Verdetto ineccepibile, da additare a modello in ragione dei nervi scoperti che tocca.
Nondimeno abbisogna di qualche puntualizzazione tecnica.
1. Inquadramento della decisione
In primo luogo, doverosamente la Commissione tributaria regionale della Lombardia si è presa sulle spalle il peso delle carenze riscontrate nella sentenza oggetto di riesame, ove – stando alle sue parole – «la conclusione alla quale è pervenuto il Collegio provinciale appare estremamente scarna e, come tale, carente di quel necessario iter logico-argomentativo, funzionale alla comprensione del convincimento ivi espresso (artt. 116, primo comma, c.p.c. e 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992)» (1).
Peraltro l’imprecisione lessicale in cui cade la reprimenda è fin troppo evidente: se il giudice di prime cure ha sbagliato, non è stato nella “conclusione” raggiunta (tant’è vero che la stessa è stata integralmente confermata e il gravame promosso dall’Ufficio punito – linearmente – con l’accollo, non indolore, delle spese di lite), quanto piuttosto nella “motivazione” (appunto nell’apparato “logico-argomentativo”), essa sì apparsa esile e inadeguata alla gravità delle questioni. Lo stesso riferimento normativo (all’art. 116 c.p.c., intitolato Valutazione delle prove, il cui primo comma recita: «Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti») non coglie probabilmente le intenzioni dell’estensore, il quale – altrettanto probabilmente – teneva d’occhio il successivo art. 132 (Contenuto della sentenza), in ispecie il n. 4 del secondo comma («La sentenza deve contenere… la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione»).
Come dire, e concordiamo: sarà anche vero – concetto su cui, opportunamente, la sentenza insiste – che gli scritti difensivi devono essere stringati in nome dell’economia processuale, modulazione del canone del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. (2) (sempre ammesso che la memoria allestita dalla parte appellata, vittoriosa in primo grado, con le sue 53 pagine si configuri «poco rispettosa del principio di sinteticità degli atti», come ruvidamente rimproveratole), resta però fermo che al giudice si chiede uno sforzo in più di rigore scientifico, comprensivo della correttezza dei riferimenti spesi, in grado di facilitare al meglio l’intelligibilità del verdetto.
2. Il dovere di informazione gravante sull’Ufficio
Detto questo, resta la sostanza, cioè l’importanza della decisione là dove rimarca l’obbligo, in capo all’ente impositore, di indicare, esibire e produrre alla controparte tutte le fonti di prova acquisite prima e assunte poi a base degli atti afflittivi. O, quanto meno, di renderle agevolmente disponibili dopo averle enunciate, pena una falla nell’impianto motivo tale da viziarlo irreparabilmente.
Pertinente, in proposito, il principale riferimento legislativo chiamato a sostegno della pronuncia, cioè l’art. 7 (Chiarezza e motivazione degli atti), primo comma, ultima parte, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), che recita: «Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama». “Un altro atto”: pertanto tutti – genericamente e indistintamente, qualunque ne sia la provenienza – gli atti cui si attinge per supportare l’accusa. Del resto – disciplinando i criteri di redazione dei verbali degli “Accessi, ispezioni e verifiche”, cui si intitolano gli artt. 55 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di IVA, e 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in materia di imposte dirette – il legislatore non ne circoscrive affatto la portata inquisitoria alle persone (fisiche o giuridiche) direttamente coinvolte; ergo essi possono riverberarsi nella sfera giuridica di altri (purché, beninteso, il collegamento intersoggettivo sia effettivo e non fittizio) (3), fatta salva la regola – sempre immanente – per cui la relativa prova incombe ei qui dicit, cioè sull’Amministrazione finanziaria. Va da sé che, se la documentazione rilevante emersa aliunde può nuocere al contribuente, costui ha diritto di controbatterla e per farlo deve conoscerla, preventivamente conoscerla (se non altro per sincerarsi che il contenzioso gli conceda delle chance). Sembra la scoperta dell’acqua calda ma non lo è affatto (come dimostra la balbettante resistenza opposta sul punto dalla mano pubblica, sintomo di una impotenza rinvenibile per tabulas).
A ben vedere, il vero problema è un altro: in quali termini (entro quali limiti, con quali modalità) la regolamentazione dettata per l’utilizzo diretto degli strumenti di prova – sia in fase di contestazione sia in fase di loro confutazione – ha cittadinanza allorché invece si tratti di utilizzo indiretto, ovverosia pro e contro il destinatario per così dire mediato?
