Procedimento – Ricorsi – Ricorso cumulativo improprio – Art. 103 c.p.c. – Applicabilità al processo tributario – Sussiste – Contestuale impugnazione da parte di una pluralità di contribuenti di una pluralità di atti impositivi con unico ricorso – Ammissibilità.Procedimento – Ricorsi – Litisconsorzio – Inammissibilità del ricorso cumulativo improprio – Non si configura – Art. 103 c.p.c. – Applicabilità al processo tributario – Sussiste – Interpretazione dell’art. 18 del D.Lgs. n. 546/1992 ostativa alla proponibilità del ricorso cumulativo improprio – Infondatezza Procedimento – Ricorsi – Ricorso cumulativo – Art. 104 c.p.c. – Applicabilità nel processo tributario – Sussiste – Pluralità di domande contro una stessa parte – Ammissibilità.
In base all’art. 1, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che non contiene alcuna norma in ordine al cumulo dei ricorsi, ma solo la disciplina del litisconsorzio (all’art. 24) e della riunione dei ricorsi (all’art. 29), è applicabile anche al processo tributario l’art. 103 c.p.c., in quanto pienamente compatibile con il sistema eretto dallo stesso decreto, con conseguente ammissibilità del ricorso cumulativo improprio, presentato congiuntamente da più contribuenti avverso più atti impositivi.
All’interno del processo tributario disciplinato dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non si rinviene alcuna incompatibilità con l’istituto del litisconsorzio improprio di cui all’art. 103 c.p.c., non ostando alla legittimità della proposizione di ricorso collettivo, proponente identiche questioni per tutti i ricorrenti, né la “prassi” contraria né le norme di cui all’art. 18 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui, utilizzando il singolare, prevede che possa essere impugnato con il ricorso un solo atto, né quelle di cui all’art. 14 dello stesso decreto nella parte in cui limita il litisconsorzio all’ipotesi in cui l’oggetto riguardi inscindibilmente più soggetti, né, infine, quelle di cui all’art. 19 dello stesso decreto.
La previsione espressa del litisconsorzio necessario nel processo tributario non implica quale automatica conseguenza, in virtù del richiamo operato dall’art. 1 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, l’inammissibilità dell’applicazione del litisconsorzio improprio, così come il principio sancito dall’art. 18 dello stesso decreto, secondo cui «ogni atto autonomamente impugnabile può essere impugnato solo per vizi propri», non appare violato dalla mera materiale unicità del ricorso con il quale più soggetti impugnino più atti autonomamente impugnabili per vizi propri deducendo a conforto identiche questioni.
È pacificamente ammissibile la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti di accertamento, dovendo ritenersi applicabile al processo tributario l’art. 104 c.p.c., il quale consente la proposizione contro la stessa parte, e quindi la trattazione unitaria, di una pluralità di domande anche non connesse tra loro, con risultato peraltro analogo a quello ottenuto nel caso di riunione di processi anche soltanto soggettivamente connessi.
[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Pivetti, rel. Crucitti), 22 febbraio 2013, sent. n. 4490, ric. M.A.M., M.G. e M.A. c. Consorzio di Bonifica Integrale Comprensorio Sarno, Bacini del Sarno, dei Torrenti Vesuviani e dell’Irno]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – M.A.M., M.G. e M.A., propongono ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza n. 306/5/06 resa il 15.12.2006 dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania che, nel rigettare l’appello proposto dagli odierni ricorrenti, aveva confermato la decisione di primo grado di inammissibilità del ricorso introduttivo in quanto, secondo i Giudici territoriali, illegittimamente proposto cumulativamente e collettivamente avverso separati atti impositivi emessi a carico di distinti proprietari di immobili aventi diverse caratteristiche.
Resiste con controricorso il Consorzio di Bonifica Integrale Comprensorio Sarno, Bacini del Sarno, dei Torrenti Vesuviani e dell’Irno.
[-protetto-]
MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. I Giudici territoriali hanno argomentato la decisione condividendo l’inapplicabilità al caso in specie dell’art. 103 c.p.c., già affermata dalla C.T.P., sul rilievo che nel processo tributario non viene espressamente disciplinato né il ricorso cumulativo né quello collettivo.
La C.T.R. ha, inoltre, ritenuto che la norma dell’art. 29 del D.Lgs. n. 546/1992 – la quale, prevedendo la possibilità per il Presidente di Sezione di riunire più ricorsi aventi connessione soggettiva ed oggettiva, legittima il ricorso cumulativo – è applicabile nell’ipotesi in cui un soggetto propone un solo ricorso avverso più avvisi di accertamento relativi a più annualità o più imposte relative allo stesso periodo oppure quando più soggetti impugnino lo stesso atto ma non anche nel caso, come quello in esame, in cui a ciascun ricorrente era stata notificata una distinta cartella esattoriale riguardante immobili diversi ed ubicati in zone differenti del territorio comunale per “cui si identificano interessi differenziati”.
2. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’art. 103 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.
