i loro colleghi del 2014 – un vantaggio permesso dalle norme tributarie, non comportando la scelta del lease back «alcun “aggiramento” delle norme fiscali sull’ammortamento, quanto piuttosto la individuazione ex ante del regime giuridico dei beni aziendali più conveniente in relazione al regime fiscale meno gravoso» (11).
Acclarato, dunque, che la scelta tra acquisizione in proprietà e acquisizione in locazione finanziaria è fiscalmente legittima, è evidente come non possa assumere alcuna rilevanza il fatto che la società utilizzatrice appartenga o meno allo stesso gruppo di imprese di quella concedente, non potendo, di per sé, questo aspetto, dequalificare un risparmio d’imposta da lecito a indebito (tra l’altro, è abbastanza comune che nell’ambito di gruppi industriali importanti vi sia un’entità finanziaria che accentri presso di sé la gestione del denaro, anche tramite raccolta diretta sul mercato, proprio al fine di effettuare finanziamenti ed operazioni infragruppo) (12).
2. Estensibilità dei principi chiariti dalla sentenza n. 25758/2014 ad altre operazioni pertinenti il tema dell’abuso del diritto
Come si diceva poc’anzi, la sentenza n. 25758/2014 ha ben chiarito il principio secondo cui un contribuente che si trova in una determinata situazione giuridica, generatrice di determinati effetti fiscali, non è obbligato a conservarla per tutta la vita, ma è libero di modificarla ponendosi in una differente posizione fiscale ad esso maggiormente favorevole, poiché «il soggetto passivo ha diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale».
Purtroppo, la prassi dell’Agenzia delle entrate non è sempre stata in linea con tale principio. Si ricordano, qui di seguito, solo alcune delle operazioni che sono state in questi anni irragionevolmente ricondotte dall’Amministrazione finanziaria nella sfera dell’abuso del diritto, o che sono state nel tempo valutate senza un’adeguata costanza ed univocità di criteri.
2.1 La modifica del tipo di società o della forma giuridica
È tristemente nota la risoluzione 28 aprile 2008, n. 177/E (13), con la quale l’Agenzia ritenne elusiva una semplice operazione di trasformazione, da società per azioni a società a responsabilità limitata, finalizzata dichiaratamente ad ottenere un regime fiscale di favore (i.e. la determinazione del reddito agrario su base catastale anziché in base al bilancio). Ancora adesso, a distanza di anni, sconcertano l’esito e le motivazioni di quella risoluzione: un contribuente (una società per azioni) che si trovava privo di un requisito per poter accedere ad un regime agevolativo predeterminato ex lege voleva porsi nelle condizioni volute dallo stesso legislatore (trasformandosi in s.r.l.) proprio al fine di garantirsi tale accesso. Prima di procedere interpellò, a scanso di equivoci, l’Amministrazione finanziaria. Tuttavia, l’equivoco non venne evitato: la risposta fu che così facendo, ossia trasformandosi in s.r.l., il contribuente avrebbe «contravvenuto ai principi dell’ordinamento tributario e in particolare a quelli posti a fondamento delle nuove disposizioni introdotte dalla finanziaria per il 2007 … in quanto l’operazione prospettata realizza lo scopo non in modo fisiologico e strutturale, ma attraverso aggiramenti che generano risultati indebiti».
A parte la difficoltà di immaginare quali potessero essere i “principi dell’ordinamento tributario” che dovevano presumersi violati e quali gli “aggiramenti” che la società, che voleva semplicemente trasformarsi in s.r.l. per soddisfare i requisiti di accesso al regime fiscale di favore, avrebbe in tal modo posto in essere, la risposta, in parole povere, suonava in questo modo: se una persona nasce con un difetto … ci spiace, ma se lo deve tenere per tutta la vita, non può sottoporsi a cure od interventi che le tolgano quel difetto e che le permettano di vivere meglio, deve restare così come Dio l’ha creata (14).
Fortunatamente, come si è sopra detto, la sentenza qui in rassegna (n. 25758/2014) chiarisce senza equivoci che un’impresa che ha acquistato un bene in proprietà, preferendo quindi l’acquisto diretto rispetto ad altri schemi negoziali come l’affitto o la locazione finanziaria, ben può ripensarci, rivendendolo e riacquisendolo contestualmente in locazione, e può far questo ammettendo apertamente che lo fa per ragioni fiscali, per potere cioè dedurre in un minor numero di anni il costo del bene. Non v’è, infatti, alcun abuso del diritto o alcuna condotta elusiva nello scegliere tra differenti assetti previsti dall’ordinamento tributario – si pensi anche alla scelta (i) di rateizzare la plusvalenza, in luogo della sua concorrenza a reddito in unica soluzione, ex art. 86 del TUIR, (ii) di partecipare al consolidato fiscale nazionale ex art. 118 del medesimo Testo Unico, (iii) di optare per il regime dell’imposta sostitutiva di cui al comma 2-ter dell’art. 176 del TUIR, ecc. – perché il legislatore è consapevole del fatto che il contribuente, nel procedere alla scelta tra due o più opzioni o schemi negoziali, o potendo determinarsi per la loro modifica, potrà decidere di adottare quello che consente il regime tributario più favorevole.
Dai chiarimenti forniti dalla sentenza n. 25758/2014 della Corte di Cassazione si inferisce, a nostro avviso, anche la legittimità di una trasformazione da società di persone a società di capitali motivata dalla ragione di ridurre il carico fiscale in capo ai soci: si pensi, ad esempio, ad una società di persone, i cui soci, scontando l’aliquota IRPEF massima e non prelevando gli utili sociali per esigenze di autofinanziamento dell’impresa, hanno chiaramente convenienza a trasformarsi, in modo da differire il delta impositivo rispetto all’IRES sino al momento dell’incasso dei dividendi. Il vantaggio tributario conseguente alla acquisita forma giuridica di società di capitali non può ritenersi “indebito” poiché non viene realizzato «in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario» (15): non v’è, infatti, nella legislazione fiscale alcuna norma, o principio generale, che imponga ad un soggetto di svolgere la propria attività economica secondo una prestabilita forma giuridica societaria.