A paradigma del ragionamento ben possiamo assumere – come hanno fatto i giudici meneghini – l’art. 12, settimo comma (4), della legge n. 212/2000. Il quale, intitolato Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, è stato oggetto su queste colonne di vivaci e ficcanti contributi, al punto che chi scrive ha l’ardire di pensare non siano risultati estranei alla presa di coscienza maturata, nel tempo, in seno alla giurisprudenza. Sempre però prendendo in considerazione la posizione del contribuente sottoposto alle verifiche, non nel caso – appunto – di utilizzo indiretto.
Ebbene, non può negarsi che, ove le risultanze di dette verifiche siano state utilizzate contro di lui, la difesa del terzo estraneo alla verifica originaria ha pieno titolo per infirmarne presupposti e conclusioni, a partire dalla legittimità dell’autorizzazione rilasciata dal magistrato (quand’anche non contestata o contestata infruttuosamente dal soggetto cui era inizialmente diretta) (5). Ciò per l’elementare argomento che l’onere della prova è sempre più faticoso man mano che l’oggetto si allontana nel tempo e nello spazio. Ergo nulla osta a che il contribuente A ricusi validità e pregnanza del processo verbale di constatazione elevato a carico del contribuente B e speso contro di lui (6), quindi pure l’eventuale violazione del termine dilatorio di sessanta giorni intercorsi fra consegna o notifica del processo verbale di constatazione e notifica dell’avviso di accertamento (anche se, intuitivamente, all’epoca, A non avrebbe potuto “mettere lingua” al riguardo); o, ancora, la mancata motivazione delle “ragioni d’urgenza” che hanno portato all’adozione di quest’ultimo (7).
Di qui – come si legge, esemplarmente detto, nella sentenza – «la règle de droit posta a tutela dei diritti fondamentali del contribuente in relazione, non da ultimo, all’esercizio della tutela giurisdizionale piena, governata dal principio della effettività (si confrontino, ad esempio, gli artt. 19 TUE e 1 c.p.a.)… [règle de droit la cui] violazione non può non determinare, di certo, un effetto invalidante, derivando da essa la nullità degli accertamenti contro cui la parte appellata è insorta» (8).
In altre parole: il vizio nell’iter inficiante il procedimento altrui vizia anche il nostro procedimento e così, per proprietà naturale, il provvedimento che ci tocca.
Così si spiega la citazione, svolta nella sentenza del giudice milanese, agli artt. 41 (Diritto ad una buona amministrazione) e 52 (Portata dei diritti garantiti) della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. “Carta di Nizza”) (9), nonché all’art. 1 del codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ripreso alla nota 7. Peraltro non avrebbe guastato un accenno alla nostra Costituzione, agli artt. 24, primo comma («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi») e 113, primo e secondo comma («1. Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. 2. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti»).
3. Prospettive e varchi
Non meno lodevole la decisione massimata nel qualificare la conclusione delle operazioni di verifica come momento di svolta nel dialogo erario-contribuente perché «implica una cesura integrante il momento da cui decorre il termine per consentire l’esercizio del contraddittorio preventivo». Essa è davvero lo spartiacque fra “un prima e un dopo”, un diaframma fra la fase dell’incontro fra le parti e la fase del confronto (benché ancora endoprocedimentale, ancora potenzialmente conciliativo e chiarificatore, ma pur sempre con palesi connotati di precontenziosità che tendono a irrigidire i rispettivi ruoli).
Se questa impostazione è corretta, non solo colui che abbiamo denominato contribuente A ha titolo – sottolineo: fin dall’avvio dei contatti, ben prima dell’adizione del giudice, extrema ratio – per conoscere (nelle forme di legge: non di straforo o informalmente) e per impugnare il verbale in precedenza stilato nei confronti del contribuente B; non solo ha titolo per eccepire tutte le carenze rilevabili in proprio da quegli (vi abbia pensato o meno né importa con quale riscontro); ma ha un’ulteriore, totale autonomia difensiva: quella, stando all’esempio, di dedurre a sua volta la violazione del termine perentorio di sessanta giorni intercorsi fra la notifica a lui, A, del verbale relativo a B, da un parte, e, dall’altra, l’avviso di accertamento che – a prescindere dalla sorte del primo – personalmente lo riguarda. In conclusione: con A si apre un’altra vicenda, perché res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest e il giudice dovrà guardarsi dal farsi influenzare dall’andamento di vicende altrui (per quanto fatalmente collegate).
E ancora – profilo lasciato in chiaroscuro nella decisione in commento, ma suscettibile di prospettive interessanti – il processo verbale di constatazione, benché atto non autonomamente impugnabile (ved. art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), si va conquistando, nell’economia del rapporto erario-contribuente, una collocazione di spicco. Che lo fa tendere, da fenomeno facoltativo e sporadico, a fattore necessario (10) e quindi obbligatorio (11).
Con questo, però, siamo già nel futuro.
