6 Febbraio, 2015

L’art. 8 della legge organica sul processo tributario (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), rubricato “errore sulla norma tributaria” ci precisa che «la commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce».

Questo enunciato normativo riprende il concetto di errore scusabile in quanto inevitabile. La costruzione sintattica della disposizione non concede spazio alla discrezionalità del giudice tributario: l’uso del verbo nel modo indicativo e al tempo presente sinonimizza un’imposizione; si tratta di un “sollen”. La disapplicazione della sanzione extrapenale configura, accertati che ne siano i presupposti fattuali, un diritto del soggetto passivo e, di converso, un dovere (non quindi un potere, ipoteticamente configurabile ove la formula fosse stata «la commissione tributaria può dichiarare non applicabili …») nei confronti dell’organo giudicante.

La portata della norma si presenta comunque bifronte in termini contraddittori. Sul versante positivo costituisce l’applicazione di un canone – principio di determinatezza o di precisione (1) – costituente un plinto della struttura normativa penale, ossia di quel settore della disciplina elettivamente deputato all’irrogazione di sanzioni.

Di contro la norma – così come concepita (né, d’altronde, avrebbe potuto attingere il proprio statuto teleologico se strutturata altrimenti) – rappresenta un rilevante attentato al concetto di certezza, elemento fondante della disciplina giuridica, recte del diritto tout court.

Volgarizzandone il senso, il produttore normativo ammette di non essere sempre in grado di emanare disposizioni assistite da univoca leggibilità e quindi tali da consentirne una corretta applicazione.

La vicenda svela la sua gravità ove si consideri che la consacrazione normativa di questo deficit produttivo emerge in un settore, il diritto tributario, che costituisce, unitamente al diritto penale, l’unico comparto dell’ordinamento contenente il potere di infliggere una privazione patrimoniale, con l’aggravante della perversa metodologia inflittiva. Le sanzioni tributarie, infatti, sono irrogate non al termine di un procedimento giudiziario come accade per quelle penali, ma in forza di un mero atto amministrativo emesso da colei (la pubblica Amministrazione) che nel processo viene a costituire la parte avversa. Sarebbe come – il paragone appare allucinante ma non privo di senso – se il pubblico Ministero, nella fase istruttoria di un giudizio penale, avesse il potere di infliggere al prevenuto sanzioni, consolidabili o meno in fase dibattimentale. Va inoltre considerato – notazione banale nella sua pragmaticità ma non per ciò priva di ricadute (anche) dirompenti – che un superficiale esame delle singole leggi d’imposta consente di concludere che, in genere, le sanzioni tributarie superano ampiamente nel quantum la multa e l’ammenda, ossia le sanzioni penali pecuniarie.

Per condensare i termini della questione: l’Amministrazione finanziaria, nella c.d. “fase di accertamento” o comunque nell’esercizio del suo potere di controllo sull’operato del contribuente, può – sulla base di norme eventualmente riconosciute ex post come indecifrabili da parte di costui – irrogargli delle sanzioni pecuniarie anche di tale entità da potere giungere in taluni casi alla creazione di un danno grave e irreparabile.

In un panorama funzionale così delineato, il legislatore che non sia in grado di produrre norme assistite da chiarezza e precisione, deve imporsi una seria riflessione.

Il contenuto precettivo della norma in esame, lo si è detto, è un sostanziale auto da fé. E comunque il profilo più inquietante, ad avviso di chi scrive, è costituito dalla discrezionalità potestativa insita nella disposizione.

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Quali concrete indicazioni si hanno in ordine alle «obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni» ritenute causa mali tanti? Il tranquillizzante aggettivo che predica le condizioni di incertezza nasconde in realtà un trabocchetto, atteso che viene abbandonata alla mera discrezionalità del giudice la valutazione di tali condizioni di incertezza. Chi determina oggettivamente oltre quale livello di difficoltà ermeneutiche la norma diviene illeggibile e quindi la sua infrazione non sanzionabile? Non esistono, né appaiono concettualmente concepibili, parametri che fungano da cartine al tornasole atti a porre il giudice in grado di individuare l’indeterminatezza della portata della norma e del suo ambito applicativo. In definitiva si aggiunge opinabilità all’opinabilità. Alla lettura discrezionale della norma da parte dell’Amministrazione finanziaria si coniuga la lettura altrettanto discrezionale da parte del giudice. Se collidono il contribuente è esentato dalla sanzione, ma se concordano la sanzione viene ritenuta pertinente.

Appare superfluo sottolineare la nota che l’Amministrazione finanziaria tenderà a dare della norma un’interpretazione in malam partem nella prospettata carenza di vizi esegetici, mentre il giudice tributario, in assenza di qualsivoglia regola di diritto nonché di alcuna indicazione di prassi, la leggerà secondo il proprio (buon) senso.