Secondo la prospettazione difensivala C.T.R. avrebbe errato a ritenere illegittimo il cumulo soggettivo laddove l’art. 103 c.p.c., disposizione pacificamente applicabile al processo tributario, regola proprio tale cumulo consentendolo non solo nell’eventualità in cui le cause proposte da più soggetti siano connesse per l’oggetto ed il titolo ma anche nell’eventualità in cui la decisione dipenda totalmente o parzialmente da identiche questioni.
3. Con il secondo motivo, proposto in via gradata si deduce la medesima violazione di cui al primo motivo per non averela Commissione TributariaRegionale, una volta ritenuta l’inapplicabilità del citato art. 103 c.p.c., disposto la separazione dei ricorsi ai sensi del comma 2 della suddetta norma.
4. Preliminarmente va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata in controricorso dall’intimato Consorzio. I ricorrenti hanno, infatti, correttamente articolato i motivi sotto l’egida dell’“error in procedendo” deducendo come il Giudice di appello, travisando la portata applicativa della norma invocata, avesse erroneamente pronunciato l’inammissibilità del ricorso introduttivo collettivamente proposto.
Il ricorso è fondato.
Il procedimento tributario, così come delineato dal D.Lgs. n. 546/1992, non contiene alcuna norma in ordine al cumulo dei ricorsi prevedendo, solo all’art. 14, l’ipotesi del litisconsorzio necessario (se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, nonché l’intervento, volontario o per chiamata, dei soggetti che insieme al ricorrente sono destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso) ed all’art. 29 la riunione ad opera del Presidente della Sezione dei ricorsi che hanno lo stesso oggetto o sono fra loro connessi. Il panorama normativo si completa, quindi, con la menzione dell’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, che contiene il rinvio alle norme del codice di procedura civile per “quanto non disposto dal decreto e nei limiti della loro compatibilità con le norme dello stesso”.
In tale ambito normativo, può, pertanto, affermarsi l’applicabilità nel processo tributario dell’art. 103 c.p.c., per il quale, come noto, “più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni”; applicabilità, peraltro, già ritenuta da questa Corte (con sentenza n. 171/91[1]) o, comunque, non esclusa in linea di principio (Cass. n. 10578/2010[2]).
Ciò è sufficiente per ritenere la legittimità del ricorso congiunto proposto da più contribuenti, anche se in relazione a distinte cartelle di pagamento, ove abbia ad oggetto – come evincibile nella specie dal contenuto dell’atto introduttivo integralmente riportato in ossequio al principio di autosufficienza – identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa.
Né al fine di superare detta conclusione vale osservare che il processo tributario è modellato sul giudizio impugnatorio dal momento che quello che rileva non è la struttura del processo tributario, ma la perfetta compatibilità delle norme che lo disciplinano con l’istituto del litisconsorzio facoltativo (Cass. n. 171/1991 cit.).
In questo senso si pone, peraltro, la giurisprudenza di questo giudice di legittimità la quale ritiene pacificamente ammissibile la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti di accertamento, dovendo ritenersi applicabile nel processo tributario l’art. 104 c.p.c., il quale consente la proposizione contro la stessa parte, e quindi la trattazione unitaria, di una pluralità di domande anche non connesse tra loro, con risultato peraltro analogo a quello ottenuto nel caso di riunione di processi anche soltanto soggettivamente connessi (ex art. 29 del D.Lgs. n. 546/1992). E, solo per completezza, giova aggiungere che va nella medesima direzione anche la sentenza n. 3692 del 2009[3] delle SSUU, benché si tratti di un precedente non esattamente in termini, essendosi con detta sentenza ammesso il ricorso cumulativo non avverso una pluralità di atti di accertamento, bensì avverso più sentenze emesse in procedimenti formalmente distinti ma attinenti al medesimo rapporto giuridico d’imposta.
In altri termini, non si rinviene all’interno del processo tributario alcuna incompatibilità con l’istituto del litisconsorzio improprio ex art. 103 c.p.c., non ostando alla legittimità della proposizione di ricorso collettivo, proponente identiche questioni per tutti i ricorrenti né, sicuramente, la “prassi” contraria (posta a fondamento della decisione della C.T.R.) né le norme invocate dal controricorrente che, invece secondo la prospettazione difensiva, fonderebbero “l’inammissibilità di un atto che pretenda di tutelare diversi soggetti per distinte cartelle”. Le norme invocate (art. 18 del D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui, utilizzando il singolare, prevede che possa essere impugnato con il ricorso un solo atto; art. 14, stesso D.Lgs. nella parte in cui limita il litisconsorzio all’ipotesi in cui l’oggetto riguardi inscindibilmente più soggetti; art. 19 stesso D.Lgs. dal quale si evincerebbe il principio obbligatorio dell’autonoma impugnabilità del singolo atto), infatti, in parte non possono leggersi secondo l’interpretazione datane dal controricorrente (così l’art. 18 essendo pacifica l’ammissibilità, a certe condizioni, del ricorso cumulativo), per il resto non appaiono fondanti l’assunto.