Avv. Valdo Azzoni
(1) Una volta visualizzati gli errori commessi dal giudice a quo, la Commissione tributaria regionale non ha il potere di restituirgli la vertenza per una rinnovata riflessione condotta alla stregua delle direttive contestualmente impartite. Ciò in virtù dell’art. 59 (Rimessione alla commissione provinciale) del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che recita: «1. La commissione tributaria regionale rimette la causa alla commissione provinciale che ha emesso la sentenza impugnata [solo] nei seguenti casi: a) quando dichiara la competenza declinata o la giurisdizione negata dal primo giudice; b) quando riconosce che nel giudizio di primo grado il contraddittorio non è stato regolarmente costituito o integrato; c) quando riconosce che la sentenza impugnata, erroneamente giudicando, ha dichiarato estinto il processo in sede di reclamo contro il provvedimento presidenziale; d) quando riconosce che il collegio della commissione tributaria provinciale non era legittimamente composto; e) quando manca la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice di primo grado. 2. Al di fuori dei casi previsti al comma precedente la commissione tributaria regionale decide nel merito previamente ordinando, ove occorra, la rinnovazione di atti nulli compiuti in primo grado. 3. Dopo che la sentenza di rimessione della causa al primo grado è formalmente passata in giudicato, la segreteria della commissione tributaria regionale, nei successivi trenta giorni, trasmette d’ufficio il fascicolo del processo alla segreteria della commissione tributaria provinciale, senza necessità di riassunzione ad istanza di parte».
(2) Art. 111 Cost.: «1. La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. 2. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».
(3) Cfr. Cass., sez. trib., 27 gennaio 2016, n. 1464, in Boll. Trib. On-line, alla cui stregua: a) è illegittimo l’accertamento fiscale basato sulle movimentazioni di conti correnti bancari intestati esclusivamente a soggetti privi di diretto collegamento con la società verificata, ancorché legati ai soci da vincoli familiari, salvo che l’Ufficio non dimostri «il carattere fittizio dell’intestazione del conto o comunque la sostanziale riferibilità alla società o ai soci delle posizioni creditorie e debitorie annotate sul conto medesimo»; b) «l’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria è garanzia ai soli fini del procedimento penale» (ex multis, in precedenza, ved. Cass., sez. trib., 16 dicembre 2011, n. 27149, in Boll. Trib. On-line) e l’autorizzazione da essa conferita alla Guardia di finanza all’utilizzo ai fini fiscali di dati rilevati nel corso dell’indagine penale «è anche autorizzazione alla trasmissione di detti dati all’Agenzia delle Entrate».
(4) Art. 12, settimo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212: «Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza. Per gli accertamenti e le verifiche aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all’articolo 34 del testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, si applicano le disposizioni dell’articolo 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374».
(5) L’autorizzazione del pubblico ministero non è atto dovuto, bensì atto tecnicamente discrezionale, nel senso che si esplica e dipana nel controllo della ricorrenza effettiva dei requisiti oggettivi e soggettivi postulati dalla legge. Appunto la ritualità di siffatto controllo rientra nel ventaglio di diritti di ogni contribuente che subisca esiti lesivi dal suo rilascio e che deduca la nullità dell’accertamento fondato su prove illegittimamente acquisite (cfr. Cass., sez. trib., 19 ottobre 2012, n. 17957, in Boll. Trib. On-line, con riferimento specifico all’accesso all’abitazione del contribuente, per legge subordinata alla presenza di gravi indizi di violazioni la verifica della cui sussistenza ben può essere affidata al giudice tributario di poi eventualmente investito ratione materiae). Più diffusamente, sulla inutilizzabilità della documentazione acquisita illegittimamente, cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. LXVII, 9 novembre 2015, n. 4801, in Boll. Trib., 2017, 161, con nota redazionale favorevole.
(6) Va da sé che le dichiarazioni dei terzi riutilizzate dal fisco in parte qua non possono più essere assimilate a confessioni ex art. 2730, primo comma, c.c. («La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte»). Sul tema cfr. A. COLLI VIGNARELLI, Le dichiarazioni di terzi possono, da sole, fondare la decisione del giudice tributario?, in Boll. Trib., 2015, 300, in nota a Cass., sez. trib., 23 dicembre 2014, n. 27314, ibidem, 298.
(7) Cfr. Cass., sez. un., 29 luglio 2013, n. 18184, in Boll. Trib., 2013, 1427, con note di V. AZZONI, Sessanta e non più sessanta: la violazione del termine dilatorio dello Statuto dei diritti del contribuente costituisce un vizio invalidante dell’accertamento?; F. DEL TORCHIO, Contraddittorio preventivo e ragioni di motivata urgenza; U. PERRUCCI, La “sanzione” dell’invalidità dell’avviso di accertamento emesso anticipatamente rispetto al termine dilatorio di 60 giorni di cui all’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente alla luce della recente sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte.