Anche in questo caso, come in quello oggetto della più volte citata sentenza n. 25758/2014, la scelta della forma giuridica (o assetto societario) più appropriata, anche alla luce dei differenti effetti fiscali, esprime un legittimo diritto dei soci di decidere la forma di conduzione degli affari che permette loro di limitare la propria contribuzione fiscale.
Va da sé che nella delibera di trasformazione i soci dovrebbero potere liberamente affermare che il passaggio a società di capitali è proprio finalizzato all’ottenimento dei predetti vantaggi tributari, non trattandosi di vantaggi fiscali “indebiti” (16).
2.2 Il conferimento di azioni finalizzato alla costituzione della holding di famiglia
Analoga conclusione dovrebbe trarsi nel caso in cui una famiglia che detiene direttamente le azioni della società operativa volesse costituire una holding tramite il conferimento delle suddette azioni (o almeno di una percentuale che assicuri il controllo di diritto) in una società di capitali di nuova costituzione, in applicazione dell’art. 177, comma 2, del TUIR (17).
In passato, l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto che questo regime potesse essere applicato soltanto quando la società oggetto del conferimento e la società conferitaria non appartenessero allo stesso gruppo societario e che, per conseguenza, il detto regime non poteva applicarsi qualora la “ragione prevalente dello scambio di partecipazioni risieda nella volontà di transitare in neutralità fiscale» dal regime di tassazione IRPEF riservato alle persone fisiche non imprenditori, a quello più favorevole dell’IRES (si pensi, ad esempio, alla tassazione dei dividendi ed al regime della participation exemption). Diversamente, si verificherebbe un salto di imposta, in contrasto con l’art. 9 del TUIR che «… afferma un principio generale dell’ordinamento tributario» (18).
Ora, invece, è chiaro che tale regime è usufruibile anche se lo scambio di azioni viene realizzato in ambito famigliare. In tal senso si è espressa la prassi amministrativa più recente: nella circolare 17 giugno 2010, n. 33/E (19), l’Agenzia delle entrate ha, infatti, chiarito che la disciplina di cui all’art. 177, comma 2, del TUIR, può trovare applicazione sia alle operazioni di scambio che attuino un’aggregazione di imprese tra soggetti terzi sia alle operazioni, come quella ipotizzata, realizzate per modificare gli assetti di governance all’interno di gruppi famigliari. La citata circolare, al paragrafo 2, recita testualmente: «l’operazione di scambio di partecipazioni mediante conferimento, autonomamente valutata, costituisce oggetto di un’apposita e “speciale” disciplina tributaria in virtù della sua matrice comunitaria e del suo carattere “riorganizzativo” (i.e., consentire ad una società di acquisire – ovvero incrementare in virtù di un obbligo legale o di un vincolo statutario – il controllo di un’altra società), rilevante per l’incidenza sugli assetti del controllo societario tanto tra soggetti indipendenti quanto all’interno di gruppi societari e/o “familiari”. Ne deriva, pertanto, che il regime disciplinato dal più volte nominato art. 177, comma 2, è posto su un piano di pari dignità con la disciplina di cui all’art. 9 del TUIR rispetto alla quale trova applicazione alternativa, in presenza dei presupposti di legge» (20).
Quindi, una famiglia che volesse interporre una holding tra le persone fisiche e la società operativa non dovrebbe nemmeno chiedersi se l’operazione che sta per porre in essere sia suscettibile di subire una censura per profili di elusività, in quanto si limita ad applicare in modo semplice e diretto una norma del Testo Unico. Dovrebbe preoccuparsi, soltanto, di verificare che siano soddisfatti i requisiti di accesso alla disciplina dell’art. 177, comma 2: in pratica, assicurarsi che oggetto del conferimento sia una percentuale partecipativa che rappresenti il controllo di diritto della società conferita.
Non può, infatti, configurare un’ipotesi di abuso del diritto la applicazione piana di una norma tributaria speciale, diretta a favorire i processi di riorganizzazione aziendale, anche tra società dello stesso gruppo o a carattere famigliare. Come ha osservato Assonime, la disciplina dell’art. 177, comma 2, del TUIR, «dovrebbe trovare naturale applicazione, indipendentemente da ogni apprezzamento circa la validità o meno delle ragioni economiche sottostanti» (21).
Non solo, l’operazione in oggetto non può neppure portare, per definizione, all’ottenimento di vantaggi fiscali (tantomeno “indebiti”), posto che:
a. non comporta alcuna “rivalutazione” del costo fiscale delle azioni conferite, che mantengono in capo alla holding lo stesso costo che avevano in capo alle persone fisiche;
b. non determina nemmeno un salto d’imposta in capo alle persone fisiche, che ricevono in carico le quote della società conferitaria ad un costo fiscale pari a quello delle azioni conferite.
Neanche il fatto che i dividendi distribuibili dalla società operativa alla holding potranno essere quasi integralmente esclusi da tassazione, o che eventuali plusvalenze realizzate da un parziale o totale smobilizzo della partecipazione nella società operativa possano beneficiare del regime della participation exemption, può rappresentare un “indebito” risparmio fiscale, costituendo, per usare le parole della Corte di Cassazione, «
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la naturale conseguenza del fenomeno economico-giuridico che le parti hanno voluto realizzare», ossia il naturale effetto della scelta imprenditoriale di avere realizzato un nuovo assetto partecipativo trasferendo il possesso della società operativa dalle persone fisiche alla holding di famiglia.
In quest’ottica è evidente come la distribuzione delle riserve di utili o la vendita della partecipazione possano anche avvenire a distanza ravvicinata rispetto alla costituzione della holding, anzi la sua costituzione potrebbe proprio essere stata pensata nella prospettiva di cedere a terzi la società operativa e di usufruire, in tal modo, del regime di esenzione previsto dall’art. 87 del TUIR. Tale circostanza non può determinare, in ogni caso, un differente apprezzamento dell’operazione di conferimento sotto il profilo dell’abuso del diritto, se si tiene a mente la premessa – come sopra detto – che la minore tassazione dei dividendi o della plusvalenza è la naturale conseguenza del nuovo assetto partecipativo scaturito dal conferimento.