La previsione espressa del litisconsorzio necessario nel processo tributario non implica – in virtù del richiamo operato dall’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992 – quale automatica conseguenza, l’inammissibilità dell’applicazione del litisconsorzio improprio cosiccome il principio sancito dall’art. 18 secondo cui “ogni atto autonomamente impugnabile può essere impugnato solo per vizi propri” non appare violato dalla mera materiale unicità del ricorso con il quale più soggetti impugnino atti autonomamente impugnabili per vizi propri deducendo a conforto identiche questioni.
Né, infine, appaiono ostative alla soluzione adottata le eventuali circostanze fattuali che potrebbero, parzialmente, diversificare le posizioni dei singoli ricorrenti, soccorrendo in tal caso, e nella ricorrenza dei presupposti di legge, la separazione delle cause espressamente prevista dall’art. 103, comma 2, c.p.c.
Alla luce delle considerazioni svolte, la sentenza impugnata che non ha fatto corretta applicazione delle norme di riferimento e dei principi illustrati, va cassata con rinvio ad altra Sezione della Commissione Tributaria della Regione Campania perché provveda anche in ordine al regolamento processuale.
P.Q.M. – (Omissis).
La Suprema Corte sdogana il ricorso cumulativo improprio anche nel processo tributario
1. L’ambito della discussione
Per cogliere appieno il peso innovativo, invero notevolissimo, della decisione, occorre premettere un breve excursus sullo stato dell’arte intorno al tormentato tema del ricorso plurimo.
Nel nostro ordinamento, è plurimo il ricorso qualificato dalla declinazione al plurale vuoi a) del momento soggettivo vuoi b) di quello oggettivo vuoi c) di entrambi. Nel primo caso si ha a) il ricorso collettivo (il medesimo atto è impugnato da più soggetti) (1); nel secondo si ha b) il ricorso cumulativo proprio (il medesimo soggetto insorge contro più atti, tutti emessi da un unico altro soggetto); nel terzo si ha c) il ricorso cumulativo improprio (più soggetti impugnano più atti autonomi, tutti emessi da un unico altro soggetto). Tali le tipologie principali e statisticamente più frequenti.
Sull’atto plurimo il codice di procedura civile si sofferma: 1) all’art. 103 (Litisconsorzio facoltativo), primo comma, prevedendo che «Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni»; e inoltre 2) all’art. 104 (Pluralità di domande contro la stessa parte), primo comma, prevedendo che «Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell’art. 10, secondo comma» (2).
Tace invece al riguardo il vigente codice di rito tributario.
Nodo focale diventa pertanto la trasferibilità o meno della normativa processualcivilistica nell’impianto processualtributario. Interrogativo da affrontare tenendo sempre presente che i dettami della prima, or ora testualmente ripresi, attengono esclusivamente a ipotesi di connessione processuale di stampo facoltativo.
Diverso infatti – e anzi concettualmente agli antipodi, benché contiguo – è l’istituto del litisconsorzio necessario, dove è il rapporto sotteso a dover essere sottoposto, per sua natura, a trattazione unitaria: a prescindere dal numero dei ricorrenti e per il solo fatto di essere stato contestato da uno qualsivoglia dei contribuenti interessati. E, perché ciò avvenga, tutte le parti coinvolte debbono (se non altro potenzialmente) partecipare al giudizio, cioè esservi evocate formalmente, pena la insanabile nullità ab ovo del giudizio stesso.
A completare lo scenario, corre inoltre l’obbligo di menzionare un’ipotesi di ricorso plurimo sotto il profilo passivo non riconducibile sotto nessuna delle categorie accennate: quello promosso, contro il medesimo atto, da un unico contribuente contro una pluralità di soggetti per motivi (o blocchi di motivi) diversi, ognuno dei quali attinente in via esclusiva all’una o all’altra parte convenuta ma non a entrambe. È il caso della cartella di pagamento emessa in base a un ruolo licenziato dall’Agenzia delle entrate e poi notificata dall’agente della riscossione: provvedimento pacificamente passibile di impugnazione con un ricorso che al contempo contesti sia vizi contenutistici (con pretesa responsabilità dell’Agenzia) sia vizi procedurali (con pretesa responsabilità del gestore della riscossione).
Questi i confini dell’orizzonte giuridico entro cui si svolge la nostra ricognizione, stimolata dalla recente ed epocale decisione della Sezione Tributaria. Un orizzonte, come si vede, piuttosto ampio, ma con ben delineate demarcazioni interne quanto a impostazione.
2. L’evoluzione del dibattito
La questione dell’ammissibilità del ricorso plurimo latamente inteso affonda le sue radici nella notte dei tempi. Quanto meno ci riporta agli albori del moderno rito tributario, quando con maggiore incisività è stata marcata, a cura di legislatore e interpreti, la transizione dalla visione procedimentale a quella processuale (3). Non a caso essa questione – già profilatasi sotto il regime anteatto, regolamentato dal D.P.R. 26 ottobre 1973, n. 636 (4) – ha imboccato la strada di una più solida e meglio strutturata soluzione (con esiti di segno estensivo) dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (5). Soluzione favorita, come tante altre d’indole processuale, dall’approccio all’operazione ermeneutica con l’avallo di uno spirito nuovo, maturato in questi ultimi anni sotto un duplice influsso: del diritto comunitario, più aperto e vocato alla sostanza contenutistica rispetto alla temperie in cui dottrina e giurisprudenza interne si erano forgiate, e dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), denso e saliente corpus normativo, peraltro sotto il costante scacco di un arbitrario ma purtroppo esiziale svuotamento (come documentano le tante oscillazioni in ordine addirittura alla sua portata nella gerarchia delle fonti).