(8) Art. 19, secondo comma, del Trattato sull’Unione europea del 7 febbraio 1992 (nella versione consolidata del 26 ottobre 2012): «Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione»; art. 1 (Effettività) del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo): «1. La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo».
(9) Art. 41 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. “Carta di Nizza”): «1. Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: – il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio; – il diritto di ogni individuo di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale; – l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni. 3. Ogni individuo ha diritto al risarcimento da parte della Comunità dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni conformemente ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri. 4. Ogni individuo può rivolgersi alle istituzioni dell’Unione in una delle lingue del trattato e deve ricevere una risposta nella stessa lingua»; art. 52 della stessa Carta: «1. Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. 2. I diritti riconosciuti dalla presente Carta che trovano fondamento nei trattati comunitari o nel trattato sull’Unione europea si esercitano alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi. 3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non osta al diritto dell’Unione di concedere una protezione più estesa».
(10) È oggi dato acquisito che tutti gli accessi finalizzati alla raccolta di documentazione devono essere seguiti dalla redazione di apposito processo di chiusura delle operazioni, da rilasciare in copia al contribuente; cfr. Cass., sez. trib., 17 aprile 2015, n. 7843, in Boll. Trib., 2015, 947, con nota di V. AZZONI, Il rilascio del processo verbale a garanzia dei diritti del contribuente, che ha annullato la pronuncia di merito la quale, distinguendo tra verifiche e accessi, riteneva obbligatorio il rilascio del processo verbale di constatazione solo nel primo caso.
(11) Cfr. Cass. n. 7843/2015, cit., e Cass., sez. trib., 11 settembre 2013, n. 20770, in Boll. Trib., 2013, 1590, con nota di P. ACCORDINO, I processi verbali conclusivi delle attività di indagine nel confronto con l’effettività della tutela del contribuente e con le norme statutarie.
Procedimento – Ricorsi – Appello – Accoglimento di una domanda ed espresso rigetto di un’altra indipendente da quella accolta – Impugnazione da parte del soccombente della domanda accolta a favore della controparte – Appello incidentale della parte appellata sulla domanda rigettata in prime cure – Necessità – Riproposizione a norma dell’art. 346 c.p.c. – Insufficienza.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Avviso di accertamento fondato su processi verbali di constatazione redatti a carico di terzi – Obbligo di allegare tali atti – Sussiste – Omissione – Illegittimità dell’accertamento – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Motivazione per relationem a processi verbali di constatazione redatti a carico di terzi – Obbligo di allegare tali atti – Sussiste – Omissione – Illegittimità dell’accertamento – Consegue.
Qualora il convenuto appelli la decisione di accoglimento di una domanda per ragioni solo ad essa intrinseche, che non comporterebbero la fondatezza di quella invece ritenuta infondata, l’attore, per ottenere che sia riesaminata l’altra domanda che aveva proposto in via alternativa e con nesso di indifferenza e senza interferenze oggettive di reciproca esclusione della fondatezza dell’una sulla fondatezza dell’altra, essendo stata espressamente ritenuta infondata dal giudice di primo grado e avendo interesse a rimettere in discussione tale rigetto dell’altra domanda, deve criticarla e, quindi, deve proporre appello incidentale, in quanto la mera riproposizione della domanda ai sensi dell’art. 346 c.p.c. non è sufficiente.
Qualora l’Amministrazione finanziaria fondi i suoi rilievi nei confronti di un contribuente su una complessa attività di indagine, nell’ambito della quale ha proceduto anche con verifiche a carico di terzi soggetti, i processi verbali di constatazione e gli altri atti presupposti redatti nei riguardi di costoro devono, pena l’illegittimità del provvedimento, essere allegati all’avviso di accertamento recante la contestazione o alternativamente esservi riprodotti fedelmente nelle parti utilizzate, così come deve avvenire per tutti gli altri atti eventualmente citati, in osservanza al disposto dell’art. 7, primo comma, ultima parte, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), senza contare che la conclusione della verifica fiscale implica una cesura integrante il momento da cui decorre il termine per consentire l’esercizio del contraddittorio preventivo, ai sensi dell’art. 12, settimo comma, della predetta legge n. 212/2000, specie in relazione al diritto ad una buona amministrazione, statuito dall’art. 41 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata dai Presidenti di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione in occasione del Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000 (c.d. Carta di Nizza), che non soltanto investe anche l’obbligo delle Amministrazioni di motivare le proprie decisioni, ma non può subire limitazioni, in relazione al disposto dell’art. 52 della medesima Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, specialmente nell’ambito dei tributi armonizzati quali l’IVA.