A ben vedere, la questione è molto simile, anzi, praticamente identica, nella sostanza, a quella disciplinata dall’art. 176, comma 3, del TUIR (22).
La costituzione della holding potrebbe, infatti, avvenire, in alternativa allo share for share di cui all’art. 177, tramite l’applicazione dell’art. 176, ossia tramite il conferimento dell’azienda in una newco da parte della società operativa, la quale ultima diventerebbe la holding di famiglia. La norma da ultimo citata prevede espressamente, in questo caso, la non elusività della «successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell’esenzione di cui all’art. 87».
Dunque, non può essere elusiva la vendita della partecipazione posta in essere dalla holding di famiglia nata in seguito ad uno scambio azionario di cui all’art. 177, comma 2, del TUIR, anziché in seguito ad un conferimento d’azienda ex art. 176, comma 3, del medesimo Testo Unico, poiché entrambe le operazioni conducono esattamente alla medesima struttura partecipativa e allo stesso risultato (23 (24).
2.3 L’operazione di fusione attuata per l’accorciamento della catena partecipativa
Non può non ricordarsi, se si parla di abuso del diritto, anche la questione della fusione per incorporazione utilizzata come strumento per accorciare una catena societaria, tramite l’eliminazione di una subholding o di altra società controllata – magari con ingenti disponibilità finanziarie per aver ceduto la partecipazione che deteneva o altri suoi asset aziendali – con lo scopo di ottenere, a livello di gruppo, risparmi in termini di costi e di tempo. Si pensi, al riguardo, ai compensi da corrispondere al collegio sindacale e alla società di revisione della società controllata, ma soprattutto al tempo che occorre dedicare alla gestione dei rapporti con questi soggetti, alla redazione del bilancio d’esercizio e delle situazioni economico-patrimoniali infrannuali, alla predisposizione delle dichiarazioni fiscali e, più in generale, ai diversi adempimenti stabiliti dalle normative civilistiche e fiscali (25).
In questo caso l’Agenzia delle entrate tende a contestare l’uso della fusione, affermando che l’operazione più appropriata dovrebbe essere la liquidazione della società controllata. La ragione è evidente: mentre la fusione è un’operazione fiscalmente neutrale, che può permettere, tra l’altro, anche il riporto di perdite fiscali o di interessi passivi da parte dell’incorporante, la liquidazione è invece un’operazione realizzativa, che implica la tassazione delle riserve di utili presenti nel bilancio della società controllata (eventualmente anche la tassazione delle plusvalenze insite nei beni della stessa) e che determina, altresì, la cancellazione delle perdite fiscali e degli interessi passivi pregressi maturati in capo alla controllata.
L’Amministrazione finanziaria giustifica questa impostazione affermando che la fusione per poter essere fiscalmente meritevole deve portare all’integrazione di due business, deve determinare, in altre parole, delle sinergie produttive, commerciali o finanziarie tra le realtà aziendali che si fondono. Se queste sinergie economiche mancano, la fusione viene ritenuta ingiustificata, affermandosi, per contro, la necessità di procedere con la liquidazione della società controllata (26).
Meraviglia come l’Agenzia non si avveda che questa impostazione è fortemente foriera di confusione ed incertezza circa gli effetti fiscali che possono derivare dalla semplice eliminazione di un anello societario. Non si riesce, infatti, a capire quando un’operazione debba prevalere sull’altra, anzi, viene da chiedersi se possa mai praticarsi una fusione per incorporazione nell’ambito dello stesso gruppo, visto che non ci può essere – per definizione – una vera a propria sinergia o integrazione quando il soggetto economico è già lo stesso, semmai ci può essere una semplificazione di taluni processi amministrativi (come, ad esempio, l’eliminazione di fatturazioni infragruppo) o una riduzione dei costi nell’ipotesi in cui vengano unificate alcune funzioni aziendali (prima della fusione duplicate, in quanto presenti sia nella controllata sia nella controllante).
Inoltre, se si agisce nell’ambito dello stesso gruppo perde anche di significato la cronologia delle azioni, aspetto cui l’Agenzia attribuisce invece particolare importanza: si pensi al caso di cui si è fatto cenno sopra, relativo alla fusione di una controllata che, avendo prima ceduto a terzi la propria partecipazione, si trova a detenere, all’atto della fusione, un’enorme quantità di cassa: che differenza avrebbe fatto se detta società fosse stata incorporata prima della vendita della partecipazione? Semplicemente nessuna, purtuttavia l’Amministrazione tende a trattare le due situazioni in modo differente, sostenendo che se la controllata ha già dismesso i propri cespiti aziendali la fusione resta preclusa, dovendosi necessariamente procedere con la liquidazione.
In verità, la differenza, sicuramente radicale, di effetti fiscali che caratterizzano le due diverse operazioni non può essere assunta a motivo di per sé valido per negare la legittimità della fusione. In dottrina è stato correttamente osservato che «l’operazione di fusione ha semplicemente il fine di unificare i due distinti soggetti societari e ciò è possibile e garantito dall’ordinamento civilistico a prescindere dai risultati dell’operazione in termini di produttività o di efficienza funzionale delle aziende unificate. Ma anche sotto il profilo strettamente fiscale il rilievo in esame appare del tutto inconsistente per censurare l’operazione, ove si consideri che il regime di neutralità della fusione è stato previsto ai fini tributari non per una presunta volontà di favorire la crescita produttiva delle imprese, ma semplicemente per rispettare la natura civilistica non realizzativa dell’operazione, consistente appunto in un’integrazione patrimoniale/soggettiva delle imprese interessate» (27).