È andato così modificandosi, in corso di tempo, il taglio della lettura fornita dagli operatori. Fino all’affermarsi di alcuni canoni vincenti, gli stessi che fa propri, dandone esemplarmente conto, la sentenza in commento.
3. Gli argomenti critici superati
1) Ai giudici della legittimità va subito ascritto un merito, l’aver spazzato il terreno dalle obiezioni di carattere letterale su cui tanto, in passato, ha puntato l’indirizzo avverso, quello inteso a negare cittadinanza, nel rito tributario, al ricorso plurimo.
Da dette obiezioni, appunto per sgombrarne immediatamente il campo, muove anche la presente nota, ribadendo l’irrilevanza dell’uso del singolare fatto dall’art. 18 (Il ricorso) del D.Lgs. n. 546/1992 al secondo comma («Il ricorso deve contenere l’indicazione: … b) del ricorrente … d) dell’atto impugnato e dell’oggetto della domanda») e dall’art. 19 (Atti impugnabili e oggetto del ricorso) al terzo comma (secondo periodo: «Ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri»). Ha facile gioco, dal canto suo, la Sezione Tributaria nel far trionfare la ratio iuris e nel sostenere non potersi ritenere violato il dettato legislativo in ragione della «mera materiale unicità del ricorso con il quale più soggetti impugnino atti autonomamente impugnabili per vizi propri deducendo a conforto identiche questioni»; Sezione Tributaria che è andata così al di là di rigidi steccati aprioristici, tipici – sia consentito – di una mentalità ancorata a preconcetti teorici, come quella che, una volta dedotte (o meglio: ritenuto di dedurre) dall’enunciato normativo delle certezze di fondo, non tollera che ce ne si possa discostare, perché qualunque digressione mutilerebbe la saldezza delle verità dogmatiche assunte a premessa.
2) Del deprecato lotto fanno parte anche le voci che sostengono – come è avvenuto nella vertenza in questione ad opera dei collegi territoriali, ma fortunatamente non in ultimo grado – che il ricorso plurimo, in quanto disciplinato dal codice processuale civile ma non dal D.Lgs. n. 546/1992, non può trovare spazio nella branca governata da quest’ultimo.
Proposizione intuitivamente erronea. Vale infatti l’esatto l’opposto: non essendo la figura espressamente normata dal D.Lgs. n. 546/1992 con regole ad hoc (le uniche che potrebbero indurre a un’incompatibilità fra i due sistemi, con scontata prevalenza di esse in forza del principio di specialità), deve essere valorizzato il precetto del capoverso dell’art. 1 del decreto stesso, quello per cui «I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile».
Soluzione obbligata, se si pone mente al fatto, correttamente segnalato dalla Sezione, che «il procedimento tributario non contiene alcuna norma in ordine al cumulo dei ricorsi». Ergo non si vede come si possano dare le due condizioni ostative prescritte: la presenza, nel corpo della legislazione speciale, di un tessuto normativo in parte qua esaustivo e la consequenziale sussistenza, sempre in parte qua, di un contrasto sistematico (anche solo virtuale) fra i due regimi.
4. L’argomento critico prevalente in giurisprudenza contro l’ammissibilità del ricorso plurimo
In giurisprudenza, è riscontrabile un orientamento (finora) saldamente radicato, tenace nell’asserire che, essendo modellato il processo tributario sul paradigma del giudizio impugnatorio, automaticamente ne discenderebbero l’inconfigurabilità del litisconsorzio facoltativo ex art. 103 c.p.c. e l’inammissibilità di un ricorso plurimo, quello che, proposto nei confronti di più atti impugnabili da una pluralità di contribuenti, titolari di distinti rapporti giuridici di imposta, sia sorretto da identici mezzi di doglianza. Ciò perché «se, nell’ipotesi del litisconsorzio facoltativo improprio, disciplinato dalla processualistica civile, le cause possono avere tra loro un rapporto di mera affinità derivante dalla comunanza anche parziale di una o più questioni, nel processo tributario l’indispensabilità dello specifico e concreto nesso tra atto e/o oggetto di ricorso ex art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 e la contestazione del contribuente, richiesta invece dalla peculiarità del relativo giudizio, postula necessariamente che intercorrano, tra le cause, questioni comuni non solo in diritto ma anche in fatto e che esse non siano soltanto uguali in astratto ma consistano altresì in un identico fatto storico da cui siano determinate le impugnazioni dei contribuenti. Infatti, solo allorché i provvedimenti impugnati, pur formalmente autonomi, si risolvano, nel loro concreto articolarsi, in un unico fatto storico nei confronti dei più contribuenti, e questi, versando in un’analoga situazione, muovano anche solo in parte identiche contestazioni, può ritenersi che la definizione delle questioni comuni abbia carattere pregiudiziale rispetto alla decisione di tutte le cause, così da consentire l’ammissibilità, nel processo tributario, di un ricorso al tempo stesso collettivo (proposto da più contribuenti) e cumulativo (nei confronti di più atti impugnabili)» (6).