[Commissione trib. regionale della Lombardia, sez. XIV (Pres. Marini, rel. Antonioli), 17 maggio 2017, sent. n. 2101, ric. Agenzia delle entrate c. Triger s.n.c.]
OGGETTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1) La Direzione Provinciale I di Milano, Ufficio controlli, dell’Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, ha notificato, in data 3 luglio 2012, alla Triger s.n.c., l’avviso di accertamento T9B02GI02360-2012, per II.DD., IRAP e IVA, per il periodo d’imposta 2004, con l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie e l’applicazione degli interessi di Legge.
Tale accertamento è conseguito ad una verifica fiscale avviata il 7 maggio 2010, con la comunicazione della notizia di reato, il 20 giugno 2011, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, ipotizzandosi, per l’anno 2004:
– il reato di cui all’art. 8, comma 1, D.L.vo 10 marzo 2000, n. 74, quanto a G.C., titolare dell’omonima ditta individuale, esercente l’attività di trasporto di merci su strada;
– il reato previsto dall’art. 2, comma 3, del citato D.L.vo n. 74/2000, quanto, invece, a R.T., nella sua qualità di legale rappresentante pro tempore della suddetta Triger s.n.c.
2) Alla medesima verifica sono conseguiti i seguenti accertamenti, i quali, in base alle risultanze della suddetta verifica, hanno investito ulteriori periodi d’imposta:
– il n. …-2012, per l’anno 2005, notificato il 3 luglio 2012;
– e il n. …-2012, per l’anno 2006, notificato l’11 luglio 2012.
Inoltre, la società medesima è divenuta destinataria di due cartelle di pagamento, relative, rispettivamente, ai periodi d’imposta 2004 e 2006.
Conclusasi infruttuosamente la procedura di accertamento con adesione, il 10 gennaio 2013, la società citata, mediante ricorso notificato il 15/25 gennaio 2013, ai sensi degli artt. 18 ss. D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, è insorta dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, dinanzi alla quale ha chiesto l’annullamento degli atti impositivi, mediante separati ricorsi, a sostegno dei quali ha articolato plurimi motivi.
3) In particolare, ha lamentato:
a) la tardività dell’accertamento per inapplicabilità del raddoppio dei termini e/o la violazione dell’art. 43 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché dell’art. 57 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633;
b) la carenza di motivazione e la mancata allegazione degli atti fondanti la pretesa erariale, con la conseguente violazione degli artt. 42 D.P.R. n. 600/1973, 56 D.P.R. n. 633/1972 e 7 dello «Statuto del contribuente»;
c) la violazione degli artt. 53 e 111 Cost., del TUIR, dell’art. 14 Legge 24 dicembre 1993, n. 537, in relazione al parziale disconoscimento di costi per prestazioni di servizi oggetto dell’attività di impresa, senza l’abbattimento, proporzionale, dei ricavi ad essi correlati.
Ha inteso resistere ai ricorsi l’Agenzia delle entrate, mediante controdeduzioni depositate in atti, il 29 aprile 2013, ai sensi dell’art. 23 del citato D.L.vo n. 546/1992.
4) Con sentenza n. 11771/22/14, depositata il 22 dicembre 2014, i ricorsi, riuniti per connessione, in applicazione dell’art. 29 D.L.vo n. 546/1992, sono stati accolti dal Collegio provinciale adito, che ha annullato gli atti impositivi opposti, dichiarando l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese processuali.
Il giudice di primo grado, giudicando applicabile il raddoppio dei termini, avendo “l’Ufficio provato l’effettiva denuncia alla Procura”, ha fondato l’accoglimento dei ricorsi, ritenendo che:
– il processo verbale, presupposto dagli accertamenti non risultasse ai medesimi allegato, né in essi indicato;
– le dichiarazioni rese dal legale rappresentante della società ricorrente non potessero essere utilizzate, sul piano probatorio.
5) Avverso tale pronunzia è insorta l’Agenzia delle entrate, mediante tempestivo appello, proposto dinanzi alla Commissione tributaria regionale per la Lombardia, ai sensi degli artt. 53 ss. D.L.vo n. 546/1992.
Suddetta impugnazione è stata affidata ad una pluralità di mezzi i quali, in buona sostanza, risultano intesi a censurare gli originari motivi proposti a sostegno del ricorso introduttivo.
a) Mediante il primo motivo d’impugnazione, l’Ufficio ha illustrato la sussistenza dei presupposti per il raddoppio dei termini, sebbene tale questione sia stata sfavorevolmente per la contribuente, risultata vittoriosa, all’esito della lite.
b) Con il secondo motivo d’appello, poi, l’Agenzia ha inteso dolersi della piena validità delle risultanze della verifica condotta nei confronti di G.C., con il pieno rispetto delle garanzie difensive della contribuente.
c) Mediante la terza censura, infine, l’Erario ha assunto che la società non avrebbe fornito alcuna documentazione in grado di comprovare l’esistenza di un nesso tra costi e ricavi.