Proprio queste considerazioni dovrebbero far capire che la fusione per incorporazione è l’operazione più naturale e fisiologica per realizzare nell’ambito di un gruppo di imprese un accorciamento della catena partecipativa, senza contare poi che un utilizzo elusivo della fusione è già adeguatamente contrastato dall’art. 172 del TUIR. Se il pensiero fosse libero da pregiudizi si capirebbe che in relazione ad una mera semplificazione societaria non si può pretendere la sostituzione della fusione per incorporazione con una (presunta più appropriata) operazione di liquidazione, perché sia l’ordinamento civilistico sia quello fiscale, che ne ha favorito l’attuazione prevedendo la sua completa neutralità, attestano che la fusione è l’operazione più idonea per il fine di cui si è detto (28).
Ciò che stupisce maggiormente nel comportamento dell’Amministrazione finanziaria è l’ostinazione con cui vengono ostacolate e censurate le sopra descritte operazioni di fusione societaria, al cospetto di sentenze della Corte di Cassazione, certamente note anche all’Amministrazione, che sanciscono il principio secondo cui «il sindacato dell’Amministrazione finanziaria non può spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale».
In questi termini si è espressa la sentenza della Corte di Cassazione 21 gennaio 2011, n. 1372 (29), affrontando il caso di una fusione di alcune società italiane facenti parte di un gruppo preceduta dall’acquisto da parte di una di esse dell’intero capitale sociale delle altre. La società cessionaria aveva finanziato l’acquisto delle società correlate tramite indebitamento e l’ufficio finanziario aveva perciò ritenuto che la deduzione degli interessi passivi da parte dell’incorporante rappresentasse un risparmio fiscale indebito poiché detta società poteva procedere alla fusione senza necessità di acquistare preventivamente le azioni delle incorporate. Pertanto, considerato che esisteva una strada alternativa per giungere alla fusione, averne preferita un’altra fiscalmente meno onerosa costituiva, per l’ufficio, un comportamento elusivo.
La Corte ha affermato, al riguardo, che il divieto dell’abuso del diritto deve essere un principio «applicato con particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche», e conclude, come detto, affermando che «il sindacato dell’Amministrazione finanziaria non può spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili (e cioè una fusione) solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale».
Più di recente, anche le sentenze 26 febbraio 2014, n. 4604 (30) e 14 gennaio 2015, n. 439 (31) hanno ribadito lo stesso principio.
Nella sentenza da ultimo citata i giudici della Corte di Cassazione sono stati chiamati a pronunciarsi circa l’elusività di una modifica dell’assetto aziendale di un gruppo realizzata attraverso la cessione di una partecipazione di maggioranza a favore dei soci della stessa società cedente con successivo acquisto, da parte di quest’ultima, del ramo d’azienda posseduto dalla società oggetto di cessione (in pratica, i soci con tale operazione hanno voluto segregare l’immobile dal resto delle attività aziendali). L’atto impositivo, che si fondava sulla circostanza che la medesima riorganizzazione poteva essere attuata anche tramite operazioni alternative, veniva ritenuto adeguatamente motivato sia dalla Commissione provinciale di Pesaro sia dalla Commissione regionale delle Marche la quale ultima affermava, in particolare, che la società aveva evitato d’intraprendere altre strade negoziali agevolmente percorribili e maggiormente compatibili con gli interessi generali del fisco.
I giudici della Corte Suprema cassano la sentenza d’appello (senza tuttavia decidere nel merito la causa ma rinviando alla stessa Commissione regionale, in diversa composizione) osservando, tra le altre cose, che l’apprezzamento del carattere elusivo di una certa condotta va svolto con la massima cautela «quando non si tratti di operazioni finanziarie (come avviene, ad esempio, nei casi di dividend washing e di dividend stripping), di artificioso frazionamento di contratti o di anomale interposizioni di soggetti (es. transfer pricing), ma di ristrutturazioni societarie, soprattutto quando le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi d’imprese. Deve, in questi ultimi casi, essere indagato se vi siano manipolazioni e alterazioni di schemi negoziali classici, considerate irragionevoli in una normale logica di mercato». Nella specie – concludono i giudici – «non può dirsi che l’operazione manchi di sostanza economica, perché essa è reale, non ha natura circolare ed è coerente col fondamento giuridico dei singoli istituti, mentre, sotto il profilo finalistico, pare rispondere a quelle legittime esigenze di riordino societario e produttivo accertate dal giudice di merito».
E, dunque, la domanda sorge spontanea: come è possibile che l’Amministrazione finanziaria, che dovrebbe prestare la “massima cautela” nell’accertare l’esistenza di eventuali profili elusivi con riguardo a complesse operazioni di riorganizzazione societaria (dovrebbe cioè dimostrare che vi siano state, effettivamente, «manipolazioni e alterazioni di schemi negoziali classici», da considerarsi «irragionevoli in una logica di mercato», oppure che l’operazione abbia avuto “natura circolare”), possa immaginare di potere formulare ipotesi di abuso del diritto in relazione ad un semplicissimo accorciamento della catena partecipativa attuato tramite fusione per incorporazione (ossia tramite un’operazione perfettamente «coerente col fondamento giuridico dell’istituto»)?
2.4 La scissione proporzionale di cassa
Non può, infine, trascurarsi la scissione proporzionale di cassa, operazione considerata da sempre dall’Agenzia delle entrate inevitabilmente elusiva delle norme che prevedono l’imponibilità dei dividendi (artt. 47 e 89 del TUIR).
In questo caso, l’Agenzia delle entrate pretende che in luogo della scissione, volta a trasferire la cassa in eccesso presso la scissa in un nuovo veicolo societario con la finalità di effettuare nuovi investimenti tenendoli separati dal “core business” della scissa, si proceda con la distribuzione delle riserve di utili ai soci e con il successivo conferimento dei denari (al netto delle imposte dovute sulla predetta distribuzione) in una società di nuova costituzione, con buona pace del principio secondo cui il contribuente è libero di scegliere «tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale».
In realtà, anche per l’operazione di scissione (come per la fusione) il regime di neutralità rappresenta una scelta legislativa volta a rispettare la natura civilistica non realizzativa dell’operazione, con la conseguenza che tale regime non può dipendere dall’oggetto che viene scisso, che può anche non essere un’azienda o un ramo d’azienda, ma soltanto un bene isolato (ad esempio, un immobile, un brevetto, un marchio, e finanche semplici disponibilità finanziarie), né più né meno come accade nella fusione, qualora sia incorporata una società che possiede solo un bene specifico o disponibilità di cassa (32).