La sentenza annotata combatte duramente contro la premessa del ragionamento appena riportato, la convinzione cioè che dirimente sia la conformazione impugnatoria del giudizio tributario. Approdando a una conclusione diametralmente opposta, per cui «ciò che rileva non è la struttura del processo tributario, ma la perfetta compatibilità delle norme che lo disciplinano con l’istituto del litisconsorzio facoltativo» (7).
Anche qui, insomma, bando ai preconcetti e largo alle sane, rigorose analisi dei referti edittali, unica bussola da cui l’operatore intellettualmente onesto deve farsi guidare.
Resta lo zoccolo duro del ragionamento, ovverosia che, per rendere ammissibile il ricorso congiunto, le singole liti devono trovare, a proprio cemento, un identico evento storico, non bastando, in uno con la proposizione delle medesime censure in diritto, la semplice affinità fattuale delle singole vicende (8).
In altri termini: che, in linea di massima, il ricorso plurimo di matrice processualcivilistica debba essere accolto nel giudizio tributario è oggi certo (9); incertezze e oscillazioni riguardano semmai limiti e requisiti di tale accoglienza.
Come detto, la giurisprudenza largamente maggioritaria è arroccata sulla visione nominalmente più possibilista ma, alla resa dei conti, assai restrittiva. Infatti, ispirandosi una volta di più al carattere impugnatorio del rito tributario, per un primo verso esclude di voler elevare tale fattore ad argomento decisivo per negare ingresso all’art. 103 c.p.c., ma tende per converso a «limitarne, in buona sostanza, l’applicazione, circoscrivendone irriducibilmente la portata e gli effetti al concreto atteggiarsi nel processo del rapporto tra atto autoritativo e relativa impugnazione» (10). Non demorde cioè dalla tentazione di ancorare tutti i rapporti dedotti davanti al giudice all’identica dinamica storica, sostanziale prima che processuale.
Una tesi invasiva, che ha finito per toccare finanche il ricorso cumulativo proprio (ad esempio, un unico ricorso dello stesso contribuente contro più avvisi relativi alla medesima imposta, ma riguardanti anni differenti) (11). A proposito del quale, nel mentre si è riconosciuto che nessuna norma tributaria contempla l’inammissibilità del ricorso cumulativo e che non può essere esclusa l’estensione dell’art. 104 c.p.c., si è conficcato subito un pesantissimo paletto: «Tuttavia, per ragioni di maggiore chiarezza, l’atto cumulativo appare più facile quando si tratta della medesima imposta o di imposte strettamente legate fra loro, mentre diventa di difficilissima attuazione quando si tratta di imposte diverse, che hanno presupposti, modalità di determinazione e problematiche non coincidenti» (12). Ora, non sfuggono al Lettore la labilità, l’evanescenza, l’intrinseca impalpabilità dell’assunto: cosa significa “più facile”? O un istituto è lecito o non lo è. La complessità della questione rientra fra i dati del problema (e fra i compiti professionali dei difensori prima e del giudice poi).
La tesi, va da sé, coinvolge però in misura più pregnante il ricorso cumulativo improprio, talora risolto nel senso dell’ammissibilità anche dal giudice di merito (13). Sbocco che ora, con la decisione massimata, incontra nel giudice della legittimità un autorevole, convinto suffragio.
Vi leggiamo infatti, espresso senza circonlocuzioni, che «non appaiono ostative alla soluzione adottata le eventuali circostanze fattuali che potrebbero, parzialmente, diversificare le posizioni dei singoli ricorrenti, soccorrendo in tal caso, e nella ricorrenza dei presupposti di legge, la separazione delle cause espressamente prevista dall’art. 103, comma 2, c.p.c.».
Lì – nel negare spessore alla pluralità delle situazioni a monte, alla molteplicità (e contingibilità) delle variabili fattuali sottese dalle singole rivendicazioni – sta la rivoluzione copernicana operata nei mesi scorsi dalla Sezione Tributaria.
Atteggiamento perfettamente allineato al diritto positivo: l’art. 103 c.p.c., infatti, richiede, alternativamente, una «connessione per l’oggetto o per il titolo» o la dipendenza della decisione dalla «risoluzione di identiche questioni», null’altro; così dicasi dell’art. 104, che ha riguardo a «più domande anche non altrimenti connesse». Atteggiamento non meno allineato alla logica, ché delle due l’una: o le digressioni fattuali si configurano come irrilevanti al fine del decidere (e allora l’eventuale scorporo si appaleserebbe quanto mai improvvido sul piano dell’efficienza del servizio giustizia perché, rinviando nel tempo una risposta già ora a portata, vulnererebbe il canone dell’economicità cui oggi il giudice, qualunque giudice, deve manifestare una crescente sensibilità) oppure esse incidono sulla struttura del quesito sottoposto al giudice, e per questa evenienza il rimedio operativo c’è perché «soccorre, nella ricorrenza dei presupposti di legge, la separazione delle cause espressamente prevista dall’art. 103, secondo comma, c.p.c.» (14).