Ma vi è un segmento della norma che merita un ulteriore esame. Vi si parla, in riferimento alle disposizioni incolpevolmente violate, di «portata» e di «ambito di applicazione». Le due espressioni, collegate da una preposizione congiuntiva, giustificano delle perplessità ermeneutiche. Cosa si intende, cosa si può, cosa si deve intendere per «portata» di una norma? Si dovrebbe pensare ai suoi limiti operativi esterni, ma l’interpretazione della seconda espressione: «ambito operativo» conduce al medesimo risultato conoscitivo. Pur non pretendendo di esigere limpidità lessicale assoluta dal conditor iuris, parrebbe auspicabile che quantomeno una norma posta a salvaguardia dai pericoli emergenti dall’oscurità di una disposizione normativa si presentasse nei termini della linearità espositiva. Non stiamo deambulando nell’ambito di sofisticate sottigliezze della lingua, al contrario le qualificazioni in oggetto costituiscono nulla meno del clou normativo, atteso che il compito loro affidato nella costruzione disciplinare deve incarnarsi nella funzione di parametro sul quale il giudice è chiamato a misurare l’eventuale patologia interpretativa della norma al fine di neutralizzarne gli effetti perversi specificamente in termini sanzionatori.

Non intendo qui trattare il profilo penale della vicenda, costituendo ciò un palese fuor d’opera. Mi limito a considerare il parallelismo disciplinare realizzato dal legislatore penale tributario. Si tratta dell’art. 15 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, rubricato “Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie” il quale dispone che «al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione».

L’impianto normativo è di modello centauresco. Collocata nell’incipit

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un’ovvia riserva di legge – attesa la precedenza cronologica dell’enunciato codicistico sull’errore che cade su legge diversa dalla legge penale (2)– costruisce lessicalmente la causa di non punibilità mutuandola ad litteram (né avrebbe potuto essere altrimenti: ubi eadem ratio ibi eadem dispositio) dal richiamato art. 8 della legge processuale tributaria. Il risultato, peraltro, ad avviso di chi scrive, conduce in realtà ad una duplicazione delle perplessità interpretative. Infatti, ai problemi sollevati infra per quanto inerisce l’individuazione ermeneutica – e quindi della sfera funzionale – delle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito applicativo della norma indecifrabile, si aggiunge la vexata quaestio della lettura giurisprudenziale del secondo capoverso art. 47. La giurisprudenza, come noto, ha assunto nel tempo una posizione assai rigida sulla determinazione della norma diversa dalla legge penale su cui deve cadere l’errore, dilatando al massimo la funzione integratrice della fattispecie penale da parte della legge extrapenale, ossia costruendo una sorta di vis attractiva in forza della quale una norma che possegga la caratteristica di completare la norma penale viene ricondotta nella classe a cui quest’ultima appartiene. Questa sorta di contagio trasmutativo che incomberebbe sulle norme extrapenali partecipi del medesimo sintagma disciplinare, è icasticamente scolpito, a contrariis, da una sentenza della Suprema Curia (3)la quale ci precisa che «l’errore su legge extrapenale scusa solo quando essa regola rapporti e situazioni di fatto che non intaccano la protezione accordata dal diritto agli stessi beni e interessi perseguiti dalla norma penale».

In effetti «la giurisprudenza – e in particolare quella della Cassazione – su questo tema si ispira a un rigore estremo che ha suscitato e suscita critiche, a volte assai aspre, in quasi tutta la dottrina» (4).

La categorica posizione assunta dai Supremi Giudici non sembra voler tenere conto di un dato che la migliore dottrina (5)ha lucidamente evidenziato, ossia che «la qualificazione di una legge come penale segue un criterio che non è omogeneo alla ripartizione dell’ordinamento giuridico per campi di materia: una disposizione che appartenga, per origine e funzione, ai campi del diritto civile o amministrativo, commerciale o del lavoro o tributario, e così via, può essere allo stesso tempo una norma penale».

Sic stantibus rebus sembra poter convenire sul dato che l’errore sulla norma tributaria, ove riconducibile ad oggettiva incomprensibilità della stessa, possa scusare sia sul piano delle sanzioni (amministrative) tributarie, sia su quello delle sanzioni penali – ove ne ricorrano i presupposti – a condizione che l’organo di giudizio, privo di una precisa regola di diritto, accolli con valutazione soggettiva il predicato di inconoscibilità alla norma violata ossia non sia in grado di definirne la portata e l’ambito applicativo.

Dott. Federico Bellini

(1) L’espressione corrente nella letteratura filosofico-giuridica del XVIII secolo è normalmente “chiarezza delle leggi”: significative in proposito le invocazioni di Voltaire e di Beccaria. La dottrina e la giurisprudenza hanno concretizzato il concetto di chiarezza delle leggi, in sé eccessivamente vago nei suoi confini con l’etica, cristallizzandolo nel principio di precisione, che nella sua maggiore specificità meglio si presta a delimitare il tema. Emblematicamente esso si trova scolpito in una sentenza del giudice delle leggi (Corte Cost. 24 marzo 1988, n. 364) nella quale si afferma che solo in leggi precise e chiare il cittadino può trovare in ogni momento cosa gli è lecito e cosa gli è vietato.

(2) La dizione testuale dell’art. 47, terzo comma, è la seguente: «l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato».

(3) Corte Cass., sez. I pen., 21 gennaio 2004, n. 1668, in Lattazzi, Codice Penale, Milano, 2008, sub art. 5, 452.

(4) Contento, Corso di diritto penale, II, Roma-Bari, 2000, V ed., 194.

(5) Pulitanò, Diritto penale, Torino, 2011, IV ed., 353.