Ciò non vuol dire, ovviamente, che non possano mai individuarsi casi di elusione in relazione ad operazioni di scissione proporzionale. Potrebbe, ad esempio, configurarsi un’ipotesi di abuso qualora la scissione di un bene isolato sia seguita dalla vendita della partecipazione nella società beneficiaria, potendosi in effetti argomentare a contrario dal comma 3 dell’art. 176 del TUIR che nel nostro ordinamento esiste il principio secondo cui la circolazione di beni isolati, a differenza della circolazione di aziende o rami d’azienda, non può beneficiare della traslazione dell’onere impositivo in capo al cessionario (dalla citata disposizione dell’art. 176 del TUIR si potrebbe infatti, desumere, il principio generale secondo cui le aziende e i rami d’azienda possono circolare liberamente sia sotto forma di “universalità di cose”, beni di primo grado, sia sotto forma di partecipazioni sociali, beni di secondo grado, cosicché il venditore è legittimato a trasferire l’onere impositivo latente sui beni di primo grado in capo all’acquirente, che – acquistando la partecipazione – rileverà l’azienda o il ramo d’azienda sottostanti a costi storici).
Si pensi, ad esempio, al caso in cui il costo fiscale di un dato cespite aziendale posseduto dalla società A sia decisamente inferiore rispetto al costo fiscale che avrebbe la partecipazione in una società B di nuova costituzione, beneficiaria del predetto cespite a seguito di una scissione proporzionale di A (33). In questo caso, ancorché non sia applicabile il regime della participation exemption, sarebbe teoricamente più vantaggioso per il socio procedere alla scissione del bene e alla successiva vendita della partecipazione nella beneficiaria, piuttosto che cedere il bene direttamente tramite la società A. Tuttavia, come detto, l’operazione potrebbe essere considerata elusiva, non essendoci norme nell’ordinamento tributario che agevolano la traslazione delle plusvalenze (in capo al cessionario) quando le stesse non siano riferibili ad aziende o rami d’azienda.
3. Considerazioni conclusive
Non resta dunque che attendere il decreto di attuazione della legge delega n. 23/2014 in materia di “abuso del diritto o elusione fiscale” con la speranza che l’Agenzia delle entrate ne fornisca un’interpretazione coerente con i contenuti delle più recenti sentenze della Corte di Cassazione e con i principi statuiti, sul tema dell’abuso, dalla Corte di Giustizia europea.
Detto in altre parole, la fiduciosa aspettativa di tutti gli operatori è che i vertici dell’Amministrazione finanziaria, prendendo finalmente coscienza del fatto che è il vantaggio “indebito” l’elemento che caratterizza la condotta elusiva e non l’assenza di valide ragioni economiche, forniscano agli uffici periferici delle linee guida interpretative della nuova disciplina dell’elusione o abuso del diritto il più possibile scevre dai pregiudizi che, purtroppo, hanno caratterizzato i comportamenti e le risposte dell’Amministrazione in questi ultimi anni. Come recita la Relazione di accompagnamento alla bozza di decreto legislativo, «la ricerca della ratio [della norma fiscale, n.d.r.] e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione».
Se mai si dovesse perdere anche questa occasione per dare maggiore certezza agli effetti e alle conseguenze fiscali di talune importanti e ricorrenti scelte imprenditoriali, come sono quelle che attengono, in particolare, alle forme giuridiche e agli assetti partecipativi con cui può essere condotta l’impresa, resterà la magra consolazione di potere coinvolgere nel “giudizio di elusività” la Corte di Giustizia europea, come sembra consentire la letterale riproposizione, nel testo della norma delegata, di alcune prescrizioni della Raccomandazione della Commissione europea n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012, che individuano gli elementi costitutivi di una “costruzione o serie di costruzioni artificiosa” (34).
Dott. Paolo Scarioni – Dott. Pierpaolo Angelucci
(1) In Boll. Trib. On-line.
(2) In questi termini A. Manzitti – M. Fanni, Abuso ed elusione nell’attuazione della delega fiscale: un appello perché prevalgano la ragione e il diritto, in Corr. trib., 2014, 1141. Già nel 2008, nel corso del Convegno su “Elusione tributaria: l’abuso del diritto tra norma comunitaria e norma interna” (ved. documento Assonime n. 2/2008) questa errata ricostruzione interpretativa dell’art. 37–bis era stata posta, da I. Vacca, all’attenzione degli operatori. Nel suo intervento, l’illustre Relatore osservava che «Sotto il profilo della prassi amministrativa si è giunti a depotenziare completamente il riferimento della norma all’aggiramento di obblighi e divieti e ad attribuire esclusiva valenza alla esistenza o meno di motivazioni economiche extra tributarie a supporto dell’operazione. Più precisamente si è realizzata, interpretativamente, una sorta di equivalenza fra l’assenza di finalità extra tributarie dell’operazione “sub iudice” e il presunto perseguimento attraverso tali operazioni, e proprio per questa assenza di finalità extra tributarie, di vantaggi fiscali indebiti» (cfr. pag. 11 del citato documento). Anche nella Relazione accompagnatoria alla bozza del decreto legislativo che riformerà la disciplina dell’abuso del diritto viene denunciata questa errata prospettazione degli elementi costitutivi dell’elusione fiscale: in particolare, si legge che «Le maggiori incertezze [circa l’applicazione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, n.d.r.] sono derivate soprattutto dalla non chiara individuazione dei presupposti costitutivi dell’elusione alias abuso. Infatti, la Suprema Corte ha talvolta identificato la nozione di abuso nella sola assenza di valide ragioni economiche extrafiscali dell’operazione; ed ha ritenuto tale assenza sufficiente a giustificare la ripresa a tassazione dei vantaggi fiscali invocati dal contribuente, senza porre il dovuto accento sul carattere indebito degli stessi. Le lacune di tale ricostruzione interpretativa hanno spesso indotto l’amministrazione finanziaria e i giudici a sottovalutare la libertà del contribuente di scegliere tra varie operazioni possibili anche in ragione del differente carico fiscale (ove, beninteso, non sia violata la ratio delle norme tributarie). La qui criticata impostazione si è rivelata tanto più insidiosa laddove si consideri che le ragioni economiche extrafiscali con cui in via esclusiva si intenderebbe giudicare dell’esistenza della condotta abusiva non sono codificate e la loro individuazione si può tradurre spesso in ricostruzioni opinabili e del tutto soggettive. In questa interpretazione ha, perciò, assunto rilevanza del tutto marginale quello che, invece, dovrebbe essere uno dei principali elementi costitutivi dell’elusione-abuso, e cioè il perseguimento di vantaggi non voluti dal legislatore, vantaggi che tradiscono la ratio della norma tributaria e i principi dell’ordinamento. Come si vedrà meglio più avanti, l’importanza di tale elemento è invece ben presente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, secondo la quale va colpito non qualsiasi vantaggio fiscale, ma solo quelli contrari alla ratio dell’istituto di cui si invoca l’applicazione». A quest’ultimo riguardo, ossia sull’impostazione più garantista del principio di legalità adottata dalla Alta Corte di Giustizia europea, vedasi anche il sopra citato intervento di i. vacca al Convegno del 10 luglio 2008, pagg. 13 e 14.