Ne consegue la illegittimità della sanzione dell’inammissibilità inflitta a carico di un ricorso plurimo che abbracci posizioni non derivanti dal medesimo ceppo storico: in primis perché non espressamente comminata dal legislatore e in secondo luogo perché contraria sia al tenore letterale sia allo spirito delle norme di riferimento.
5. Ragioni e implicazioni della distanza fra litisconsorzio facoltativo e litisconsorzio necessario
Alcune riflessioni a titolo di completezza.
Fin qui si sono osservati casi di litisconsorzio facoltativo, dove per facoltativo deve intendersi la libertà delle parti (beninteso entro i limiti ammessi) di presentarsi al giudice in composizione plurima, così semplificandone il lavoro (e collaborando al contenimento dei problemi legati ai verdetti contraddittori); ma anche esponendosi alla possibilità che pendente iudicio il giudice dissoci le varie posizioni sulla scorta di (motivate) ragioni di opportunità processuale (soprattutto sul fronte della speditezza). Casi dai quali va tenuto distinto il litisconsorzio necessario, qualificato dal fatto che «l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti [sì che costoro] devono essere tutti parte nello stesso processo e la controversia [checché vogliano esse parti] non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi». Ivi il giudizio si prospetta ab ovo come ontologicamente unitario (art. 14, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992) (15).
Si assiste cioè a un fenomeno contrario a quelli visualizzati sopra (16). Nei casi che postulano il litisconsorzio necessario (rarissimi e per di più, nella stragrande maggioranza dei casi, controversi), ove l’atto introduttivo non abbia assunto i connotati del ricorso soggettivamente plurimo perché «non è stato proposto da o nei confronti di tutti i soggetti indicati nel comma 1», allora è il giudice in persona che deve «ordinare l’integrazione del contraddittorio» (art. 14, secondo comma). Se ciò non avviene, la sentenza pronunciata è inutiliter data in quanto «il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento» (17). Di palmare evidenza il corollario processuale che ne va tratto: la infrazionabilità del litisconsorzio, con impraticabilità dello scorporo di una o più delle liti dall’unico tronco.
Avv. Valdo Azzoni
(1) Al ricorso plurimo dal punto di vista soggettivo corrisponde «un cumulo processuale soggettivo, ossia un giudizio con pluralità di parti [che] può attuarsi sin dall’inizio del processo, allorché la domanda sia proposta congiuntamente da (o nei confronti di) una pluralità di soggetti; oppure anche quando più soggetti agiscano (o siano convenuti) autonomamente, in separati giudizi, e le cause siano riunite in un unico processo; oppure ancora quando alcuni soltanto agiscano (o siano convenuti) e altri sopraggiungano successivamente» (Codice di procedura civile commentato, a cura di r. vaccarella – g. verde, Torino, 1997, 761).
(2) Sia l’art. 103 sia il successivo (quest’ultimo per richiamo in bianco al primo) prevedono, al secondo comma, la possibilità, per il giudice, di «disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo» e di «rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza». Siffatta eventualità è invece recisamente scartata per il litisconsorzio necessario, in virtù delle medesime ragioni che presiedono alla sua esistenza e che comportano il divieto di frazionamento.
(3) Stranamente, e pur nella sua incontestabile diligenza semantica, la sentenza massimata indulge nel definire il rito tributario con la locuzione “procedimento” (in luogo di quella, più consona, di “processo”). Un piccolo neo che non ne intacca l’elevata qualità.
(4) Vigente il regime abrogato, il ricorso cumulativo, in disparte qualche cedimento, era per lo più ritenuto ammissibile (c. glendi, Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1990, 211, con folto stuolo di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali).
(5) Cfr. Cass., sez. I, 10 gennaio 1991, n. 171, inBoll. Trib. On-line. È uno dei tre arresti a cui la decisione massimata fa dichiarato rinvio come precedenti tendenzialmente conformi. Su di essa si ritornerà nel testo.
(6) Cass., sez. trib., 30 aprile 2010, n. 10578, inBoll. Trib. On-line. Si tratta della seconda decisione citata nella sentenza in rubrica. In discussione erano le posizioni IRAP di più contribuenti nei confronti della medesima Agenzia delle entrate, posizioni sostenute con un identico petitum (annullamento dei singoli atti e rimborso delle somme versate) e con identiche causae petendi (carenza di attività autonomamente organizzata). Inutile dire che nell’occasionela Suprema Corte ha mostrato pollice verso all’ammissibilità del ricorso plurimo.