6) La parte appellata si è costituita nel secondo grado, il 7 aprile 2017, mediante il deposito di controdeduzioni, ai sensi dell’art. 54, comma 1, D.L.vo n. 546/1992, al fine di resistere all’impugnazione della quale ha richiesto il rigetto, con il favore delle spese.
Tale scritto difensivo, che consta di ben 53 pagine, appare poco rispettoso del principio di sinteticità degli atti, espressamente sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a. Esso viene ritenuto “strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.)”, nonché, “a sua volta, corollario del giusto processo” (C. Stato, Sez. V, 30 novembre 2015, n. 5400. Si veda anche C. Stato, Sez. V, 11 giugno 2013, n. 6002, in Giur. It., 2014, p. 148). Tali principi risultano muniti di copertura costituzionale, in riferimento all’art. 111, commi 2 e 3, Cost., e all’art. 6 della Convenzione EDU, la cui osservanza discende dall’art. 117, comma 1, Cost., secondo l’indirizzo del giudice delle leggi, inaugurato da C. cost., 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in Giur. cost., 2007, pp. 3475 e 3535.
7) Ciò premesso, l’appellata ha richiesto la conferma del primo decisum, precisando che nessun processo verbale sarebbe stato notificato alla contribuente, in guisa da determinare un effetto caducante sugli atti impositivi dei quali costituisce il presupposto, alla stregua della giurisprudenza invocata anche nello scritto difensivo depositato in appello.
Ha riaffermato, poi, l’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 63 c.p.p., delle dichiarazioni rese dall’amministratore in carica della società, in sede di sommarie informazioni (art. 351 c.p.p.).
Nel medesimo scritto, ha contestato la tardività degli accertamenti emessi, assumendo che la notizia di reato, trasmessa il 20 giugno 2011, sarebbe posteriore alla scadenza dei tre accertamenti, scaduti, rispettivamente, il 31 dicembre del 2009 (2004), del 2010 (2005) e del 2011 (2006): tale conclusione è stata propugnata in base ad una interpretazione dello jus superveniens ampiamente illustrato nelle suddette controdeduzioni (pp. 13 ss.).
La società, inoltre, ha svolto diffuse allegazioni in ordine all’onere della prova, investito da una delle censure proposte dall’Agenzia delle entrate, mentre nelle pagine residue ha contestato, nel merito, la fondatezza degli accertamenti, esaminando ampiamente i fatti costitutivi dei medesimi e, segnatamente, la documentazione scrutinata nell’ambito della verifica condotta.
8) La controversia, chiamata per la decisione all’udienza pubblica tenutasi il 20 aprile 2017, nel corso della quale, letti gli atti, visti i documenti, udito il relatore e sentite le parti, è stata trattenuta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE – 9) Va preliminarmente rilevato che la parte appellata ha riproposto la questione della decadenza dell’Ufficio dall’esercizio dell’azione di accertamento, stante la dedotta inapplicabilità del c.d. «raddoppio dei termini»: e, in proposito, ha svolto ulteriori argomenti, che discendono dagli interventi del legislatore sopravvenuti al deposito della sentenza di prime cure.
Merita rilevare, al riguardo, che la questione, di carattere pregiudiziale, è stata risolta in senso sfavorevole nei confronti della parte che è risultata vittoriosa nel merito, con l’effetto che la soccombenza, sul punto specifico, può considerarsi (meramente) «virtuale» o «teorica».
Sicché, il richiamato carattere pregiudiziale della questione, rappresentato dalla permanenza della potestà esercitata dall’Erario impone, intanto, di verificare se la stessa risulti – o meno – validamente proposta in grado d’appello: questo perché la parte appellata si è limitata a riproporre la suddetta questione, ai sensi dell’art. 56 D.L.vo n. 546/1992, che riprende la formula dell’art. 346 c.p.c.
Con l’effetto che il giudice del gravame deve ufficiosamente verificare se, sul punto, possa ritenersi formato – o meno – il giudicato interno, stante l’omessa proposizione del gravame incidentale, a mente dell’art. 54, II alinea, del medesimo D.L.vo n. 546/1992.
10) La questione, invero, risulta assai dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, laddove si contrappongono due diversi orientamenti, recentemente composti, in seguito alla rimessione della suddetta questione, ritenuta di particolare importanza, alla disamina delle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, comma 2, del codice di rito.