(3) I giudici precisano, al riguardo, che costituisce uno specifico e concreto interesse economico dell’impresa l’estinzione dei debiti bancari pregressi quando possa ottenersi nuova liquidità a condizioni di mercato maggiormente favorevoli.
(4) Vedasi, in proposito, anche il punto 7.14 della sentenza.
(5) All’epoca della stipula del contratto di leasing immobiliare (28 settembre 2001) l’art. 67, comma 8, del TUIR, consentiva all’impresa utilizzatrice l’intera deducibilità dei canoni alla sola condizione che il contratto non avesse durata inferiore a otto anni. Le successive modifiche introdotte dall’art. 5-ter, comma 1, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248 (in pratica, l’allungamento del periodo minimo di deducibilità dei canoni a 15 anni) non potevano rilevare ai fini del giudizio qui in esame in quanto trovavano applicazione con riferimento ai contratti di locazione finanziaria stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione, giusta il disposto dell’art. 5-ter, comma 2, della legge.
(6) Si ricorda, in proposito, che con la riforma della disciplina dell’abuso del diritto sarà codificato il principio secondo cui «Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale» (cfr. bozza del decreto legislativo, comma 4 del nuovo art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212).
(7) In questo senso vedasi la bozza del decreto legislativo sull’abuso del diritto, ove è statuito il principio secondo cui «Sono indici di mancanza di sostanza economica … la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato» [cfr. comma 2, lett. a), del nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000].
(8) Ai sensi del comma 2, lett. b), del nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000 (cfr. la più volte citata bozza di decreto legislativo), sono considerati vantaggi fiscali “indebiti” i benefici “realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”. Nello stesso senso si è espressa la Commissione europea nella Raccomandazione sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012, ove si legge che «la finalità di una costruzione o di una serie di costruzioni artificiose consiste nell’eludere l’imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali del contribuente, contrasta con l’obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali che sarebbero altrimenti applicabili» (cfr. punto 4.5 della suddetta Raccomandazione).
(9) In Boll. Trib., 2009, 816.
(10) Nella descrizione dei fatti di causa (cfr. paragrafo 2 della sentenza) viene infatti riportato che la società locatrice, «grazie al proprio capitale sociale [di L. 10 miliardi, n.d.r.] e a due affidamenti bancari, dietro garanzia, per complessive L. 31.150.000.000, acquista i beni strumentali delle società industriali, tra le quali la Marangoni Pneumatici e la Marangoni Gomma, cedendoli contestualmente in leasing …». Quindi a livello di gruppo la disponibilità di denaro era effettivamente aumentata, essendo stati contratti dalla società locatrice due finanziamenti bancari.
(11) In quello stesso giorno (8 aprile 2009) ci fu un altro identico errore giudiziario da parte dei magistrati della Corte di Cassazione (in parte gli stessi della sentenza Marangoni Pneumatici), per certi aspetti ancora più eclatante. Con la sentenza 8 aprile 2009, n. 8487 (in Boll. Trib., 2009, 887), fu, infatti, dichiarato fondato l’accertamento dell’Ufficio tributario che assoggettava a tassazione ordinaria la plusvalenza di circa lire 26 miliardi derivata dalla vendita da parte della Sergio Tacchini Spa alla sua capogruppo estera di una partecipazione totalitaria alla quale era stato applicato il regime fiscale agevolato (imposta sostitutiva del 10%) di cui all’art. 29 della legge n. 449/1997. La sentenza veniva motivata osservando che «l’ordinamento fiscale non intende premiare scelte imprenditoriali che non siano determinate da valutazioni di economia sostanziale …. È evidente che una operazione economica realizzata al solo fine di ottenere un risparmio fiscale è una operazione che contrasta con l’utilità sociale, sia nel senso che lede il principio di solidarietà, sia nel senso che determina una indebita riduzione del gettito fiscale … Nella specie, si è trattato di un passaggio di mano all’interno dello stesso gruppo societario, che ha soltanto prodotto la realizzazione della plusvalenza a prelievo ridotto, mentre il giudice di merito ha anche accertato in punto di fatto la inconsistenza delle ragioni economiche addotte … è il contribuente che deve fornire le ragioni economiche che gli consentono di accedere al risparmio fiscale, mentre gli obblighi aggirati sono, evidentemente, quelli derivanti dal regime ordinario di tassazione dei redditi». Non v’è chi non veda la ricorrenza dell’errore ad esprimere il giudizio di elusività senza domandarsi se il risparmio fiscale ottenuto dal contribuente sia o meno in contrasto con la finalità delle norme o con i principi generali dell’ordinamento tributario, se sia, in altre parole, “indebito”. Nella specie, la società contribuente, come risulta dagli atti di causa, si era limitata ad applicare un prestabilito regime fiscale di favore, trovandosi nella situazione di soddisfare tutte le condizioni di accesso.