(7) Cfr. Cass. n. 171/1991, cit. Ivi un’annotazione particolarmente importante, perché smantella in nuce la tesi ostile all’ingresso del litisconsorzio facoltativo nelle griglie del processo tributario. Nella sezione motiva vi si legge infatti una verità sacrosanta, quella per cui «nel tipico procedimento impugnatorio, quale è quello che si svolge innanzi al giudice amministrativo, è espressamente previsto il litisconsorzio facoltativo ex parte actoris» (si richiamano, al riguardo, l’art. 35 del Testo Unico sul Consiglio di Stato e l’art. 6, n. 4, del relativo regolamento processuale). Verità tanto più attuale nella vigenza degli artt. 49 ss. del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, recante il riordino del processo amministrativo. Va ricordato come il processo amministrativo apra al ricorso collettivo contro il medesimo provvedimento argomentando ex art. 103 c.p.c. Ciò «purché gli interessi fatti valere non siano divergenti e contrastanti fra loro al momento dell’impugnativa, in modo tale che l’eventuale accoglimento del ricorso, pur fondato sugli stessi motivi, non torni a vantaggio di uno e a danno dell’altro» (Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2009, n. 6323, in Urbanistica e appalti, 2010, 186).
(8) Cfr. Comm. trib. reg. del Lazio, sez. IX, 10 giugno 2002, n. 47, inBoll. Trib., 2003, 387, per cui è «pienamente ammissibile l’unico ricorso proposto dal contribuente avverso più cartelle di pagamento riferite a un unico ruolo e a pregressi atti aventi identica storia processuale».
(9) Ex pluribus, cfr. Comm. trib. centr., sez. XXV, 10 agosto 2001, n. 5950, in Boll. Trib., 2002, 619; Comm. trib. prov. di Viterbo, sez. III, 18 maggio 2000, n. 148, ivi, 2003, 387; Comm. trib. prov. di Treviso, sez. V, 30 luglio 1998, n. 177, ivi, 2000, 466; Comm. trib. II grado di Forlì, sez. II, 15 giugno 1988, n. 656, ivi, 1989, 928; e Comm. trib. centr., sez. I, 8 gennaio 1988, n. 164, ivi, 1988, 726.
(10) Cass. n. 10578/2010, cit. Da notare come essa si premuri di riconoscere che il carattere impugnatorio del giudizio tributario «non osta, in linea di principio, all’applicabilità dell’art. 103 c.p.c., soprattutto sub specie del litisconsorzio improprio».
(11) Il terzo e ultimo precedente invocato (Cass., sez. un., 16 febbraio 2009, n. 3692, inBoll. Trib. On-line) ha riguardato, risolvendola positivamente, l’impugnazione di una pluralità di sentenze proposta, con un unico ricorso, da un ente impositore risultato soccombente in più cause insorte con lo stesso contribuente in ordine al medesimo rapporto d’imposta. Cause condotte «sulla base della medesima ratio ma in procedimenti formalmente distinti» perché riferiti ad annualità diverse (erano dedotte alcune annualità di ICI, accertate in forza del medesimo processo verbale di constatazione). Le vertenze dipendevano insomma dalla soluzione di un’identica questione di diritto, a tutte comune. Nell’occasione le Sezioni Unite hanno ribadito «le ragioni di economia processuale che sorreggono l’ammissibilità del ricorso uno actu avverso più sentenze emesse nel medesimo procedimento» e conferito peso prevalente alla considerazione «di una identica questione di diritto comune a tutte le cause e in ipotesi suscettibile di dare vita … a un giudicato rilevabile d’ufficio in tutte le cause relative al medesimo rapporto di imposta». Si ricordi l’ormai conclamata validità della notificazione di un unico atto di appello al procuratore di più controparti processuali (cfr. Cass., sez. trib., 23 ottobre 2009, n. 22518, in Boll. Trib., 2011, 67).
(12) Cass., sez. trib., 1° ottobre 2004, n. 19666, inBoll. Trib., 2005, 1405; secondo s. cardillo, Il ricorso cumulativo nel processo tributario, ivi, 2003, 1135, «il principio dell’autonomia dell’obbligazione tributaria rispetto a ciascun periodo di imposta» è l’argomento probante per fare pendere la bilancia contro l’ammissibilità del ricorso plurimo.
(13) Comm. trib. prov. di Como, sez. X, 15 ottobre 2002, n. 115, inMass. Comm. trib. della Lombardia, 2003, 43.
(14) Ved. Cass., sez. trib., 20 maggio 2002, n. 7359, inBoll. Trib., 2004, 530: «l’effetto prodotto dall’applicazione dell’art. 103 c.p.c. è quello di consentire la trattazione unitaria di più domande in un unico processo, effetto che risulta del tutto analogo a quello cui si perviene nel caso di riunione di procedimenti ad istanza di parte nel caso in cui questi siano connessi solo soggettivamente». Al massimo è in gioco «la tempestività della domanda proposta dai singoli ricorrenti in forma congiunta, ma non anche la legittimità e ammissibilità del ricorso congiunto o cumulativo», ben potendo, i termini utili alla proposizione del ricorso avverso il silenzio rifiuto, «maturare in periodi diversi in relazione al diverso momento in cui sono state proposte le singole domande in sede amministrativa» (Cass. n. 171/1991, cit.).