Con particolare riguardo alla Sezione tributaria della medesima Corte, la stessa ha ritenuto, di recente, in riferimento all’art. 56 citato, che sulla parte vittoriosa nel merito gravasse l’onere di proporre l’impugnazione incidentale su una specifica questione nella quale era rimasta soccombente, non essendo giudicata sufficiente la mera riproposizione in appello della relativa questione. Questo, come ha precisato il medesimo arrét, qualora il giudice di primo grado abbia espressamente respinto la domanda o l’eccezione, a differenza del caso in cui la sentenza non si sia espressamente pronunciata sulla questione, dichiarandola (o ritenendola) assorbita (Cass., Sez. trib., 5 agosto 2016, n. 16477 (1)).
Analogamente, secondo Cass., Sez. trib., 14 aprile 2015, n. 7523 (2): “qualora la sentenza impugnata abbia, sia pure implicitamente, risolto in senso sfavorevole alla parte vittoriosa una questione preliminare o pregiudiziale, il ricorso proposto dall’avversario impone a detta parte che intenda sottoporre all’esame della Corte la questione stessa, di proporre ricorso incidentale, in considerazione della struttura del giudizio di legittimità, con la conseguenza che l’onere dell’impugnazione gravante sull’intimato va riferito non solo alla soccombenza pratica ma a quella teorica e non può essere assolto con la sola proposizione della questione con il controricorso”.
11) Secondo un contrapposto indirizzo, per converso: “La parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione «le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado», da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l’eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 c.p.c.” (Cass., Sez. lav., 28 novembre 2016, n. 24124. Si confronti anche, per il giudizio di cassazione, Cass., Sez. I, 7 marzo 2016, n. 4472 (3)).
Alla base di tale orientamento risiede il convincimento che, nel caso della soccombenza meramente teorica, difetti l’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) della parte vittoriosa, posto alla radice dell’impugnazione, in dipendenza della soccombenza effettiva (Cass., Sez. I, 30 luglio 2015, n. 16171).
12) Si è anticipato, peraltro, che l’argomento è stato rimesso all’esame delle Sezioni unite, da due ordinanze emesse dalla seconda sezione civile della Corte regolatrice: la n. 2118 del 2015 e la n. 4058 del 2016 (4).
In ordine alla prima, è stata resa la sentenza n. 7700 (5) del 19 aprile 2016, la quale, peraltro, si è occupata specificamente dell’onere della parte vittoriosa in prime cure ad agire in via incidentale. Al fine di riproporre la domanda di regresso, rimasta assorbita, formulata nei confronti del garante per il caso nel quale l’appello possa essere, in tutto o in parte, accolto. Sebbene nel caso di specie il giudice della nomofilachia abbia ritenuto sufficiente la mera riproposizione in appello della relativa questione, a mente dell’art. 346 c.p.c., la sentenza richiamata ha configurato l’onere della parte a proporre l’impugnazione incidentale, ogni qualvolta che una domanda od eccezione sia stata espressamente disattesa. Di conseguenza, secondo tale insegnamento, la parte, risultata soccombente su tale punto, è tenuta a criticare la prima decisione, mediante la proposizione del gravame incidentale, non essendo sufficiente, all’uopo, la mera riproposizione della relativa questione dalla parte risultata vittoriosa.
Non sussistendo valide ragioni per discostarsi da tale orientamento che viene pienamente condiviso, il Collegio regionale adito ritiene di non potersi pronunziare sulla questione della dedotta tardività dell’azione accertatrice, stante la sopravvenuta formazione, sul punto, del giudicato interno per le ragioni sopra illustrate.
13) A questo punto, deve procedersi al vaglio della concorrente questione investita dalla doglianza con cui l’Ufficio ha censurato la sentenza del giudice a quo, nella parte in cui ha affermato che il processo verbale sarebbe mancante e non risulterebbe indicato negli avvisi di accertamento, determinandone la conseguente invalidità.
La conclusione alla quale è pervenuto il Collegio provinciale appare estremamente scarna e, come tale, carente di quel necessario iter logico-argomentativo, funzionale alla comprensione del convincimento ivi espresso (artt. 116, comma 1, c.p.c., e 1, comma 2, D.L.vo n. 546/1992), in guisa da valutarne la correttezza.
Non di meno, sulla questione la parte appellata ha riproposto ampi argomenti, che si prefiggono di confermare il primo dictum, alla luce di considerazioni che il giudice del gravame ritiene di condividere nei sensi e nei limiti che seguono.
14) Va premesso, a questo punto, che l’Agenzia ha allegato, nel ricorso in appello (a p. 5), che gli avvisi di accertamento si fonderebbero, in realtà, non tanto sul processo verbale richiamato, quanto piuttosto alla complessa attività di indagine svolta; e che, inoltre, “non vi era alcun onere di allegazione sia delle risultanze della verifica fiscale effettuata nei confronti del signor C., che degli ulteriori atti citati nell’avviso di accertamento” (a p. 6). Non viene smentita, comunque, la circostanza della redazione di un PVC, portante i rilievi che hanno indotto l’amministrazione finanziaria a redigere i provvedimenti oggetto di impugnazione, trattandosi di circostanza da ritenersi pacifica e non oggetto di contestazione tra le parti.