(12) È notizia recente, ad esempio, quella della costituzione da parte di FCA – Fiat Chrysler Automobile di una banca (FCA bank) che opera prevalentemente a servizio del gruppo.
(13) In Boll. Trib., 2008, 1353.
(14) La ris. n. 177/E/2008, cit., è stata fortemente criticata in dottrina: vedasi ad esempio D. Stevanato, Trasformazione in S.r.l. agricola ed elusione tributaria: è davvero aggirato lo spirito della legge?, in Corr. trib., 2008, 1721, e M. Beghin, La trasformazione di società per ragioni esclusivamente fiscali: ancora equivoci in tema di elusione tributaria, in Riv. dir. trib., 2008, II, 620. Ha ricordato, più di recente, la medesima risoluzione anche I. Vacca, L’abuso e la certezza del diritto, in Corr. trib., 2014, 1127, osservando che «La risoluzione stigmatizzava come elusiva la trasformazione di una società per azioni in società a responsabilità limitata al precipuo fine di godere di tale regime fiscale. Ebbene, anche in questo caso non c’è dubbio che la motivazione che ha indotto la società a trasformarsi possa essere stata proprio quella di fruire di tale regime tributario e ciò non di meno non si può non riconoscere la legittimità di questo obiettivo. Se il legislatore, infatti, ha accordato un determinato regime fiscale alle società aventi veste di s.r.l., non richiedendo alcun altra condizione, sarebbe del tutto illogico e iniquo sostenere che una società che si sia ab origine costituita in s.r.l. possa fruire di questo regime e, viceversa, lo stesso regime non possa essere accordato ad una società che da s.p.a. si trasformi in s.r.l. per poter fruire dello stesso trattamento. Sarebbe come dire che il regime in parola è fruibile solo in modo elettivo e cioè solo dalle società che fin dall’origine si sono costituite nella forma di s.r.l.».
(15) Cfr. bozza del decreto legislativo sull’abuso del diritto [comma 2, lett. b), del nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000].
(16) Peraltro, si noti che la successiva distribuzione dei dividendi da parte della società di capitali verrebbe tassata in capo ai soci con un prelievo nel range del 23%-26%, a differenza delle distribuzioni di utili a favore dei soci di società di persone che non scontano alcuna imposizione essendo stati già tassati per trasparenza nell’anno della loro formazione.
(17) La citata disposizione del Testo Unico recita: «Le azioni o quote ricevute a seguito di conferimenti in società, mediante i quali la società conferitaria acquisisce il controllo di una società ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, n. 1), del codice civile, ovvero incrementa, in virtù di un obbligo legale o di un vincolo statuario, la percentuale di controllo sono valutate, ai fini della determinazione del reddito del conferente, in base alla corrispondente quota delle voci di patrimonio netto formato dalla società conferitaria per effetto del conferimento». Pertanto, il conferimento non assicura automaticamente la neutralità dell’operazione, ma determina un regime di realizzo controllato, nel senso che l’operazione può non fare emergere alcuna plusvalenza. In pratica, il computo della base imponibile dipenderà dal comportamento contabile della conferitaria: più precisamente, non si avrà alcuna plusvalenza in capo ai soggetti conferenti ove la conferitaria incrementi il proprio patrimonio netto in misura pari al vecchio costo fiscale delle partecipazioni conferite, ossia iscriva le partecipazioni ricevute ad un valore non superiore al costo fiscalmente riconosciuto che le dette partecipazioni avevano nelle mani dei conferenti.
(18) Cfr. ris. 18 novembre 2008, n. 446/E, in Boll. Trib., 2008, 1900; ved. anche la precedente ris. 22 marzo 2007, n. 57/E, ivi, 2007, 1464.
(19) In Boll. Trib., 2010, 1057.
(20) L’applicabilità dell’art. 177, comma 2, del TUIR, ad un’operazione finalizzata alla costituzione di una holding famigliare, tramite conferimento di una partecipazione sociale di controllo, trova esplicita conferma anche nella più recente ris. 20 aprile 2012, n. 38/E (in Boll. Trib., 2012, 607), nella quale l’Agenzia ha affrontato il caso del conferimento in una newco, da parte di un gruppo famigliare, del 100% delle azioni di una società attiva nella produzione dolciaria. In quella circostanza è stata altresì chiarita la possibilità, in presenza di costi fiscali diversi tra i soci conferenti, di procedere ad aumenti di capitale con iscrizione di una riserva sovrapprezzo azioni diversa per ciascun socio in modo tale da ottenere una neutralità fiscale “indotta” per ciascuno di essi, preservando le percentuali di partecipazione originariamente detenute da ciascun socio.
(21) Cfr. Circ. Assonime 5 agosto 2010, n. 27.
(22) Ai sensi della citata disposizione «Non rileva ai fini dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il conferimento dell’azienda secondo i regimi di continuità dei valori fiscali riconosciuti o di imposizione sostitutiva di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell’esenzione di cui all’art. 87, o di quella di cui agli artt. 58 e 68, comma 3».
(23) Si osservi, da ultimo, che in entrambe le situazioni la successiva distribuzione di utili (ossia della cassa generatasi dalla vendita della società operativa) dalla holding ai soci persone fisiche sarà, in linea di principio, assoggettata ad un carico impositivo pari a quello ante conferimento.
(24) Vicenda diversa, della quale qui si fa solo un cenno, è la costituzione di una newco strumentale all’acquisto dai soci della partecipazione nella società operativa previamente rivalutata (vedasi da ultimo la legge 23 dicembre 2014, n. 190), magari con pagamento del prezzo dilazionato nel tempo. In questo caso, non può non sorgere qualche dubbio sull’elusività dell’operazione, in relazione ad un possibile aggiramento del vincolo, contenuto nelle varie leggi di rivalutazione, che prevede la rilevanza della rivalutazione effettuata limitatamente al conseguimento di “redditi diversi” e non anche di “redditi di capitale” (si tratterebbe di uno schema alternativo alla rivalutazione delle azioni seguita dall’acquisto pro-quota di azioni proprie da parte della società operativa, operazione questa che pare, in effetti, a forte connotazione elusiva permettendo, nei fatti, la distribuzione di riserve di utili sotto forma di prezzo della partecipazione).