(15) Sulla irriducibilità dell’art. 14 del D.Lgs. n. 546/1992 all’omologo civilistico fissato dall’art. 102 c.p.c., cfr. Cass., sez. un., 18 gennaio 2007, n. 1052, inBoll. Trib., 2007, 1143. La peculiarità formale del litisconsorzio necessario tributario consiste nel non dettare, a differenza di quanto fa l’art. 102 c.p.c., una norma in bianco, ma nell’«indicare positivamente i presupposti nella inscindibilità della causa determinata dall’oggetto del ricorso». L’istituto – proseguela corte regolatrice – trova giustificazione, sul piano costituzionale, quale espressione dei principi di cui agli artt. 3 e 53 Cost., essendo funzionale alla parità di trattamento dei coobbligati e al rispetto della loro capacità contributiva.
(16) In dottrina si legge: «Sotto l’etichetta “litisconsorzio necessario” si considereranno le questioni di legittimazione ad agire e a contraddire dirette a individuare i soggetti che devono assumere la veste di parte di un processo; sotto quella “litisconsorzio facoltativo”, i problemi di connessione e di economia processuale, al fine di determinare i limiti di ammissibilità dei giudizi con pluralità di parti. Sotto quella “cumulo”, necessario o facoltativo, infine, si esamineranno le questioni relative allo svolgimento di un processo nel quale sia presente una pluralità di parti, in veste di attori, di convenuti, di interventori … Il litisconsorzio necessario, qual è inteso oggi in Italia, costituisce un limite alla libertà di agire in giudizio, perché subordina l’emanazione della pronuncia sul merito alla estensione della domanda a soggetti diversi dall’attore e dal convenuto originari» (g. costantino, voce Litisconsorzio I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, 1990, XXI, 3). Al versante della facoltatività l’art. 14 del D.Lgs. n. 546/1992 ci riporta con il terzo comma, laddove contempla l’intervento volontario e la chiamata in giudizio di coloro «che, insieme al ricorrente, sono destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso». Ai quali è precluso di «impugnare autonomamente l’atto se [per loro] al momento della costituzione è già decorso il termine di decadenza» (sesto comma). Le due disposizioni, gli artt. 14 e 19 del D.Lgs. n. 546/1992, sono connesse. Leggiamo in a. fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 709, che la nozione di atto impugnabile definita dall’art. 19 «rappresenta il punto di riferimento per l’individuazione delle parti processuali, cioè il ricorrente e l’ufficio nei confronti del quale il ricorso è proposto … Nell’ipotesi in cui, accanto all’interesse del soggetto contro cui si è rivolta l’iniziativa amministrativa, si inseriscono concorrenti interessi di soggetti non direttamente toccati dall’atto impugnato, ma suscettibili di pregiudizio in relazione agli esiti del contenzioso, troveranno ingresso nel processo tributario gli istituti processualcivilistici dell’intervento adesivo o della chiamata in causa, previsti dall’art. 14 del D.Lgs. n. 546/1992».
(17) Integra sicuramente una fattispecie di litisconsorzio necessario originario il giudizio sull’accertamento che si pone a base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui all’art. 5 del TUIR, nonché, a cascata, dei soci delle stesse, stante l’automatica imputazione a costoro dei redditi in parola, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili e indipendentemente dalla percezione effettiva. Qui, infatti, la materia del contendere si radica non nella singola posizione debitoria, ma negli «elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato». Così Cass., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14815, in Boll. Trib. On-line, profondamente innovativa e da allora costantemente seguita (per tutte, ved. Cass., sez. trib., 29 luglio 2011, n. 16661, ivi; e Cass., sez. trib., 4 dicembre 2009, n. 25567, in Boll. Trib., 2010, 224). Per una successiva, calibrata definizione dell’assunto, ved. Cass., sez. trib., 18 febbraio 2010, n. 3830, in Boll. Trib. On-line; per un’applicazione del principio in tema a) di redditi societari determinati sulla base del contributo diretto lavorativo (c.d. minimum tax), ved. Cass., sez. trib., 18 maggio 2009, n. 11468, ivi; e di b) IRAP, ved. Cass., sez. un., 20 giugno 2012, n. 10145, in Boll. Trib., 2012, 1103, con nota di s. servidio, Società di persone e IRAP: accertamento unitario e litisconsorzio necessario. Nessuna necessità invece di simultaneus processus ove l’accertamento a carico della società di persone investa il maggior imponibile IVA, appunto mancando un analogo meccanismo di unicità di accertamento e di automatica imputazione ai soci, con connessa comunanza di base imponibile (e conseguente trasmigrazione) tra i tributi a carico della società e i tributi a carico dei soci (cfr. Cass., sez. trib., 25 marzo 2011, n. 6897, e Cass., sez. trib., 19 maggio 2010, ord. n. 12236, entrambe in Boll. Trib. On-line); tra sostituto e sostituito di imposta non si può instaurare un litisconsorzio necessario, atteso che «il rapporto di solidarietà passiva non dà mai luogo, neppure nel processo tributario, a litisconsorzio necessario, ma, eventualmente, solo a quello facoltativo» (Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8504, in Boll. Trib. On-line): ved. anche m. tortorelli, La giurisdizione nelle liti tra sostituto e sostituito d’imposta. Tra nomofilassi discorde e profili sostanziali del meccanismo della sostituzione, in Boll. Trib., 2012, 488.