In particolare, negli atti di accertamento si fa espresso riferimento ad una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di finanza, nei confronti della ditta individuale G.C., il quale avrebbe emesso documenti contabili dei quali era destinataria la società appellata, come viene ribadito, tra l’altro, nelle difese svolte dall’Agenzia delle entrate (si vedano, ad es., le controdeduzioni depositate in appello, a pp. 2 ss.).
15) Non pare revocabile in dubbio, pertanto, alla stregua della documentazione versata in atti, che la pretesa erariale tragga fonte, ancorché indirettamente, dalle risultanze della suddetta verifica, nell’ambito della quale, sul piano istruttorio, sono stati acquisiti elementi ai quali risultano ancorate le ragioni di credito evocate.
Ne consegue che, trattandosi di atti necessariamente presupposti dagli accertamenti impugnati, i medesimi dovevano essere portati a conoscenza della contribuente, in osservanza al disposto dell’art. 7, comma 1, ult. parte, della citata Legge 27 luglio 2000, n. 212/2000, ai sensi del quale (verbatim): “Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.
Va soggiunto, ancora, che, trattandosi di una régle de droit posta a tutela dei diritti fondamentali del contribuente, in relazione, non da ultimo, all’esercizio di una tutela giurisdizionale piena, governata dal principio della effettività (si confrontino, ad es., gli artt. 19 TUE e 1 c.p.a.), la sua violazione non può non determinare, di certo, un effetto invalidante, derivando da essa la nullità degli accertamenti contro cui la parte appellata è insorta.
16) Né può farsi a meno di osservare, per mera completezza, come la conclusione della verifica implichi una cesura integrante il momento da cui decorre il termine per consentire l’esercizio del contraddittorio preventivo, ai sensi dell’art. 12, comma VII, della citata Legge n. 212/2000, specie in relazione al diritto ad una buona amministrazione, statuito dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che non soltanto investe anche l’obbligo delle amministrazioni di motivare le proprie decisione (§ 2, lett. c), ma non può subire limitazioni, in relazione al disposto dell’art. 52 della medesima Carta. Ciò, specialmente, nell’ambito dei tributi armonizzati (da ult., Cass., Sez. VI, 26 maggio 2016, n. 10906 (6), richiamando, sul punto, Cass., Sez. un., 9 dicembre 2015, n. 24823 (7)), come, ad esempio, l’IVA, investita dagli accertamenti costituenti oggetto del presente giudizio.
Quanto, poi, all’eccezione sollevata dall’appellante, secondo cui il PVC ritenuto mancante risulterebbe redatto nei confronti di un soggetto diverso da quello investito dagli accertamenti (appello, p. 7), non pare revocabile in dubbio, come si è già osservato, che il documento in contestazione sia produttivo di conseguenze lesive, a carico della parte appellata, fondando la stessa pretesa erariale, che da esso inferisce il nucleo essenziale dei fatti costitutivi; anche per questo, non può seriamente contestarsi la titolarità di un interesse qualificato, in capo alla medesima, a prendere diretta visione del PVC, al fine di fare legittimo e pieno esercizio delle potestà difensive ad esso riconosciute dal diritto dell’Unione e dall’ordinamento nazionale, nel quadro del giusto processo regolato da Legge (art. 111, commi 1 e 2 Cost.).
16) Tali rilievi, di carattere assorbente, consentono di confermare, nei sensi di cui in motivazione, il primo dictum, con il conseguente rigetto dell’impugnazione proposta, siccome destituita di fondamento, e la caducazione conseguente degli atti investiti dai ricorsi riuniti in prime cure per connessione.
Ogni altra e/o diversa questione, non espressamente esaminata, va ritenuta assorbita.
Le spese di lite seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 12, comma 1, D.L.vo n. 546/1992, e vanno liquidate per il grado come da dispositivo.
P.Q.M. – I. la Commissione respinge l’appello proposto e conferma, per l’effetto, la sentenza impugnata; II. condanna l’appellante alla rifusione delle spese processuali per il grado, liquidate in complessivi € 7.000,00 (settemila/00), oltre ad accessori di Legge.
(1) In Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib. On-line.
(4) Cass., sez. II, 5 febbraio 2015, n. 2118, e Cass., sez. II, 1° marzo 2016, n. 4058, entrambe in Boll. Trib. On-line.
(5) In Boll. Trib. On-line.
(6) In Boll. Trib. On-line.
(7) In Boll. Trib., 2016, 184.