(25) Oltre a ridurre i costi e gli adempimenti amministrativi richiesti dalla ordinaria gestione di un’entità legale (che si presentano maggiori quando la capogruppo è quotata), la fusione può permettere in certi casi (come quello ipotizzato nel testo, in cui la controllata dispone di ingenti mezzi finanziari) di evitare il perpetuarsi di finanziamenti intercompany.
(26) In dottrina è stato osservato che dal comportamento dell’Agenzia delle entrate emerge la «tendenza a motivare i rilievi antielusivi senza valutare la valenza sistematica dei vari regimi giuridici utilizzati, semplicemente prospettando una diversa modalità per realizzare un certo effetto economico, in concreto più onerosa e, come tale, da considerare “aggirata”; è un riflesso della tendenza a considerare “elusivo” qualunque comportamento del contribuente il quale, avendo a disposizione più alternative tra quelle prospettate dall’ordinamento, opti per la soluzione fiscalmente meno onerosa. Anziché concentrarsi sulla ricognizione dei principi strutturali dell’ordinamento tributario che si intenderebbero aggirati, la convenienza accertativa degli Uffici adotta un percorso inverso, facendo leva su una operazione diversa, nella specie più onerosa … e quindi innalzando cortine fumogene sulle valide ragioni economiche, in relazione alle quali si può sostenere tutto e il contrario di tutto» (cfr. V. Perrone – R. Lupi, Incorporazione societaria ed elusione dell’imponibilità del 5% dei dividendi?, in Dial. trib., 2013, 565). Si veda anche L. Miele, Pari dignità tra liquidazioni e fusioni, in Il Sole 24 Ore del 20 marzo 2014, nel quale l’autore, esprimendo un primo commento alla legge delega n. 23/2014, auspica che si chiarisca una volta per tutte che è il vantaggio “indebito” l’elemento che deve caratterizzare la condotta elusiva e non l’assenza di valide ragioni economiche: «È forte l’aspettativa per l’approvazione dei decreti di attuazione della delega fiscale (legge 23/2014) anche per quanto riguarda la disciplina del fenomeno dell’elusione e dell’abuso del diritto. Alcune argomentazioni dovrebbero tuttavia già costituire patrimonio comune del sistema interpretativo delle norme vigenti, a prescindere dalla delega fiscale. Si determina un risparmio fiscale indebito quando il minor onere fiscale deriva dall’aggiramento della ratio delle norme …. Al riguardo, è chiaro quanto già scritto nella relazione governativa di accompagnamento all’articolo 37-bis del Dpr 600/1973 laddove si legge che si verifica un legittimo risparmio d’imposta quando tra i vari comportamenti, posti dal sistema fiscale su un piano di pari dignità, il contribuente adotta quello fiscalmente meno oneroso e che non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra due alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione. Di conseguenza, come riportava la relazione, “le norme antielusione scattano solo quando l’abuso di questa libertà dà luogo a manipolazioni, scappatoie e stratagemmi che – pur formalmente legali – finiscono per stravolgere i principi del sistema”».
(27) Cfr. I. Vacca, op. cit. alla precedente nota 11, 1132.
(28) Ciò, naturalmente, non significa escludere in toto la possibilità che vi siano situazioni in cui la fusione possa essere effettivamente utilizzata al fine di aggirare la ratio e la finalità delle norme fiscali, ma si tratta di casi molto peculiari, come potrebbe essere quello, al verificarsi di certe circostanze, della società incorporata con un patrimonio netto costituito interamente da utili provenienti da Paesi “black-list”.
(29) In Boll. Trib., 2011, 300.
(30) In Boll. Trib. On-line.
(31) In Boll. Trib. On-line.
(32) La neutralità fiscale della scissione è sancita dall’art. 173 del TUIR sia per quanto riguarda le plusvalenze e minusvalenze insite nei beni della scissa (comma 1) sia con riferimento al concambio delle partecipazioni per i suoi soci (comma 3).
(33) Ciò potrebbe accadere, ad esempio, quando la società scindenda è stata acquistata di recente, mentre il bene isolato da essa posseduto ha un costo fiscale quasi completamente ammortizzato e quindi di molto inferiore al suo valore di mercato.
(34) Si ricorda, in proposito, che secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia quando una normativa nazionale si conforma, per le soluzioni che essa apporta a situazioni puramente interne, a quelle adottate in diritto comunitario, esiste un interesse certo dell’Unione europea a far sì che, per evitare future divergenze d’interpretazione, le disposizioni o le nozioni riprese dal diritto comunitario ricevano un’interpretazione uniforme, a prescindere dalle condizioni in cui verranno applicate (in tal senso, Corte Giust. CE, sez. V, 15 gennaio 2002, causa C-43/00, punto 18; vedasi anche Corte Giust. UE, sez. III, 19 luglio 2012, causa C-48/11, punto 22, entrambe in Boll. Trib. On-line). In dottrina vedasi A.P. Dorado, secondo la quale «if Member States adopt a GAAR (General Anti-Abuse Rule) that is identical or very close to the one that is recommended, it can be argued that the ECJ is competent to interpret it in the light of the definition in the Recommendation, even in domestic situations», in Aggressive Tax Planning in EU Law and in the Light of BEPS: The EC Recommendation on Aggressive Tax Planning and BEPS Actions 2 and 6, par. 3.4, Intertax 2015. Va da sé – sempre per costante giurisprudenza della Corte – che competerà, comunque, al giudice del rinvio accertare, tenuto conto di tutte le circostanze di fatto che caratterizzano la vicenda sottoposta al suo esame, l’esistenza o l’insussistenza di un eventuale abuso del diritto (si veda, ad esempio, Corte Giust. UE, sez. VII, 27 ottobre 2011, causa C-504/10, in Boll. Trib. On-line).
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